L'astensione record cambia tutto. Partiti ingovernabili, parlamento balcanizzato. Così ora sono a rischio i piani del premier (di Marco Damilano - l'Espresso del 28/11/114)
Nel Palazzo circola già la data: martedì 10 febbraio 2015, santa Scolastica Vergine. Quel giorno il Parlamento in seduta comune allargata ai delegati delle regioni potrebbe essere convocato per eleggere il successore di Giorgio Napolitano. Il conclave repubblicano che designa l'inquilino del Quirinale per sette anni. In quali condizioni, però, nessuno è in grado di scommettere. Neppure un'ottimista come il ministro Maria Elena Boschi, che scivola nel corridoio fumatori della Camera a passi svelti, stravolta dalla stanchezza. Al termine delle quarantotto ore che vanno dall'apertura delle urne alle elezioni regionali in Emilia e in Calabria e si chiudono con la faticosa approvazione nell'aula della Camera della riforma del mercato del lavoro, il Jobs Act. I due giorni che hanno cambiato la legislatura e il futuro del governo di Matteo Renzi. «Ti ringrazio per aver espresso la tua posizione contraria ordinatamente», sospira il ministro del Lavoro Giuliano Poletti con il deputato del Pd Pippo Civati che ha appena votato in dissenso dal suo partito. «Gli altri sono stati più disordinati». Il voto più delicato per Renzi finisce con il sì al provvedimento del governo, ma con trenta deputati del Pd che si dichiarano assenti pur restando seduti in aula: Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Alfredo D'Attorre, Rosy Bindi, Francesco Boccia... Modello emiliano: o si vota per Renzi o non si vota. Nella regione rossa, simbolo per decenni dell'immutabilità del Partitone rosso nelle sue varie incarnazioni, dal Pci al Pds ai Ds al Pd, più di sei elettori su dieci hanno disertato le urne, un record negativo. Alla Camera, trenta deputati del Pd su 307 disobbediscono alle indicazioni del partito, quasi il dieci per cento. Per formare un gruppo autonomo ne basterebbero venti. Per tentare di condizionare le future mosse dell'inquilino di Palazzo Chigi sono più che sufficienti.
Fazioni, gruppuscoli, correnti e correntine. Partiti che si sfasciano in due o tre pezzi. Si divide il Pd che almeno è uscito vittorioso dal passaggio elettorale, si dissolve Forza Italia, sparita dai radar nei risultati elettorali, si dilania il Movimento 5 Stelle tra chi vuole tornare in piazza e chi vuole tornare in televisione.
Un Parlamento balcanizzato, in rivolta, fuori controllo. Alla vigilia dei due passaggi decisivi. La votazione sulla nuova legge elettorale Italicum, in discussione al Senato. E la scelta del nuovo presidente della Repubblica quando Napolitano lascerà il Quirinale, sempre più probabile che lo faccia all'inizio del nuovo anno. Sulla doppia partita si gioca il destino della legislatura, da come ne uscirà Renzi si vedrà se le Camere andranno avanti fino alla scadenza naturale, o se in primavera gli italiani torneranno a votare per nuove elezioni anticipate, dagli esiti imprevedibili per tutti. Chi vince assume il controllo della politica italiana per i prossimi dieci anni. I due fronti si preparano a combattere. Perché il formicaio impazzito di Montecitorio si ricompone quando entrano in campo i due super-partiti trasversali: i Renzi e i No-Renzi. In ripresa.
Renzi ha vinto, in Emilia, Calabria e alla Camera, ma ha visto il pericolo da molto vicino. Nella notte delle elezioni emiliane, in assenza di exit poll e di sondaggi, nello spoglio delle prime sezioni il candidato della destra, il leghista Alan Fabbri, risultava in testa sull'uomo del Pd Stefano Bonaccini. E alla Camera per un soffio non è mancato il numero legale al momento dell'approvazione del Jobs act, un incidente che avrebbe scatenato conseguenze a catena, con una probabile crisi di governo. Alla fine la legge-delega è passata con 316 voti, uno in più della maggioranza assoluta, e solo 327 presenti (su 630). Numeri che svelano un'improvvisa fragilità, inattesa per uno come Renzi abituato a vincere, anzi, a stravincere. Un Renzi per la prima volta sfiorato dalla palude. Costretto a rallentare la corsa. Non più così sicuro come prima che senza riforme è meglio tornare a votare e chiedere un plebiscito personale agli italiani.
Finora nei momenti di massimo scontro la minaccia di elezioni anticipate è bastata per tenere a bada i dissidenti del Pd e di Forza Italia. Ma ora il premier ammette di essere indeciso. Anche perché andare alle urne con la legge elettorale riscritta dalla Corte costituzionale un anno fa, il Consultellum, una legge proporzionale pura, potrebbe rivelarsi un azzardo troppo grande anche per lui.
Prima di tutto c'è l'ostacolo tecnico rappresentato dall'obbligo di ripristinare le preferenze, imposto dalla sentenza della Corte che ha dichiarato incostituzionali le liste bloccate del Porcellum. La Consulta non poteva spingersi a far risorgere la possibilità di scrivere i nomi dei candidati parlamentari sulle schede elettorali. Ha preferito suggerire l'introduzione della «preferenza unica», si legge nella sentenza, «in linea con quanto risultante dal referendum del 1991», da riportare in vita «mediante interventi normativi secondari», ovvero circolari o decreti ministeriali. Nonostante il consiglio della Corte, sarebbe molto difficile però per il governo Renzi ritoccare la legge elettorale con un atto amministrativo allo scopo di accelerare il ritorno alle urne. E poi, va bene la preferenza unica, ma con la possibilità di scriverne un'altra per tutelare l'altro genere? Domande lecite, ma seguire la strada dell'approvazione parlamentare, con una leggina o con un decreto, significherebbe per Renzi far trascorrere molte settimane tra la decisione di andare alla competizione e l'inizio della campagna vera e propria. Tempo perso.
La frenata di Renzi sulle elezioni anticipate però è politica. In caso di scioglimento delle Camere diventa probabile una scissione alla sinistra del Pd, cui basterebbe superare la soglia del quattro per cento per rientrare in Parlamento senza dover trattare i seggi con il segretario del partito, l'odiato Matteo. E si allontanerebbe il sogno del premier, conquistare un 44-45 per cento dei voti con la legge proporzionale per poi avvicinarsi alla maggioranza assoluta dei seggi. Con una formazione di sinistra in campo e la proporzionale stile Prima Repubblica il Pd di Renzi tornerebbe a ballare intorno al 40 per cento. Percentuale altissima, ma troppo poco per poter governare da solo.
L'incertezza di Renzi, rovesciare il tavolo o andare avanti, è reale e si incrocia con le paure e le aspettative dei peones di Montecitorio, dove per la prima volta SuperMatteo appare vulnerabile, o quasi. E alimenta l'ostilità verso la nuova legge elettorale Italicum. Meglio, molto meglio, immagina il Parlamento balcanizzato, tornare a votare con la proporzionale e il fai-da-te delle liste elettorali. La lista di Raffaele Fitto, nel centro-destra. La lista di Civati, Cuperlo e Fassina con Sel, a sinistra. Perfino una lista di Rifondazione grillina, guidata dal deputato friulano Walter Rizzetto, agguerrito leader del dissenso tra i parlamentari di M5S. Scissione mediatica prima ancora che politica. La prima mossa è stata andare in tv, a "Omnibus" su La7. Rizzetto e altri sette deputati si sono affidati a un'agenzia di comunicazione romana, la Eidos, per svincolarsi dalle cure dell'agenzia egemone del grillismo, la Casaleggio associati. E con Beppe Grillo, assente da più di un mese ai raduni politici, i gruppi parlamentari di 5 Stelle diventano terreno di faide o di scorribande avversarie.
In realtà, nessuno vuole tornare a votare. «Qui nessuno ci rielegge e lo sappiamo tutti», sbotta l'ex tesoriere del Pdl Maurizio Bianconi, il primo ad affrontare Berlusconi spiegandogli che per il bene di tutti è meglio se cambia partito. «Ma se si approva subito la legge elettorale la forza di inerzia ci porta subito alle urne. Meglio perdere tempo». E Renzi che da mesi promette una rapida approvazione dell'Italicum , almeno una seconda lettura prima di Natale? «Renzi», risponde Bianconi, «è come Berlusconi, a furia di promettere è durato venti anni».
A Montecitorio e a Palazzo Madama nessuno controlla più nessuno. Roba da tremare in vista delle votazioni per il Quirinale. Tutti si scavalcano a destra o a sinistra, mossi da un unico obiettivo: tirare a campare. Una situazione che presenta numerosi pericoli, ma anche qualche opportunità per Renzi. Con grandi masse di deputati e senatori in uscita dai gruppi di appartenenza si possono progettare allargamenti della maggioranza raccogliendo qua e là qualche pacchetto di parlamentari in pena, disposti a tutto per far proseguire la legislatura. Soprattutto se Forza Italia dovesse saltare in aria e Berlusconi non fosse più in grado di tenere fede al patto del Nazareno. «L'accordo reggerà», giura Berlusconi. E ammette per la prima volta quello che si è sempre sospettato e mai ammesso. «Nel Patto c'è anche la scelta del nuovo presidente della Repubblica e la mia agibilità politica». Ovvero una modifica della legge Severino che permetterebbe a Berlusconi di tornare a candidarsi. Mentre sul nuovo presidente l'identikit berlusconiano è ultra-generico: una figura «non ostile» a Pd, Forza Italia e 5 Stelle, «non un uomo di partito». Un profilo che potrebbe essere tagliato su misura per Giuliano Amato o Emma Bonino, entrambi sostenuti in passato da Berlusconi ma non simpatici al contraente maggiore del Patto, Renzi.
Il premier non ha perso la voglia di disegnare i pesi delle forze in campo. Per questo, subito dopo il voto emiliano, ha esultato per la vittoria in Emilia di Matteo Salvini «che ha asfaltato Forza Italia e Grillo». Un centrodestra guidato dalla Lega significherebbe per il Pd renziano un regalo di Natale e inamovibilità da Palazzo Chigi per molti anni. Incredibile che a dare ragione a Renzi sia Berlusconi: «Salvini è il goleador, potrebbe fare il candidato premier e io il capitano della squadra». Non si è mai visto un leader di un partito che candida a premier un alleato che lo ha appena umiliato in una regione importante. Ma candidare Salvini quando le elezioni sono lontane vuol dire depotenziarlo, nella logica di Berlusconi. E per Renzi Salvini è un avversario che spaventa i moderati e li allontana dal centro-destra. Machiavellismi. Per il premier scegliersi il nemico è il primo passo verso la vittoria: ieri Grillo, oggi la Cgil di Susanna Camusso, domani il leader della Lega. Anche se i due giorni che hanno cambiato la legislatura dicono che l'effetto Renzi non è più potente come tre mesi fa. Forse è solo un momento di difficoltà. Ma intanto il premier che ama andare all'attacco farà bene a imparare come si gioca in difesa.
Marco Damilano
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