Otto Griebel, L'Internazionale
David Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Milano, Feltrinelli, 2011, pp. 313.
Scrivere un libro nel quale si tenti di mettere in luce le molteplici cause che hanno scatenato l’attuale crisi economica è un’attività alla quale in molti, economisti e non, si sono prestati subito dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime avvenuto nel 2007. Ciononostante esistono alcuni testi che ambiscono ad oltrepassare il perimetro analitico della fase economica odierna, tentando di indagare i meccanismi sui quali si regge e prospera il sistema capitalista tout court e provando così a ragionare con piglio critico sui nodi materiali e concettuali intorno a cui si dipana l’architettura del capitalismo contemporaneo. Questo ci sembra essere lo spirito dell’ultimo libro di David Harvey (ed. or.: The Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, Oxford University Press US, 2010). Il geografo e antropologo inglese – uno dei maggiori esponenti della corrente marxista anglosassone – coltiva l’ambizione di chiarire la natura e lo sviluppo del cosiddetto “flusso di capitale” (che egli considera come la vera e propria linfa vitale del capitalismo), utilizzando uno stile espositivo che talvolta cede il passo a una trattazione di carattere più giornalistico che accademico, sia – probabilmente- per motivazioni di chiarezza concettuale, costantemente perseguita a favore dei “non addetti ai lavori”; sia per la natura delle fonti utilizzate, le quali – come l’autore tiene a precisare – rimandano in gran parte a una serie di articoli di carattere economico apparsi tra il 2007 e il 2010 su alcuni grandi quotidiani di area anglosassone, vale a dire The New York Times, Guardian e Financial Times).
Ad eccezione del primo capitolo, nel quale viene descritta la “fenomenologia” della crisi cominciata nel 2007, la struttura del saggio segue appunto la “parabola ideale” del flusso di capitale, a partire dai processi di accumulazione e di conseguente reinvestimento del capitale stesso, per poi giungere alle diavolerie della speculazione finanziaria, fino alla questione – politica prima che meramente economica – della costruzione di possibili alternative non tanto rispetto a questo tipo di capitalismo, apparentemente incapace di risollevare sé stesso dalla tempesta degli ultimi cinque anni, bensì rispetto al capitalismo in quanto tale. Beninteso: Harvey non si attarda né a ripercorrere la plurisecolare storia del capitalismo, né a deprecare da un punto di vista morale il susseguirsi di cadute e scossoni che il sistema capitalistico ha subito dopo il fallimento di Lehman Brothers e lo scoppio della bolla dei mutui subprime. Egli intende piuttosto spiegare per quali ragioni il capitalismo non può che entrare ciclicamente in fase di contrazione e per quali ragioni tutte le crisi sistemiche a cui esso va incontro costituiscono – o hanno finora costituito – la base di rilancio dell’intero sistema(«l’agente razionalizzante di un sistema intrinsecamente irrazionale», chiosa Harvey), non già il suo irreversibile punto di rottura. Ed è attraverso questo metodo per così dire genealogico, mediante il quale l’autore indaga ab origine le forme e le crepe del capitalismo contemporaneo, che si esprime appieno l’armamentario concettuale marxista di cui l’autore si serve per sviluppare la sua indagine.
Metafore del capitalismo?
Ora, lasciando al lettore il compito di prendere conoscenza della totalità dei contributi d’analisi presenti nel testo, ci preme ragionare intorno ad alcune idee-forza che a nostro parere connotano le pagine de L’enigma del capitale, e che potrebbero inoltre costituire un’ottima base di discussione per quanti volessero elaborare possibili vie d’uscita dalla crisi.
Connubio Stato – finanza
Se il flusso di capitale costituisce la forma e la materia prima del capitalismo – che dunque va osservato come un processo (e non come un oggetto) fondato sull’accumulazione e la circolazione di una certa tipologia di ricchezza (il capitale), incarnato nel simbolo del denaro (espressione di beni materiali e immateriali) –, il contesto entro il quale tale flusso ha potuto e può tuttora dispiegare le sue potenzialità è quello che Harvey definisce il “connubio Stato-finanza”, che consiste nella «confluenza di potere statale e finanziario che contraddice la tendenza analitica a considerare lo Stato e il capitale come chiaramente distinguibili l’uno dall’altro» (p. 60). Il “connubio Stato-finanza” costituisce dunque la dimensione spazio-temporale che, proprio a partire dalla formazione dello Stato moderno (il quale si articola di pari passo con la genesi del sistema capitalistico), organizza quell’insieme di regole e contesti – istituzionali e non – che permettono al capitale di agire e di riprodursi. Il dispositivo Stato-finanza ha conosciuto numerosi mutamenti negli ultimi decenni, grazie soprattutto al processo di liberalizzazione dei movimenti di capitale innescatosi durante gli anni ’70, determinando pertanto l’indebolimento (non solo nei Paesi a capitalismo avanzato) delle capacità decisionali e di indirizzo economico-politico che un tempo erano appannaggio degli Stati nazionali. Ciò non induce però l’autore a considerare del tutto tramontato il nucleo di sovranità politica ed economica di cui il sistema dello Stato è custode: Harvey osserva come, alla luce della débacle dello Stato-nazione inteso in senso classico, stiano nascendo nuove tipologie di potere politico-territoriale, che resta pur sempre un dispositivo amministrativo e deliberativo indispensabile alla sopravvivenza del capitale, proprio in quanto artefice – attivo e passivo – del quadro geografico-istituzionale (vale a dire: dello spazio geo-politico) entro cui il capitale agisce. Poco importa che il capitale, per sua natura totalizzante, tenti incessantemente di superare gli ostacoli delle cornici territoriali che si frappongono alla sua evoluzione (la liberalizzazione dei movimenti di capitale ne costituisce l’esempio massimo: ma qui si tratta, ancora una volta, della risultante di una decisione politica maturata in seno a specifiche istituzioni). La soluzione alla perenne questione dell’impiego delle eccedenze di capitale, che maturano nel processo di accumulazione e di reinvestimento della ricchezza, non potrebbe trovare sbocco senza l’alleanza tra capitalisti e membri del potere politico-statale (i quali talora coincidono): mentre un tempo si favoriva la colonizzazione di nuovi territori per determinare la creazione di nuovi mercati, oggi viene garantita l’opacità – se non addirittura l’assenza – di regolamentazioni nella complessa architettura dell’economia finanziaria fondata sul binomio credito-debito, ultima e “sfuggente” frontiera del reinvestimento delle eccedenze di capitale.
Harvey spende molte pagine nella descrizione della fenomenologia del flusso di capitale, del ruolo svolto in tale processo dal connubio Stato-finanza e dell’ineluttabilità – logica, non già storico-filosofica – delle crisi del capitalismo. Tuttavia, tornando al Marx dei Manoscritti economico-filosofici, l’autore rievoca la dimensione originaria del flusso di capitale, che si inscrive nella dinamica dell’accumulazione di ricchezza (mobili e immobili) tramite l’esercizio della violenza. Ancora una volta è bene specificare quanto poco “moraleggiante” sia l’analisi del capitalismo proposta da Harvey, il quale afferma:
L’accumulazione originaria del capitale nell’Europa tardo medievale fu il frutto di violenze, atti predatori, ruberie, frodi e furti. Adoperando questi metodi extralegali, i pirati, i preti e i mercanti, coadiuvati dagli usurai, accumularono “potere del denaro” in misura tale da iniziare a far circolare sistematicamente il denaro come capitale […] Fu solo dopo il 1750, quando i capitalisti appresero a far circolare il capitale attraverso la produzione impiegando lavoro salariato, che la crescita composta poté avere inizio. (p. 59)
Code di disoccupati durante la Grande Depressione
Se l’origine del capitalismo alligna dunque nella violenza, per certi versi assurta a paradigma esplicativo, delle enclosures inglesi, si tratta di una violenza che si inscrive, secondo Harvey, nella logica della lotta di classe, in base alla quale i capitalisti, per incrementare la propria quota di profitti (conditio sine qua non della sopravvivenza stessa del capitalismo), sono costretti a convertire alle logiche di mercato – e cioè all’estrazione, appunto, di profitto – il maggior numero possibile di attività umane (il lavoro, le relazioni sociali e sentimentali, il tempo libero, l’alimentazione, etc.) e di elementi naturali (il suolo e il sottosuolo, l’acqua, etc.). Tutto ciò scatena reazioni e controreazioni, ma pur sempre nel quadro di una plurisecolare lotta di classe tra le ragioni dei capitalisti e le ragioni dei suoi oppositori (in primis, ma non solo, i lavoratori salariati).
Un’analisi per il presente
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Sebbene per qualcuno una lettura del capitalismo in questi termini possa sembrare perlomeno datata, bisogna precisare come Harvey tenti non già di convincerci ancora una volta della bontà dell’analisi marxiana – da cui si può ben dissentire; egli intende piuttosto offrire una chiave di lettura delle condizioni del “tempo presente”. Un “tempo presente” nel quale si dibatte molto, e a ragione, dei limiti naturali della crescita, dovuti all’esaurimento delle basi materiali su cui poggiano l’accumulazione e la circolazione di capitale. Benché non sembri propriamente in linea con le tesi sulla decrescita sostenute, tra gli altri, da Serge Latouche, Harvey si pone ovviamente il problema della sostenibilità ambientale del capitalismo, il quale, per mantenere perlomeno intatti gli attuali indici di ricchezza, dovrebbe raggiungere – secondo i calcoli dell’autore – un livello di crescita composta annuale pari al 3% del PIL mondiale. Un livello tecnicamente insostenibile, se si pensa alla quantità e alla qualità di risorse ambientali oggi disponibili sulla Terra. Tuttavia il capitale non può arrestare il suo flusso, e perciò mira all’occupazione materiale e virtuale di nuovi spazi (geografici o finanziari, entrambi intimamente legati e reciprocamente condizionanti). Di qui, sottolinea Harvey, la necessità materiale e politica di ripensare radicalmente i modi e gli obiettivi della produzione di beni e ricchezze; dello sfruttamento delle risorse naturali; dell’organizzazione degli spazi urbani e rurali; della gestione dei flussi umani a livello locale e globale. Un tentativo che andrebbe perseguito, secondo l’autore, non tanto nel segno della riscoperta di datate ricette keynesiane, o, peggio, nel folle tentativo di imitare le suggestioni del capitalismo “cinese” (da Harvey analizzato e infine deprecato); bensì un tentativo a cui dovrebbe legarsi il vincolo politico, economico e culturale dell’uscita dal capitalismo, quale presupposto irrinunciabile per la creazione di una società comunista (senza nostalgie per le esperienze di “socialismo reale”).Turbocapitalismo
Il sistema capitalistico nutre al suo interno i germi della propria crisi; nasce da un processo di violenza e di appropriazione compiuti in nome dell’estrazione di profitto; tende a consumare in maniera irreversibile le basi materiali grazie alle quali l’umanità è in grado di sopravvivere; alimenta dinamiche di guerra permanente tra Stati, popolazioni, gruppi etnici, etc. per l’acquisizione di risorse materiali e intellettuali ritenute strategiche. Alla luce di tutto ciò, la necessità di uscire dal capitalismo s’impone dunque come il risultato logico, più che ideo-logico, della volontà di superare lo stato di cose presenti, laddove la ratio di una proposta teorico-politica di tale natura rimanda alla schiacciante evidenza degli accadimenti di cui gli osservatori contemporanei sono protagonisti: la contrazione vissuta attualmente dal sistema capitalistico appare di tale portata da mettere a rischio la tenuta delle sue strutture portanti. Soltanto l’attivazione di numerosi interventi “esterni” (leggi: statali, federali, variamente istituzionali; in una parola, politici) sembra sia in grado di parare i colpi che provengono sia dalle turbolenze del settore finanziario, sia dagli indici per nulla positivi dell’economia cosiddetta “reale”. Quella che a prima vista sembrava (oggi come, ad esempio, nel non lontano 1929) una crisi nel sistema, e perciò risolvibile mediante gli strumenti di autodifesa di cui esso gode (vale a dire la presunta autoregolazione dei mercati), appare in effetti una crisi del sistema, i cui anticorpi risultano impotenti di fronte all’aggressione degli agenti patogeni (vedi ad esempio la speculazione finanziaria) che ne minano la stabilità. Poiché la fede nell’autoregolazione dei mercati si è dimostrata il frutto di un’onirica – benché pericolosa – speculazione accademica, il capitalismo soffre oggi di un deficit di auto-controllo tale da richiedere il soccorso di soggetti esterni come gli Stati (che in realtà, come s’è detto a proposito del “connubio Stato-finanza”, costituiscono un ingranaggio indispensabile alla sopravvivenza del sistema capitalistico), il cui intervento genera a sua volta un patente deficit di legittimità dell’intera architettura del capitalismo. A tale svuotamento di legittimità deve corrispondere, sostiene Harvey, la presa di coscienza della non-emendabilità (che certo non corrisponde alla sua definitiva dichiarazione a morte) del sistema, al quale va dunque opposta una controffensiva teorico-politica di portata radicale.
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Soltanto l’attivazione di numerosi interventi “esterni” (leggi: statali, federali, variamente istituzionali; in una parola, politici) sembra sia in grado di parare i colpi che provengono sia dalle turbolenze del settore finanziario, sia dagli indici per nulla positivi dell’economia cosiddetta “reale”. Quella che a prima vista sembrava (oggi come, ad esempio, nel non lontano 1929) una crisi nel sistema, e perciò risolvibile mediante gli strumenti di autodifesa di cui esso gode (vale a dire la presunta autoregolazione dei mercati), appare in effetti una crisi del sistema, i cui anticorpi risultano impotenti di fronte all’aggressione degli agenti patogeni (vedi ad esempio la speculazione finanziaria) che ne minano la stabilità. Poiché la fede nell’autoregolazione dei mercati si è dimostrata il frutto di un’onirica – benché pericolosa – speculazione accademica, il capitalismo soffre oggi di un deficit di auto-controllo tale da richiedere il soccorso di soggetti esterni come gli Stati (che in realtà, come s’è detto a proposito del “connubio Stato-finanza”, costituiscono un ingranaggio indispensabile alla sopravvivenza del sistema capitalistico), il cui intervento genera a sua volta un patente deficit di legittimità dell’intera architettura del capitalismo. A tale svuotamento di legittimità deve corrispondere, sostiene Harvey, la presa di coscienza della non-emendabilità (che certo non corrisponde alla sua definitiva dichiarazione a morte) del sistema, al quale va dunque opposta una controffensiva teorico-politica di portata radicale.
Verso una nuova sinergia co-rivoluzionaria
Concependole dialetticamente interconnesse, Harvey individua nell’insieme di queste sfere il campo d’intervento delle forze anticapitaliste (dai numerosi “movimenti” ai partiti e sindacati tradizionali), il cui obiettivo politico di lungo termine si salda dunque nel concetto di “co-rivoluzione”, a significare la necessità di agire contemporaneamente su tutte le sette dinamiche vitali descritte dall’autore.
Harvey non nega la difficoltà, se non addirittura l’utopia, dell’impresa. Chi, come lui, conduce la propria militanza politica all’interno delle innumerevoli realtà della sinistra istituzionale e ed extra-istituzionale, conosce gli ostacoli che, a causa di divergenze ideologiche e organizzative di cui molto spesso la sinistra soffre, si frappongono alla delineazione di obiettivi di lotta comuni. Ciononostante il fine di superare il sistema capitalistico vale lo sforzo di provare a coniugare in una prospettiva comune le differenti declinazioni dell’anticapitalismo, che spaziano dalle lotte operaie alle battaglie per i diritti dei migranti; dall’impegno ambientalista e animalista alle rivendicazioni sessuali e di genere (senza dimenticare, con una punta polemica rivolta a certi ambienti dell’anarchismo radicale, di porsi il problema di un’alternativa al connubio Stato-finanza e all’architettura dello Stato in quanto soggetto interno al sistema capitalistico: quanti volessero ignorare o declassare l’importanza delle dinamiche statali ed interstatali non contribuirebbero realmente, afferma Harvey, alla costruzione del processo co-rivoluzionario).
Oltre il capitalismo?
Questi, in conclusione, i moniti dell’autore, il quale – più che proporre ricette difficilmente confezionabili – ribadisce in ultima analisi il compito che egli stesso, nelle vesti di “intellettuale alienato” in seno alla dimensione capitalistica contemporanea, si è posto all’inizio del proprio lavoro: offrire una spiegazione de-naturalizzante, vale a dire criticamente esplicativa, e perciò storica, delle modalità di funzionamento del flusso di capitale, e, di conseguenza, del sistema capitalistico nel suo complesso. L’intento, oltreché lodevole, può sembrare eccessivamente ambizioso. Di certo si potrebbe accusare Harvey di eccessiva vaghezza, o di eccessivo ottimismo, quando sviluppa le sue proposte sulla co-rivoluzione, e soprattutto quando non spiega, al di là di un ovvio accenno alla pratica della discussione deliberativa all’interno e all’esterno delle tradizionali istituzioni della democrazia rappresentativa, in che modo i vari movimenti e i vari partiti anticapitalisti possano concretamente oltrepassare i rispettivi pregiudizi ideologici. Ma è altrettanto vero che sarebbe ingenuo pretendere da un intellettuale una ricetta magica, valida sempre e per tutti, che sia capace di creare d’un sol colpo il migliore dei mondi possibili.
Le prospettive di cambiamento, ci ricorda Harvey, devono certo articolarsi a partire da una visione teorica solida (ed è ciò che lui contribuisce a delineare), ma non possono che svilupparsi all’interno delle lotte, i cui effetti agiscono poi a ritroso sulle stesse strutture teoriche iniziali. Non v’è dubbio che la prospettiva teorica di Harvey sia di carattere comunista (e si sta parlando di un comunismo ben diverso sia rispetto alle varie esperienze di “socialismo reale” sperimentate nel corso del Novecento; sia rispetto ai più recenti contributi di alcuni intellettuali come Antonio Negri, Slavoj Žižek, Jacques Rancière, Alain Badiou), ma non sembra che la questione nominalistica occupi gran spazio nell’analisi di Harvey, che non si scandalizzerebbe se il Movimento (qui la maiuscola non è un refuso) non si autodefinisse d’ispirazione comunista e praticasse egualmente forme di antagonismo anticapitalista.
Ciò che non si può rimandare, insiste l’autore, consiste nell’assunzione di un preciso compito storico da parte del Movimento: l’obbligo di analizzare e individuare i meccanismi che rendono generalmente opaco l’“enigma” del capitale, e, una volta compiuto questo passaggio, opporre al “capitale disvelato” una controffensiva politica e culturale all’altezza dei tempi. Compito arduo, si dirà. Tuttavia , facendo uso di questo apparente “ottimismo della volontà”– verrebbe da dire, con ironia, “tipicamente anglosassone” – , il testo di Harvey sembra voglia suggerire una direzione ben precisa alla gestione della caotica complessità del Reale. O, perlomeno, cerca di costruire nuove prospettive di critica del “tempo presente” senza l’agio di una meta assicurata.