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L’EMOCENZIONE | Beck – Odelay (1996)

Creato il 04 gennaio 2012 da The Book Of Saturday

L’EMOCENZIONE | Beck – Odelay (1996)Sarò criptico, ma aiuta a velare, a trasparire. Un deviante daan da dan dan daan illude che questo sarà ancora una volta un disco rock, di bellissimo e coinvolgente rock. Dopo Devil’s Haircut, con Hotwax si retrocede ad arrangiamenti di chitarra slide che riportano indietro nei saloon del Texas. Il cantato inizia ad allontanare i puristi e screma l’uditorio a un manipolo di seguaci.

Con Lord Only Knows si ha l’esatta percezione di quanto tempo è passato tra i Beach Boys e Beck, esattamente 40 anni. The New Pollution ci ricorda una pubblicità ma solo per il jingle sbarazzino di voci delle muse. Derelict è un ammasso di meteoriti cadute dal cielo, dal buco ne esce la cinerea voce del cantante di Los Angeles, tra pause e incastri angolari. E vai con l’elettricità, ampere su ampere, vibrazioni su frequenze, frequenze su decostruzione, distruzione. Il cubismo fatto musica, fin da copertina e retro di un album che cambiò per sempre l’analisi storica di Beck Hansen, al secolo solo Beck. Ma quel Hansen, che gli appartiene di sangue, non è secondario nel doverlo capire e capire la sua musica e la sua svolta.

Certo, molto ha contato l’affidarsi, in questo disco (e a differenza del più strumentale – comunque più grezzo – Mellow Gold) ai Dust Brothers, che lo faranno convertire all’elettronica sperimentale, in parte ci metteranno dentro l’industrial, reminescenze di grunge, folk, blues (tanto bluesettino arricchito dall’armonica, dai riff e dalle distorsioni chitarristiche), ed ecco che cade il muro di Beck. L’abolizionismo della musica concepita in linea, e fedele alla linea, da Mozart passando per lo swing, un tuffo nel post-domani, poi Beck, e poi i dj, il piatto, il rap, gli scratch, i cappucci mischiati alle cravatte bianche su bianco, l’immancabile Schecter. E poi si brucia, si rincorre, spogliando di nuovo il vecchio, l’anziano.

Beck Hansen è una spolverata profonda sulla musica pensionata. Permettete, sono il re del de-suono, del pasticcio voluto, della “merda d’artista”. Beck si presenta, mascherato, al ritmo simil-tribale, tiene il tempo ma quando lo perde lo fa perché cerca il confronto con l’anomalia, è l’arte del perdente che si trasforma in successo stratosferico. La mia analisi su Odelay va a sprazzi come lo è tutto il disco in questione.

E penso mille volte a quel komodor ungherese treccioluto scavalcare l’ostacolo che lo trasforma in uno straccio da pavimento, uno zerbino. Tra lo slancio e l’atterraggio, v’è un energico punto esclamativo, tra Beck e il suo ritardo abissale nel concludere la sua quarta opera. Almeno stando alle tesi di un altro norvegese come lui, Stephen Malkmus. Affascinante: si scompone “Odelay” in “Oh delay”, e dalla teoria dello slang messicano “òrale” si passa alla smania di finire in tempo, al terrore di non consegnare subito il pezzo. È accaduto a tutti i più grandi, fa molto aneddoto da raccontare a nipoti e fans.

Beck – Minus. Live in Ferrara. 27 luglio 2000

L’album vive nel segno dei pesci, lunatico, eccitato e festigiàno, in alternanza a fasi di caduta a picco per precipizi profondi dello stato d’animo umano. La voce del Beck cantante fa il resto preoccupando l’ascoltatore con una lacrima che fuoriesce dalla gola. A tratti sembra l’acqua nel deserto, poi solo sabbia. Arido e metallico, liquido e argilloso. Comunque colorato di tutti i colori primari che un pittore d’avanguardie poteva concepire. Poi al trapasso di disco, una domanda mi perseguita: ma lo sporco del suono del silenzio, è voluto? Perché poi scompare e dalla gomma si torna al digitale.

Fluxus. Cos’è l’arte secondo Beck? Credo nulla, il suo contrario, qualcosa e tutto. Dada, anzi neo-Dada. Fluxus, appunto. Movimento che annoverò anche suo nonno Al Hansen. Odelay non è certo R. Mutt 1919 di Duschamps, ma tutto sommato Readymade, traccia numero 11, non è casuale. Fluxus. È blues? No che non lo è. Eppure è blues fin nel midollo. È fusion? Ecco, meglio, jazz fusion, barre su barre di cioccolato fondente sulle corde di contrabbasso. E chi lo suona questo contrabbasso? Dice niente Charlie Haden?

E da qui, da questa nuova scoperta che mi ha fatto annusare meglio questo fetido cerchietto virtuale inciso e rombante, che mi ha fatto anche cambiare in parte opinione sulle collaborazioni beckiane (mi ero fermato a Prince…), inizia il mio meta-viaggio, un simb-momento (scusate, fluxuseggiante) durato una settimana. In cui ho vissuto con Odelay soprattutto per scopi scientifici. Ovvio, nel frattempo pensavo al lavoro, a mangiare, bere e quant’altro di estremamente vitale. Come la musica: prima scoperta dal mio laboratorio-Beck. Quando mi chiederanno se sono cristiano, risponderò: la mia religione è la musica. È un po’ svizzero, capisco, ma non si offende nessuno e non si generano guerre.

Seconda scoperta: Odelay non è un disco da viaggio. Ho provato ad imporlo a una ristretta compagnia di gusti variegati, pensando che un po’ di ritmo potesse dar più vigore a un viaggio di oltre due ore. Hanno staccato la spina alla terza traccia, teste scapigliate, qualche sbadiglio, silenzio per mezzora, poi finalmente discorsi. Forse più appropriati. Meglio così, Beck si è salvato dall’anonimato di un’imposizione. Non me lo sarei perdonato. Due sere dopo l’ho portato con me di sera, sempre in macchina, perché se la città è sempre uguale, cambiare i suoni aiuta a vedere anche nuovi colori e sfumature. E da chi lo conosceva già, mi sono sentito esclamare: «Finalmente ti sento ascoltare di nuovo musica come si deve…». Clonato. Beck non è da viaggio lungo, ma è da serata, da situazione, da momento storico. Lo dicono i suoi rumori di fondo che imitano la vita che c’è là fuori. È un incidente, una festa tra amici, un rito propiziatorio, un concerto, un funerale, una bevuta di vino. Scolata la bottiglia è anche meglio.



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