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L'avventura dei sardi in "Il popolo Shardana"

Creato il 19 dicembre 2010 da Zfrantziscu

Presentazione, ieri a Decimomannu, di "Il popolo Shardana". Al tavolo
Marcello Cabriolu, il maestro Luigi Lai e le sue launeddas,
Giuseppe Mura (dietro Lai), Maurizio Riccitelli, Pierluigi Montalbano,
Gianfranco Pintore, Paolo Valente Poddighe, Paolo Marongiu


È da qualche settimana in libreria il libro di Marcello Cabriolu “Il popolo Shardana”, allo stesso tempo fascinoso racconto della avventura vissuta dalla Sardegna e breve trattato, assai ben documentato, sui millenni che precedettero l'era cristiana. In entrambi i casi, occasione per riflettere su un paio di cose. La prima è la interessata approssimazione usata da ampi settori della baronia archeologica nel descrivere la storia dell'isola e dei suoi rapporti con l'esterno, una approssimazione che fondamentalmente parte da una assimilazione solo apparentemente logica: isola = isolamento. La seconda è la pervicacia testarda, e altrettanto interessata, con cui questi settori si chiudono intorno al già detto e il già scritto. Si dovrà leggere questo libro, per esempio, per scoprire che Sant'Antioco, dove l'autore vive, è qualcosa di molto più complesso di quell'isola solo punica che ci hanno tramandato.Come è capitato ai libri di altri eretici, prevedo anche per “Il popolo Shardana” che esso sarà destinato ad essere avvolto in una coltre di silenzio da parte della ufficialità archeologica universitaria e sovrintentendentoriale, con al più qualche saccente sberleffo goliardico, e, allo stesso tempo, al successo in un pubblico sempre più affamato di conoscenza.

Il popolo Shardana, Domus
de janas editore, € 22

Il libro, edito dalla “Domus de janas”, scritto con una bella prosa piana, densissimo di rimandi bibliografici, molto ricco di fotografie, sarebbe un ottimo libro di testo per una scuola che volesse metter da parte le vulgate interessate e raccontare la storia della Sardegna antica. O meglio ancora quel che la storia della Sardegna ha lasciato nel Mediterraneo e non solo. Cabriolu ha la capacità e l'abilità di raccontare cose complesse in un modo che ti cattura e che è allo stesso tempo rigoroso.Il punto di osservazione, come sarebbe naturale che sempre fosse, è questa isola, ma lo è non per raccontare una “storia locale”, la storia di una periferia del Mediterraneo tralasciata dalle altre storie, un'isola isolata. Quasi che fosse un sorta di sardesca rivincita, che pure è presente. Il libro di Cabriolu è una storia globale che parte, appunto, da un particolare, ed eretico, angolo visuale, quello dei shardana che con il resto del Mediterraneo ebbero un profondo processo di reciproca acculturazione, offrendo (o anche imponendo) e raccogliendo molto, compresa la scrittura. Lo stile shardana" scrive "si diffonde ... sino a trovare riscontro persino in Palestina, nelle città di Megiddo e di Hazor, nella fortezza di Sharuhen e nella città di Ugarit e in ultimo nella fortezza di El Hawat - Haifa (considerata una forma di protonuraghe)". I shardana erano uno dei Popoli del mare con cui esistevano vincoli di alleanza come ad esempio possiamo osservare nei “commilitoni” rinvenuti a Teti, i quali, dice il libro, "mostrano, secondo la nostra interpretazione, i vari individui facenti parte della Lega dei Popoli del Mare stanziati nel territorio sardo". Il libro dà per acquisito che i shardana fossero i sardi del secondo millennio avanti Cristo, o meglio pone solidi mattoni affinché a questa conclusione arriviamo anche noi. In questi ultimi tempi, sulla questione si è riacceso il dibattito che, fra i negazionisti, ha spinto qualcuno ad uscire di senno accusando di razzismo e di filonazismo quanti sostengono, appunto, che gli shardana fossero i sardi del secondo millennio. È una baggianata, naturalmente, ma da il senso della ferocia che alcuni sono disposti a mettere in campo, quando le proprie certezze granitiche vacillano.. La lettura che Cabriolu fa dei cosiddetti commilitoni di Teti destina al ridicolo l'uscita dell'archeologo molto ideologizzato ma non altrettanto serio. Anche se umanamente lo capisco: è durissimo ammettere di aver preso una cantonata, aggiungendo la sua alle voci di chi ha speso vite accademiche nella descrizione di una società nuragica chiusa ed isolata. Chi ha concepito barchette nuragiche di pescatori che facevano del piccolo cabotaggio intorno alle coste, stenta a pensare che sia sardo il popolo shardana che varca i mari, commercia con il mondo conosciuto, fornisce muratori specializzati ai potenti del Mediterraneo.Figurarsi, poi, se si possa pensare, come Marcello Cabriolu pensa e scrive con adeguate prove, che i sardi di allora avessero città e stato. "I nuraghi, gli edifici turriti che caratterizzano il territorio sardo, rappresentano appena “la punta dell’iceberg” della cultura statuale creata dalla popolazione sarda" scrive l'autore. E ancora parla della trasformazione di "un sistema civile a prevalente vocazione rurale, in una rete complessa di centri urbani legati alle aree di captazione. Nacquero così le grosse città, quali Tharros, Othoca, Sulky, Nora, Bithia, Nabui, Karaly, Sulci de Ozzastra, Orvia, Corra, Nure". Sulla organizzazione statuale, almeno intesa nel senso pieno e contemporaneo della parola stato, ho molti dubbi e penso, anzi, che i nuragici, conoscendo lo stato di altri popoli, ne rifuggissero. Ma mi pare assolutamente fondata la conclusione cui arriva Marcello parlando delle città sarde e vi rimando alle sue pagine per scoprire le argomentazioni che cambiano quanto fino ad ora la scuola fenicista, o per meglio dire feniciomane, aveva dato per dimostrato e assodato. È noto credo a tutti il luogo comune, un vero e proprio pregiudizio, secondo cui la scrittura nasce con lo stato e con la città. Si tratta di una visione economicista ed utilitarista, la scrittura nasce perché lo stato e la città hanno bisogno di archivi e di cancellerie. Visione smentita da scoperte archeologiche, oltre che dalla scrittura tifinagh di cui parla Cabriolu, di un popolo come il berbero che non ebbe stato e che pure scriveva. Ma se pure quel pregiudizio avesse un qualche fondamento, e non lo ha, il fatto che esistessero e fossero importanti le città nuragiche sarebbe un buon indizio dunque circa la esistenza di una scrittura nuragica. Cabriolu mette in campo la scrittura tifinagh libico-berbera come possibile origine della nuragica, dubitando che possa esserlo quella mediorientale. Così come gli shardana scorazzavano nell'oriente mediterraneo, lo facevano anche nell'attuale Magreb dove stavano i libici e i berberi. E tutto sommato, per noi che non siamo epigrafisti, non ha grande importanza la questione se non per le sue conclusioni: sia come sia, il popolo shardana conosceva la scrittura e suoi scriba la usavano. Allo stato delle cose sappiamo che se ne faceva un uso solo religioso e, in campo civile, solo per dare nome e quantità ai pesi. Ma credo che sia naturale come fu naturale nella pittura, ma anche nella scrittura dell'era cristiana la predominanza del soggetto sacro. Già, ma chi adorava il popolo shardana, era politeista o monoteista? Marcello Cabriolu risponde così: "Si è spesso erroneamente dichiarato che i culti della nazione Nuragica siano stati vari in quanto si è spesso stati incapaci di riconoscere che il culto della Madre Terra è sempre stato uno e unico e tutti gli eventi sono rituali ad esso legati, proprio come quelli attuali relativamente al culto cattolico, almeno nel contesto sardo, ancora di profonda radice neolitica”. Si può discutere molto e a lungo se sia più “à la page” il politeismo o il monoteismo e dare risposte secondo che si sia inculturati al classicismo o all'anticlassicismo. I romani e i greci, per dire, sono, religiosamente parlando, più civili per chi pensa al classicismo come il top della civiltà; i nuragici direbbero di no, che il dio unico dei semiti e loro è espressione più avanzata. Una cosa mi pare certa: le differenze ci sono, sono evidenti, e delineano una civiltà alta quanto le altre del Mediterraneo. Scoprire quanto sia alta e come sia altra è un piacere che proverà chiunque legga questo bellissimo libro. 

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