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Italia, colore, 110 minuti Regia: Gabriele Salvatores Sceneggiatura: Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Gabriele Salvatores
Senza voler per forza scomodare i grandi colossi del cinema dai quali il nuovo film di Salvatores trae chiaramente spirito e forza, durante la visione di Educazione siberiana più volte ho pensato ai lavori di Takashi Miike: sia su un piano concettuale, con la crescita di due bambini in un luogo dove il crimine è paradossalmente giusto e onesto, sia su uno puramente tecnico e visivo, con un’alternanza di piani temporali, una regia serrata e impreziosita da un montaggio veloce e obliquo, anche se solo a tratti si può sentire quella poesia criminale e violenta tipica del grande regista nipponico (vista, che so, in un Dead or Alive 2, che è forse il suo capolavoro). Salvatores gioca con le regole sequenziali con grande abilità, il passato e il presente, l’infanzia e la maturità, l’amore e l’odio si intrecciano e si contrappongono anche con un’insolita saggezza simbolica, come sagge e preziosamente calibrate sono le sentite parole di nonno Kuzya mentre trasmette ai due nipoti il codice che civilizza la vita in Transnistria, quasi una voce narrante che racconta e sottolinea, senza mai intromettersi o anche solo sfiorare certo patetico moralismo, l’intera pellicola.
E la crescita di Kolima e Gagarin, in una prima metà del film essenzialmente bellissima, scava con quel giusto tocco mainstream nelle usanze e nel folklore criminale (l’importanza significativa dei tatuaggi su tutto) in splendide sequenze di irrequieta gioventù: furti, botte, quella piccola delinquenza quando i bambini cercano di fare i grandi e come tali si sentono – Salvatores si muove strutturalmente con passione, sincerità, competenza e fantasia mostrando, senza troppo raccontare, le basi adolescenziali che formeranno poi una seconda parte sicuramente d’effetto e legittima, ma forse più stanca, veloce e didascalica nel voler raggiungere una conclusione che pur essendo facile prevedere tipo nei primi tre minuti non perde comunque mai il suo valore. Anzi, il buon lavoro di sceneggiatura di Rulli e Petraglia (dal libro di Nicolai Lilin come in passato per le ottime cose sulla riduzione di Romanzo criminale), più bravi nel delineare i personaggi che a farli dialogare, crea un non-villain come Gagarin che riamane splendidamente coerente e profondo fino alla fine, un personaggio tormentato e in continua lotta con se stesso capace di staccarsi dalla classica figura di miglior-amico-del-protagonista-che-però-poi che da solo, nelle sue riflessioni, nei suoi atteggiamenti e nella sua filosofica spacconaggine vale la visione del film.
È quindi un peccato che Salvatores non abbia voluto sacrificare certa attitudine pop per qualcosa di maggiormente personale, magari allungando anche il minutaggio in favore di una seconda parte più potente e meno di mestiere, che, come accade nella prima, non si ponesse limite o temesse momenti di (relativa) poca importanza narrativa ma di grande efficacia immersiva (il tour al ritorno di Gagarin, per esempio, oppure i tanti momenti in compagnia di Xenya): l’esile giustificazione dietro alcune scelte del giovane o la superficialità in momenti che invece formano Kolima non tolgono tuttavia la più che buona sensazione complessiva finale, quella di una pellicola di ampio respiro internazionale che non sfigura affatto, pur con le enormi e dovute differenze, di fronte ai grandi capitoli criminali che hanno segnato il cinema.
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