Autore: Davide EcattiGiovedì 21 luglio 2011, 10:43
Con queste parole Agnese, nei Promessi Sposi, si appresta a consigliare a Renzo di rivolgersi, a Lecco, ad un grande saggio, una cima d’uomo. Agnese non ha dubbi. Lo può aiutare per risolvere i maledetti e improvvisi problemi che hanno reso così difficile il tanto desiderato matrimonio con Lucia.
Agnese dice a Renzo di cercare del dottor Azzecca-garbugli, nome con il quale è noto nella zona. Lo avverte tuttavia di non chiamarlo così. Cerca di ricordarsi qual è il suo vero nome. Non ci riesce. Aggiunge che non è importante. Tutti lo conoscono con quel soprannome. Dunque è un dottore, un sapiente, una persona che ha studiato. Abbiamo la sensazione che il personaggio si esaurisca con lo stesso soprannome. La sua identità, già prima della sua comparsa, ci appare del tutto definita. Egli è ciò che fa e le sue azioni sono rappresentate da come gli altri lo chiamano. Sbroglia difficili questioni giuridiche, affari intricati. Ogni cavillo legale può essere compreso con la sua scienza.
Ritroveremo poi l’Azzecca-garbugli alla tavola di Don Rodrigo. Dunque egli è abituato a servire i potenti, a mettersi al loro servizio.
Sarebbe facile vederlo come l’emblema del servile individuo che sceglie il più forte per arricchirsi, per ottenere privilegi. In realtà egli è molto di più.
Egli è l’arroganza, e il paternalismo insieme, della persona che ha studiato. È la superbia intellettuale derivante dal nozionismo, la presunzione di superiorità che l’istruzione può trasmettere a coloro che sono troppo piccoli per poter comprendere che la cultura dovrebbe essere al contrario motivo e occasione di maggiore libertà per tutti, non elemento di distinzione morale. La cultura è liberazione innanzitutto. È lo strumento capace di liberare la coscienza degli uomini e dunque in grado di farli sentire più vicini.
Per rendersene conto basta riflettere brevemente seguendo un esercizio che forse, per gioco, potremmo chiamare di teoria della conoscenza. Prendiamo due esseri umani. Il primo è un sapiente, ha tre lauree e specializzazioni varie. Il secondo è poco più che un analfabeta. Sono entrambi davanti a un oggetto complicato, ricco di meccanismi e tecnologia avanzata. Il primo conosce tutti gli aspetti di quell’oggetto. Le formule matematiche e i principi in base ai quali funziona. Il secondo riesce a rendersi conto appena della sua utilità. Se il sapiente mette da parte ogni paternalismo e presunzione e si rende disponibile a rendere più consapevole l’ignorante dei segreti dell’oggetto che stanno osservando, essi saranno più vicini. Quell’oggetto sarà l’occasione e il terreno per una loro comunicazione. Non sarà affatto il discriminante per differenziarli.
Adesso mettiamo da parte l’ipotetico oggetto e i suoi meccanismi e sostituiamolo con i sentimenti e la morale.
Penso ad alcune straordinarie lettere scritte dal carcere da Antonio Gramsci. Mi riferisco alle parole indirizzate alla cognata Tania, con le quali considera il problema di comunicare o spiegare alla madre i motivi per cui si trova in prigione. Ora, consideriamo che la madre di Antonio aveva studiato fino alla terza elementare. È quindi probabile e naturale aspettarsi che il suo modo di ragionare fosse ancorato alla semplicità di vita di un ambiente sociale basato su abitudini e tradizioni consolidate e scandite dai ritmi della terra, della fatica, del lavoro. Un ambiente sociale in cui valeva un principio naturale e di buon senso: un uomo viene punito se ha rubato, è condannato al carcere se ha fatto del male a qualcuno; una persona è in carcere se ha fatto qualcosa contro la legge. Ma c’è anche di più. Un uomo in carcere può esserci per un errore e dunque potrà sperare di essere liberato una volta riconosciuto lo sbaglio.
Antonio capisce che la madre pensa in questo modo. È un pensiero di grande dignità, non una disposizione intellettuale che denota un limite. È quella semplicità d’animo che implica un’onestà profonda nel modo di porsi di fronte al mondo.
Ebbene Gramsci fa trasparire dalle sue parole la sua angoscia per la difficoltà di trasmettere alla madre che lui non è in carcere perché ha rubato, perché ha ucciso o ha fatto del male a qualcuno. E tuttavia non può nemmeno sperare che i potenti lo liberino. Che razza di meccanismo è mai questo? Come sarà apparso strano alla madre di Gramsci questo ragionamento! Un meccanismo che fa andare in galera gli innocenti, i quali però non devono aspettarsi di essere riconosciuti tali. Eppure Antonio lo spiega alla mamma e lo fa con parole nobili, semplici, asciutte. Ascoltiamolo, il dottissimo Antonio, in queste frasi così umane: “La mia vita scorre sempre uguale. Leggo, mangio dormo e penso. Non posso fare altro. Tu però non devi pensare a tutto ciò che pensi e specialmente non devi farti illusioni. Non perché io non sia arcisicuro di rivederti e di farti conoscere i miei bambini, ma perché sono anche arcisicuro che sarò condannato e chissà a quanti anni. Tu devi capire che in ciò non c’entra per nulla né la mia rettitudine, né la mia coscienza, né la mia innocenza o colpevolezza. È un fatto che si chiama politica, appunto perché tutte queste bellissime cose non c’entrano per nulla”.
Ecco, Antonio e la madre davanti a un meccanismo strano. Eppure leggendo tutta la lettera abbiamo la sensazione che egli abbia fatto un piccolo miracolo. Ha reso partecipe la madre di un grande e apparente paradosso. Egli è prigioniero e lo sarà per tanto tempo proprio perché è libero nella sua coscienza.
È uno straordinario esempio in cui la cultura, la grande cultura, rende più semplici anche le cose più difficili. È un modo di considerare la cultura all’opposto assoluto di come questa viene invece usata, concepita ed esibita dal tipico Azzecca-garbugli.
Ricordiamoci di una frase di Pasolini. Una volta disse che prima di cominciare a leggere e studiare, da bambini siamo semplici, diretti, immediati. Poi, leggendo libri, imparando formule, lingue e acquisendo le basi di nuove materie, perdiamo questa semplicità. Alla fine, però quei pochi che riescono a coltivare il sapere con disinteresse e curiosità, quei pochi che raggiungono le grandi vette della cultura ritrovano quella perduta semplicità. Non nel senso paternalistico del termine, ma nel senso della vera profondità umana. Ancora una volta siamo all’opposto del nozionismo arrogante dell’Azzecca-garbugli.
In una società come la nostra, in cui la conoscenza è sempre più elemento distintivo per interpretare la complessità del mondo che ci circonda, i fratelli gemelli del personaggio manzoniano abbondano dappertutto: a scuola, in politica, nella pubblica amministrazione.
Insomma questo dottore è un personaggio negativo. Per carità, credo sia fin troppo chiaro.
E tuttavia c’è forse qualcos’altro da dire. Una specie di rovescio scomodo della medaglia che le parole del Manzoni sembrano forse suggerire.
Agnese definisce se stessa, Renzo che le sta davanti e le persone del suo ambiente come “poverelli” ai quali le matasse sembrano sempre troppo “imbrogliate”. Tante volte, secondo lei, basta “la parolina d’un uomo che abbia studiato…”.
Come definire questo atteggiamento di Agnese? Umiltà? Semplicità? Consapevolezza della propria ignoranza? E il bandolo? È difficile da trovare, certo. Ma chi e per quanto tempo ha cercato davvero, con coscienza, di trovarlo?
Si ha l’impressione che per Agnese i poverelli siano una categoria. Tanto è vero che esiste colui che svolge la funzione di aiutarli e non c’è nemmeno bisogno di chiamarlo col suo vero nome.
Insomma la brava donnaindica solo uno specialista a cui rivolgersi, per risolvere un problema, o invece sta in qualche modo demandando ad altri il compito di rimuovere un tarlo troppo scomodo per la propria coscienza? Forse sarebbe importante far funzionare il proprio cervello e riflettere, pensare e infine assumere una posizione. Invece appare quasi più comodo delegare il sapiente. Persino il diavolo, supremo rappresentante del male, sembra aver perso la propria genuina identità negativa: “non è brutto quanto si dipinge.”
Mi chiedo quanti esempi di questo tipo troviamo al giorno d’oggi. Persone che si difendono dietro la bandiera dell’umiltà, del vittimismo, della presunta semplicità per non assumere una posizione, per delegare a terzi il peso della propria coscienza. Buon per il diavolo che non è così brutto o forse povero lui che ha perso il monopolio del male. Ma poi chi è davvero il male?
C’è una riflessione sulla politica di un signore che in quanto a coscienza non delegava certo a nessuno:
“Psicologicamente vi sono due opposte infermità che sono diventate talmente comuni da essere fattori dominanti in politica. Una è la rabbia, l’altra l’indifferenza”. Sono parole di Bertrand Russell. Voglio solo ricordare che venne condannato nel 1916 per aver difeso un obiettore di coscienza e che fino a tarda età non rinunciò a manifestare per le sue idee politiche, tanto da subire arresti.
Ma torniamo alla politica: rabbia o indifferenza, ci spiega Bertrand Russell. Nel primo caso è la degenerazione del potere che cerca di garantire se stesso. Nel secondo troviamo la mancanza di coraggio, l’occasione per tirarsi indietro con fatalismo, delegando senza partecipare con il proprio contributo costruttivo. È fin troppo comodo defilarsi e lasciare all’Azzecca-garbugli di turno la gestione di un fenomeno complesso. Ci sentiremo più umili e, dunque, meno appesantiti da responsabilità. È in fondo l’atteggiamento del borghese medio-piccolo. L’Azzecca-garbugli è un personaggio a doppio taglio. È la cultura al servizio dei potenti ma anche una protesi della coscienza al servizio degli indifferenti. Povera Agnese. Ma perché meravigliarsi? Quello è il romanzo senza idillio.