Artista/Gruppo: Canned Heat
Titolo: Friends In The Can
Anno: 2003
Etichetta: Fuel 2000
Un mese dopo venne Londra. Era il 3 giugno 2003, i Canned Heat li conoscevo solo per On The Road Again e per quel suo feticcio falsetto da brividi. Avevo visto in VHS lo spezzatino Woodstock, mi ero fatto un’idea. Uscì Friends in the Can che non avevo nemmeno finito onorabilmente tutte le sessioni d’esame del primo anno accademico. Un miserabile 18 in archeologia romana elemosinato con la scusa del militare e del tempo perso. Un mese dopo, dicevo, venne Londra. Da giugno a luglio, ormoni stabili, la chitarra sempre in tasca. Avevo soltanto sfiorato un angolo di paradiso. La musica, della MUSICA, che ne sapevo ancora?
Uscì Friends in the Can e per chi ha amato i Canned Heat nel passato forse è suonato subito come la minestra riscaldata. Per me è arrivato in serie cronologicamente esatta. Prima sensazione con Same Old Game: Eric Clapton e l’operazione Me and Mr. Johnson. Non tanto per il sapore retrò ma per il fatto che si capiscwe subito: questi stanno suonando per proprio conto. Lo fanno per la passione di tornare in auge nel passato. E la cosa come ogni revival mi intriga. Vediamo. Archiviato James Shane ecco Bad Trouoble, stavolta porta la marca di Dallas Hodge. Non fate caso alla maglietta “Alaska” in copertina. Il barbuto e panciuto nuovo (si fa per dire) cantante degli Heat ci sa fare. Dietro la foggia dello slide di Roy Rodgers. Non i pantaloni, quelli li lasciamo agli 883. Qui c’è pura acoustic blues del Delta. Passo cadenzato, sovrinciso, elettrico, spiritato, si chiude nel più classico scivolo in Bb. Prima che delle ragazze ricordino al mondo che non si rischia, che ci si ficca in grossi guai, ecco il caffè scuro (Black Coffee) che piace ai Canned Heat, che li manda in estasi, li fa impazzire e fa impazzire anche noi. Scuro come il timbro di Dallas, che sembra ispirarsi a Anastacia. «Non voglio capuccino, non voglio espresso, non voglio any latte», conclude, che suona come un’accusa razzista verso il made in Italy, ma certo se è di sera è anche comprensibile.
L’uscita con Gateway, l’organo di Mike Finnegan e la scossa da bullo dell’emule di Stieve Ray, in arte Corey Stevens. Si torna al rock di buona maniera, galleggiando tra gli AC/DC e qualcosa di più americano. Gli stacchi, i 2/3 accordi che chiudono ogni strofa, alla Led Zeppelin, alla Def Leppard. Già, hanno deciso di fare come gli pare. Dal blues al jazz delle bing band fuso al vaudeville, a Clapton e SRV, a Tommy Dorsey e Sinatra. It Don’t Matter, già non importa: i Lemon Tree blues. L’armonica c’è. La chitarra c’è. La voce rauca da cantinaccia pure. Non importa, o potrebbe non importare. Ma sono i Canned? Guardo sulla copertina. Sì, ma che riflessività, che situazione.
Let’s Work Together. Ok, sono loro. Let’s Work Together, inconfondibile. E va bene anche che Dodge si sforzi sul gutturale trocloditico di Hite. Lo slide è lì che gira sulla sigletta che ha infervorato i bar di mezzi Seventies. C’è anche un blues sulla campana: 1, 2, 3 Here We Go Again. Dice: «Cantiamo proprio lo stesso vecchio blues». Passa anche al 4-5-6, è una ninna nanna, una filastrocca. E comunque cantano sempre lo stesso vecchio blues. È fatto apposta, è un testamento nel passato, un atto di fede alla propria storia, ma anche un appello in vista del prossimo tour: veniteci a trovare, come sapevamo fare vi faremo ballare. La metto in rima anch’io.
Poi mi giro per osservare Nizza, perché questo è il brano suo: Nizza, ci sei? Sei lì che mi guardi con gli occhioni gialloni, pelosa? Già, sei lì che dormi… e nemmeno posso dirti That Fat Cat. Oh, ‘nita, sveglia che dopo la tua canzoncina comincia il bello – le dico – c’è John Lee. La nera volge i fari verso me e sembra guardami come dire: sì, ma se hai le cuffie te lo senti da solo. Va bene ma hai gli ultrasuoni. Nizza dorme. Allora cerco il delirio, ma non è un album da viaggione e il cervello non fa un metro oltre. Me lo gusto, fruisco come dicono quelli esperti. Sono un fruitore. C’è anche un flauto molto Traffic. Nizza scende dal divano e passa direttamente al letto. Da Home to You e Walter Trout si comincia ad entrare nel Canned Heat & Friends vero e proprio. È abbastanza West Coast per vederci una punta di Creedence Clearwater Revival. Nizza, eccolo, lo ultrasenti? È John Lee Hooker. Never Get Out of These Blues Alive, ma poteva essere anche jingle bells: inconfondibile. Altra pasta, anzi… : ma gli americani che caspita di piatti tipici anno?
Ah, John, e anche Taj Mahal, ma non quello dell’Uttar Pradesh. E Hooker, fonte d’ipirazione di Hite, Mandel, Vestine, de La Parra. Di tutti i Canned Heat insieme. «Per suonare il blues non ci sono ricette segrete, bisogna ascoltare blues, e poi blues, e poi ancora blues». Ricordo dei Blues Farm. E John Lee è il blues. Come pochi. La musa per molti, per gli Heta a livello di faccia di bronzo. Finalmente anche l’omaggio alla propria storia: Lee Hooker e Vestine insieme, in Little Wheel. La chitarra di Parthenogenesis. E finora non lo avevo mai detto: boogie. Come in un ristorante prima del dolce arriva la pausa giusta: Silence. Forse interpretata da tutti, ma ho qualche dubbio per gli ultimi 20”. Un modo elegante per simulare lo stop prima del bis in un concerto. Ed è un vero bis: Let’s Work Together (con Larry Taylor, Harvey Mandel e Robert Lucas insieme, gran parte delle fasi dei Canned Heat dalla loro fondazione) e Gateway. Manca solo Bob Hite. Bobby l’Orso, è morto da un pezzo, 6 mesi dopo sono nato io. Un mese dopo diedi il mio arrivederci a Londra.