L’Egitto alle prese con il suo passato

Creato il 19 settembre 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Dopo aver deposto il Presidente Morsi lo scorso 3 luglio, i militari detengono de facto il potere in Egitto attraverso il Generale el-Sisi. Essi hanno cavalcato l’ondata di malcontento popolare, generata dall’incapacità della Fratellanza Musulmana di dare risposte concrete alle esigenze del popolo – lavoro, sicurezza, diritti civili – per riprendere le redini del potere. Il “nuovo corso” del Cairo è ora pieno di incognite, legate agli interessi dell’Esercito, all’instabilità interna e alla delicata situazione nella regione mediorientale.

 
La situazione egiziana torna al punto di partenza. Protagonista, ancora una volta, è l’Esercito, che dal 3 luglio, attraverso un golpe militare, ha di fatto imposto il proprio controllo sul Paese. Di nuovo, come nel 2010 tra fautori e detrattori del deposto dittatore Mubarak e nel 2012 per le elezioni presidenziali che hanno consegnato la vittoria a Morsi, il Paese si trova spaccato in due fazioni tra sostenitori dei Fratelli Musulmani e del nuovo governo ad interim. Quest’ultimo, formatosi il 9 luglio 2013, è guidato dall’economista Hazem el-Beblawi, già Ministro delle Finanze nel 2011. Questi ha escluso completamente gli esponenti della Fratellanza e dell’ala salafita, mentre annovera tre donne – il numero più alto nella storia dei governi egiziani – che detengono i ministeri della Salute, dell’Informazione e dell’Ambiente, e due cristiani copti. Nonostante le apparenze, tuttavia, il potere è saldamente nelle mani dei militari. In particolare, il nuovo uomo chiave della politica egiziana è il Capo delle Forze Armate el-Sisi, che, pur avendo formalmente la carica di Ministro della Difesa, è il reale detentore del potere, così come lo fu Tantawi dopo la deposizione di Mubarak.

Dal 14 agosto, dies horribilis della storia egiziana in cui sono morte, secondo il bilancio del Ministero della Sanità, 278 persone accampate nelle piazze Rabaa e Nahda a sostegno di Morsi, è stato reintrodotto lo stato di emergenza, della durata di un mese, proprio come prima della rivoluzione del 2010. La Costituzione approvata tra le polemiche lo scorso dicembre è stata sospesa. Il nuovo governo ha nominato una commissione per redigere una serie di emendamenti, che reintrodurranno il divieto di costituire partiti confessionali. Come all’epoca di Nasser, la Fratellanza Musulmana potrebbe tornare ad essere illegale, qualora verrà cancellata dall’elenco delle organizzazioni non governative1; ciò significherebbe la scomparsa dei Fratelli Musulmani dall’arena politica, oltre che di altri 14 partiti di ispirazione religiosa, come i salafiti di Al-Nour e Al-Watan. Diversi leader ed esponenti della Fratellanza sono già stati arrestati e condannati2. La repressione è sempre più dura, così come la censura: il 3 settembre il Ministero delle Telecomunicazioni egiziano ha dichiarato illegale al-Jazeera Misr, mentre la maggioranza dei canali televisivi si è allineata alla propaganda governativa.

Alla luce di questi avvenimenti, sembra che in Egitto sia iniziata una nuova fase controrivoluzionaria. I militari, in ritirata strategica durante la breve era Morsi, hanno messo a punto un piano per riprendere il controllo del Paese sfruttando le debolezze della Fratellanza e l’esasperazione di una popolazione stremata dalle disastrose condizioni economiche e delusa dall’immobilismo del Presidente.

La nuova Costituzione

Il nuovo governo egiziano ha creato due commissioni con il compito di emendare la Costituzione del 2012. La bozza costituzionale, redatta dal primo comitato di 10 esperti, verrà esaminata da una commissione di 50 membri, che avrà a disposizione 60 giorni per esprimere il suo giudizio; la parola, poi, passerà al Presidente della Repubblica ad interim Adly Mansour, che entro 30 giorni dovrà indire il referendum popolare. Il nuovo testo costituzionale prevede la riduzione degli articoli da 236 a 198 e la modifica o eliminazione di ben 124 commi. Tra i cambiamenti più significativi spicca l’emendamento dell’articolo 6, che proibisce la formazione di partiti su base religiosa: se la modifica verrà confermata dalla seconda commissione, porterà allo scioglimento dei partiti confessionali compreso Giustizia e Libertà, il braccio politico dei Fratelli Musulmani.

Sono stati eliminati diversi riferimenti alla religione musulmana presenti nella Costituzione voluta dalla Fratellanza, come l’art. 44 che proibiva l’insulto di qualsiasi “messaggero o profeta”. La shari’a rimarrà comunque, come già previsto dall’art. 2 della Costituzione sospesa, tra le fonti della legislazione; viene invece espunto l’art. 219 sull’interpretazione della legge islamica. Un altro emendamento controverso, che restaurerebbe lo status quo ante, è quello che prevede la fine dell’interdizione politica per gli esponenti dell’NDP, il partito di Mubarak sciolto nel 2011. I diritti civili e le libertà individuali, tra le richieste dei manifestanti del 25 gennaio, escono compressi anche in questa nuova bozza costituzionale.

La nuova amministrazione egiziana, infine, sembrerebbe intenzionata ad adottare nuovamente un sistema maggioritario basato su candidature individuali nei distretti per le prossime elezioni3. Tale sistema, tuttavia, potrebbe aprire una nuova fase di divisioni, corruzione e instabilità nel Paese e consolidare il potere nelle mani dell’Esercito, oltre a lasciare maggiori spazi alle correnti estremiste.

I motivi del fallimento di Morsi

La “restaurazione” del potere militare ha portato con sé un cambiamento da non sottovalutare. Per la prima volta nella sua lunga storia, infatti, la Fratellanza Musulmana ha perso quel largo sostegno popolare che l’aveva portata a vincere le elezioni poco più di un anno fa. L’ampia base sociale che aveva riposto nell’Associazione la fiducia in un cambiamento è rimasta fortemente delusa e, fiaccata da un anno di tensioni, promesse disattese e tentativi autoritari di Morsi, ora guarda all’esercito come garante dell’ordine, indispensabile per far ripartire un’economia in ginocchio, colpita soprattutto nel turismo4. I militari, dal canto loro, si sono mostrati ostili a qualsiasi cambiamento che potesse minare il loro potere. Essi, infatti, sono riusciti a creare nel tempo un vero e proprio impero economico5 grazie a un sistema di corruzione e clientelismo che la “rivoluzione” non è riuscita a smantellare. Paul Sullivan della National Defence University di Washington ha calcolato che la percentuale dell’economia nazionale in mano ai militari si aggiri fra il 10 e il 15%, per un valore di circa 210 miliardi di dollari6. L’Esercito è dunque una vera e propria lobby economica arroccata sui propri privilegi e chiusa a qualsiasi forma di contrattazione e privatizzazione. Il cambio di governo non ha impedito ai militari di mantenere il controllo sulle loro imprese; le forze armate, anzi, si sono opposte a qualsiasi tentativo di liberalizzazione che avrebbe potuto colpire i loro affari. I militari, inoltre, occupano i vertici dell’amministrazione pubblica, e numerosi ex militari sono governatori regionali.

Non solo ampi strati della popolazione, ma anche i ricchi imprenditori legati al vecchio regime, incarcerati o emigrati, hanno guardato con favore la caduta di Morsi, come il magnate della siderurgia Ahmed Ezz o la famiglia Sawiris, attiva nel settore alberghiero, che ha subìto pesanti perdite a causa del drastico calo delle presenze turistiche. L’inesperienza al governo è stata un altro fattore che ha determinato il fallimento di Morsi. I Fratelli Musulmani, storicamente perseguitati in Egitto, non avevano mai ricoperto posizioni di vertice, se non a livello sindacale. Tale incompetenza è emersa soprattutto in relazione alla delicata situazione economica, segnata da un debito record e spese esorbitanti per le sovvenzioni al settore agroalimentare e petrolifero.

La difficile congiuntura internazionale

A questi problemi interni va aggiunta la mutata congiuntura internazionale. Innanzitutto, a causa dei disordini entro i confini egiziani, la tensione in Sinai è sempre più alta. Numerosi sono stati gli attacchi e le violenze, e la situazione di anarchia e caos consente a gruppi legati al Jihad Islamico di organizzarsi e guadagnare terreno. Ciò, ovviamente, preoccupa Israele, che teme un rivitalizzarsi dei gruppi estremisti.

L’alleato statunitense si è mostrato titubante verso il nuovo esecutivo. Se non ha definito la deposizione di Morsi un “golpe militare”, parlando anzi di una seconda possibilità per la democrazia egiziana, ha condannato le violenze dell’esercito contro la piazza e preme per un passaggio dei poteri ai civili. A mettere in imbarazzo la Casa Bianca vi è una legge del 1986 che vieta il finanziamento o l’assistenza ai Paesi il cui capo di governo eletto sia stato deposto da un colpo di stato militare7. Eppure, Washington ha continuato a fornire i suoi aiuti al Cairo, stimati in 1,3 miliardi di dollari annui. Anche l’Unione Europea, preoccupata per l’escalation di violenze, si è detta pronta a rivedere le relazioni con l’Egitto se dovesse perdurare l’instabilità.

Le ricche monarchie del Golfo, escluso il Qatar, hanno visto con favore la destituzione di Morsi, poiché i Fratelli Musulmani hanno vinto in Yemen e si oppongono alla monarchia giordana, costituendo una vera spina nel fianco soprattutto per Riyad. E non è un caso, infatti, che il nuovo governo sia sostenuto proprio da Arabia Saudita, Giordania e Israele; peraltro, el-Sisi, ribattezzato il “nuovo Nasser”, ha trascorso diversi anni in Arabia Saudita come addetto militare. Su tutto ciò, inoltre, incombe da qualche settimana l’ombra di un intervento armato in Siria che potrebbe destabilizzare ulteriormente il fragile equilibrio mediorientale.

Un futuro ricco di incognite

L’avvenire dell’Egitto è ancora incerto. Sgomberate le voci entusiastiche sulla “Primavera araba”, il Cairo si trova davanti a numerosi dilemmi politici, economici e sociali. In primis c’è il dato economico: l’Egitto ha urgente bisogno di dieci miliardi di dollari per risollevare il PIL. La continua instabilità ha pesantemente intaccato non solo le attività economiche già presenti, ma ha fatto fuggire capitali esteri e turisti, essenziali per la ripresa. Segue l’altrettanto problematico assetto politico. Il Presidente della Repubblica Mansour ha assicurato che ci saranno nuove elezioni entro 12 mesi. Tuttavia, la concentrazione di poteri nelle mani di el-Sisi costituisce un pericolo per il faticoso percorso democratico del Paese. La crisi economica, l’instabilità interna, il delicato quadro geopolitico della regione saranno dunque fattori cruciali per l’evolversi della situazione. Ma per il momento, l’Egitto sembra essere tornato all’anno zero.


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