Il fermento creativo generato in Russia dalla penetrazione delle idee del Futurismo italiano, in tempi immediatamente successivi a quelli della terra d’origine, trovò una temperie politica ben diversa da quella del Belpaese. Se il movimento ispirato da Marinetti si nutriva degli ideali imperialisti ed interventisti che sarebbero sfociati nel fascismo, i futuristi russi erano sospesi tra due rivoluzioni di popolo, nella crescente insofferenza per l’imperialismo militarista dello Zar. Questa profonda divergenza alimentò contrasti che sfociarono nella rottura del 1914, in occasione del ciclo di conferenze tenute da Marinetti in Russia. Poeti come Majakovskij e Chlebnikov, più che ad un’elite che doveva liberare l’avvenire dalle ragnatele del passato, si sentivano organici al popolo, sia attraverso l’adesione alle sue istanze politiche e sociali, sia con il riferimento alla tradizione popolare più genuina. Gli impulsi futuristi, recepiti immediatamente dalla letteratura, si diffusero velocemente alle arti figurative (Raggismo e Suprematismo) e alle altre discipline artistiche.
Con la Rivoluzione d’ottobre e l’instaurazione del primo governo dei Soviet guidato da Lenin, fu una conseguenza naturale che questo fermento artistico convogliasse con entusiasmo verso le istanze rivoluzionarie, in questo favorito dal nuovo regime che vedeva nelle avanguardie un formidabile veicolo di propaganda per la colossale opera di rinnovamento che si proponeva. In questa nuova prospettiva, il cinema era destinato a recitare un ruolo da protagonista, per la sua capacità di raggiungere le masse. Fondamentale fu l’apporto teorico di Viktor Sklovskij, paladino dello straniamento (tecnica adattata successivamente al teatro da Brecht, che intendeva sorprendere lo spettatore con effetti linguistici e visivi destabilizzanti) e della superiorità della perfezione formale sul contenuto. In tale contesto, una nuova generazione di cineasti si accingeva a vivere una stagione di grande sperimentazione, destinata a condizionare gli sviluppi futuri della cinematografia mondiale.
Pioniere di questa feconda stagione sperimentale fu Lev Kuleshov, il quale dimostrò l’importanza del montaggio nella narrazione cinematografica. Attraverso l’apparentamento di inquadrature differenti, dimostrò come anche un’immagine di per sè inespressiva, potesse assumere un significato variabile, a seconda dell’immagine che veniva montata in sequenza. Il cosiddetto “Effetto Kuleshov” fu fatto proprio da altri cineasti che svilupparono il montaggio ognuno a suo modo. Dziga Vertov, con L’uomo con la macchina da presa (1929) creò una sintesi straordinaria tra documentario e poesia, delegando la narrazione alle sole immagini, senza una trama predeterminata e senza l’ausilio delle didascalie, ma affidandosi alle relazioni di analogia, di sintesi simbolica e di contrapposizione tra le diverse inquadrature del montaggio. Vertov formulò la teoria del Cine-Occhio per spiegare la capacità della cinepresa e del montaggio di trasformare la realtà più banale in espressione artistica. In Tre canti su Lenin (1934), celebrazione del decennale della morte del padre della rivoluzione, riuscì a mantenere intatta la propria vena poetica e sperimentale, pur negli angusti spazi concessi dall’ormai imperante Realismo Socialista voluto da Stalin.
Lo sviluppo del montaggio fu posto in una prospettiva prettamente narrativa da Vsevolod Pudovkin e Alexander Dovzenko. Il primo, in polemica con il tecnicismo oggettivo di Vertov, rifacendosi alla tradizione del grande romanzo russo, considerò il montaggio come delle “forbici poetiche” con le quali comporre, attraverso tagli e cuciture, un’opera di valore estetico e perfezione formale. Nel suo capolavoro La madre (1926) e negli altri lavori, Pudovkin diede un’importanza fondamentale al ruolo dell’attore e della sceneggiatura nella costruzione dell’epica psicologica che ne contraddistinse lo stile. Dovzenko, muovendosi da posizioni simili, creò con La terra (1930) un’epica degli umili, del loro lavoro e delle loro aspirazioni, frutto di pazienti e meticolose mimetizzazioni nel loro ambiente naturale, così da cogliere le minime variazioni nel lento scorrere temporale.
Ma fu con Sergeij Ejzenstein che la rivoluzione cinematografica russa raggiunse i più alti livelli e la più ampia popolarità. Partendo dallo straniamento di Kulushov, teorizzò il Montaggio delle attrazioni, basato su inquadrature scioccanti e violente montate in maniera non lineare, atte a scuotere lo spettatore dal torpore della fruizione passiva. Questo tipo di immagini venne chiamato dallo stesso Ejzenstein Cine-pugno e la sua funzione era di stimolare la fruizione critica degli spettatori. Coi suoi primi film (Sciopero! del 1924, La Corazzata Potemkin del 1925, Ottobre del 1928 e La linea generale del 1929) si fece cantore dello spirito della rivoluzione, attraverso un’epica muscolare, ma priva di mistificazioni propagandistiche. In particolare con La Corazzata Potemkin, gravata in Italia dall’infelice invettiva di Fantozzi, nella memorabile scena della scalinata, diede una limpida dimostrazione della robustezza delle sue teorie e del virtuosismo inventivo e formale della sua tecnica cinematografica. Grazie a un contratto della Paramount, si stabilì dapprima a Hollywood, ma il suo spirito sperimentale mal si accordava con le leggi ferree della fabbrica dei sogni. Così, grazie a un piccolo finanziamento, si stabilì in Messico dove tentò una riproposizione del ciclo epico russo sullo sfondo della recente Rivoluzione Messicana. Ma la fine dei fondi e la disapprovazione di Stalin lo costrinsero a rientrare in Russia. Il materiale girato venne parzialmente pubblicato dai produttori con la supervisione di altri registi sotto i titoli di Que viva Mexico (1931) e Lampi sul Messico (1933).
Dopo i problemi con l’incompiuto Il prato di Bezin, riuscì ad eludere le rigide norme del Realismo Socialista rivolgendosi alla storia russa, creando delle criptiche analogie tra gli aspetti più cupi dei grandi potenti del passato e Stalin. Dopo aver raggiunto, grazie alla collaborazione con Sergeij Prokofiev, una sinergia assoluta tra musica e racconto per immagine in Alexander Nevskij (1938) e la prima parte della trilogia su Ivan il terribile (1944), suscitò il sospetto del dittatore che bloccò la distribuzione della seconda parte della trilogia, mentre la terza rimase incompiuta per il sopraggiungere della morte del grande regista. Parallelamente alla sua attività pratica, Ejzenstein scrisse e pubblicò una notevole quantità di saggi di teoria cinematografica, ancora oggi imprescindibile fonte per ogni seria e competente storia e critica del cinema.
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