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L’economia cinese non è di mercato

Creato il 06 gennaio 2016 da Libera E Forte @liberaeforte

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di Giovanni Palladino

Nel 1976, alla morte di Mao Tse Tung, dopo 33 anni di comunismo “ortodosso”, il prodotto interno lordo della Cina era di $217 miliardi. Nel 2014, dopo circa 40 anni di comunismo “eterodosso”, il pil è “esploso” a $10.356 miliardi. Nello stesso periodo il pil pro-capite dei cinesi è passato da $227 a $7.600.

Merito del comunismo? No, innanzitutto merito dei successori di Mao che hanno avuto la decenza di non fare più “rivoluzioni culturali” (con la morte violenta di milioni di cinesi che non obbedivano) e hanno avuto l’intelligenza di aprire le porte del Paese agli investimenti stranieri e alla tecnologia del mondo capitalista. Senza questa apertura e senza l’aiuto interessato del “nemico” (il mondo capitalista), forse oggi i cinesi userebbero ancora la vanga al posto del trattore.

Ma dal mondo capitalista la Cina non ha preso solo i pregi, ha importato anche i difetti. Primo fra tutti l’eccessiva finanziarizzazione dell’economia sotto un duplice aspetto: creditizio e speculativo. Negli ultimi 10 anni le banche cinesi hanno inondato l’economia di credito, spesso senza buon fine, ossia con la mancata restituzione dei prestiti erogati. Il credito in essere è oggi vicino ai $40.000 miliardi. Le sofferenze sono già pari al 25% e purtroppo sono in ulteriore crescita.

Vi è poi l’aspetto speculativo, con 80 milioni di cinesi che considerano la Borsa di Shangai più come un casinò che non come un luogo dove effettuare investimenti produttivi di medio-lungo termine. Il governo cinese ha imprudentemente spinto questi risparmiatori a “giocare” con i titoli azionari e ora – davanti al crollo delle quotazioni – interviene con misure dirigiste, del tutto inefficaci e anzi dannose, per tamponare le falle di un mercato che ha già rovinato milioni di famiglie.

Se a questi interventi poco ortodossi per una vera economia di mercato si aggiunge l’evidente “manipolazione” del tasso di cambio dello yuan da parte del governo – che si identifica come una fotocopia con il Partito Comunista Cinese – si capisce come il Celeste Impero sia ancora molto lontano dal guadagnarsi la qualifica di “economia di mercato”, che consentirebbe alla sua moneta un salto di qualità (libera convertibilità a livello internazionale) e ai suoi prodotti esportati l’azzeramento dei dazi, che oggi sono ancora posti a difesa delle economie più sviluppate. Ma il Presidente Xi, con il suo sorriso diplomatico, considera erroneamente questo “salto” ormai a portata di mano.

È facile prevedere che nel 2016 Stati Uniti ed Europa si opporranno a questa pretesa del gigante dai piedi di argilla, anche perché i piedi di argilla si stanno diffondendo anche nel nostro mondo cosiddetto sviluppato, dove il cancro della finanziarizzazione continua a diffondersi e minaccia la salute dell’economia reale. Pessima notizia per le vendite della Ferrari, anche perché Mr. Xi – con la condanna a morte di migliaia di burocrati cinesi corrotti – sta facendo venire meno molti potenziali clienti del cavallino rampante.


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