...una particella può entrare in palcoscenico, però, facendolo, lo incurva e lo modifica, così il palcoscenico diventa a sua volta un attore, cambiando le caratteristiche della particella...
Addentrarsi tra le pagine del nuovo romanzo di Bruno Arpaia è come inerpicarsi su una roccia a strapiombo sul mare, sospinti verso il nulla da raffiche di vento scostanti e improvvise. Si fa giusto in tempo ad abituarsi alla narrazione letteraria che, d’un tratto, ci s’imbatte in formule, numeri, definizioni. La fisica si fa acqua che impregna le parole e s’insinua sotto la pelle del lettore. I cambi di scena repentini, così come lo spostamento irregolare sulla linea del tempo, accelerano il racconto. I ruoli sociali s’invertono con un padre attento e presente nella vita del figlio e una madre fagocitata dai sotterranei del CERN. Il lavoro di Emilia apre una falla nel rapporto coniugale, generando in Pietro il tormento della solitudine. Le metafore che Arpaia distribuisce con sapiente alternanza lungo la narrazione coinvolgono il lettore, conducendolo al cuore del racconto: la fisica. Chi non è avvezzo alla scienza, a neutrini, quark, stringhe e gravità potrebbe temere di perdersi per strada, di non comprendere, di annoiarsi. Non è così. Le spiegazioni scientifiche sono affidate alle parole semplici e dirette di Emilia e dei suoi collaboratori, intenti a spiegare la loro misteriosa professione a una giornalista spagnola. Leggere queste pagine è come assistere a una lezione privata, popolata da segni alla lavagna, slide sullo schermo, mani alzate a interrogare. Le risposte arrivano senza presunzione, poche sono le certezze, molti i dubbi. E poi ancora l’intrigo, una fuga – apparentemente senza motivo –, un susseguirsi di strade provinciali, campagne, piccole città, telefono spento e occhi guardinghi. Pietro e suo figlio corrono contro il tempo, contro un mistero che non possono risolvere da soli, potendosi affidare solo all’istinto. Emilia si trasforma improvvisamente in un soldato coraggioso, senza troppa convinzione. Si affida a un destino che forse è già scritto, perché talvolta, presente, passato e futuro si sovrappongono.
Il vuoto, con la sua energia, è il fulcro di questo romanzo, perché anche nel vuoto c’è qualcosa da scoprire. Come nella vita, anche nella scienza esiste la vibrazione di un attimo. Quando le pagine si tingono di fumo, terrorismo, fondamentalisti e intrighi internazionali, il battito di un’intuizione cambia la vita dei protagonisti.
“L’energia del vuoto” (ed. Guanda) è uno di quei testi che i ragazzi dovrebbero studiare a scuola per imparare che la vita, la scienza, la letteratura, i sentimenti altro non sono che facce diverse dello stesso solido.
La fisica è spesso ritenuta un argomento di nicchia, per conoscitori esperti. Leggendo il tuo romanzo, invece, ci s’imbatte in un mondo ricco di fascino e trasparenza. Sembra quasi che la curiosità scientifica sia insita in tutti noi in forma latente. Cosa conduce all’esplosione di questo sentimento?
Forse il fatto che la fisica contemporanea, al di là dei suoi tecnicismi, riservati agli esperti, è tornata a porsi le domande fondamentali, quelle che si ponevano già i presocratici e che assillano noi oggi: che cosa siamo, da dove veniamo, cosa sono davvero la materia, lo spazio, il tempo? Del resto, la fisica è solo un modo come un altro per esplorare i confini di noi stessi e del nostro mondo, per vivere l’avventura e la passione della conoscenza. Nel corso del XX secolo, infatti, la relatività e la quantistica hanno rivoluzionato il nostro universo e perfino il modo in cui pensiamo alla scienza stessa. Oggi la scienza, esattamente come l’arte, usa molta immaginazione, si occupa sia di verità sia di bellezza, è più incerta, indeterminata: più misteriosa. Insomma, come ha scritto John Banville, «a un certo livello, essenziale, l’arte e la scienza sono talmente vicine che è difficile distinguerle».
Nella narrazione dai maggiore importanza agli eventi e non al loro susseguirsi temporale. Cosa rappresenta, per te, il tempo?
Per me è un’ossessione, la vera molla che mi spinge a scrivere, e costituisce infatti il fil rouge di tutti i miei romanzi. Credo che chiunque racconti storie si occupi di una cosa evidente: che esiste il tempo e che la nostra vita è vissuta in quanto tempo. Raccontare storie, insomma, significa occuparsi del tempo, del fatto che dentro il tempo la nostra vita ha un termine. Perciò le teorie fisiche che, da Einstein in poi, mettono in discussione il «tempo assoluto» e oggettivo di cui parlava Newton o che mettono addirittura in dubbio l’esistenza stessa del tempo dovrebbero far parte del bagaglio di qualunque narratore. In questo libro ho cercato, con le armi della narrazione, di far esperire al lettore la possibilità di un tempo diverso dalla nostra comune percezione, di un tempo, per così dire, più fondamentale, di un «tempo proprio», come lo chiamava Einstein. Ognuno potrà leggere il romanzo montandolo secondo il proprio particolare tempo, per scoprire forse che quella linea ininterrotta che va dal passato al futuro, passando per il presente (che è il comune modo di noi occidentali di percepire il tempo), potrebbe essere soltanto un’illusione.
Sono dubbiosi, i fisici. È nel dubbio che nasce il desiderio di sperimentare?
Certo. Soloi fondamentalisti, religiosi o meno, credono di possedere già tutte le risposte: ulteriori domande sgretolerebbero il loro sistema chiuso, totalizzante, e conseguentemente il loro potere. Per questo ne hanno paura e tentano di imporre i propri dogmi a tutti i costi. Come faccio dire a uno dei miei personaggi: «Io penso che raccontare sia, come la scienza, fare domande complicate al mondo, che portano ad altre domande complicate e mai a risposte definitive e certe».
Il tuo stile è un elemento di originalità nel panorama letterario contemporaneo. Misceli terminologie scientifiche e raffinate metafore con eleganza e rapidità. Ti senti più attratto dalla narrazione o dalla conoscenza?
Non credo che narrazione e conoscenza siano due concetti antitetici. Anzi. La narrazione è forse il più antico strumento di conoscenza dell’umanità: consente di elaborare e trasmettere passioni, emozioni, ragioni e soprattutto esperienza, la quale, come diceva già Walter Benjamin negli anni Trenta del Novecento, è proprio ciò di cui l’uomo moderno è stato privato. Il racconto, insomma, è una grande forma di conoscenza, serve a fare in modo che il vissuto non vada del tutto perso. In fondo, è un modo di opporsi alla morte. Se fossimo immortali, forse non racconteremmo storie. E intanto, nell’ordinare la vita nel caos di un racconto, impariamo a conoscerla meglio e a scoprire noi stessi e la realtà.