L’analista che volesse riportare un giudizio critico sulla saga di Shangai Devil individuerebbe innumerevoli spunti all’altezza di un autore complesso e sofisticato quale ha dimostrato di essere Gianfranco Manfredi nel corso della sua carriera di scrittore e sceneggiatore.
Il critico rimane affascinato dai tortuosi percorsi narrativi, vere e proprie linee escheriane, che si avviluppano fra di loro e portano al nulla. Il critico apprezza lo sforzo con cui l’autore, valicati i cancelli di un mondo remoto, evidenzia l’impotenza dell’uomo occidentale nel cogliere una cultura altra e trasferisce questa incapacità al lettore, che turba e confonde perdendolo in infiniti labirinti narrativi. La Cina del Novecento, che l’autore mostra al suo lettore, è un pianeta alieno in cui tutto può accadere e dove nulla può essere compreso, interpretato, attraverso la logica dell’uomo occidentale. Il critico apprezza l’ardita contaminazione della magia, suggestiva e bene dosata, con la storia. Apprezza l’intelligenza del narratore nell’introdurre in uno scenario estraniato quei semi di futuro, rappresentati dal cinema e dalla fotografia, che appaiono precoci ma già tanto rivoluzionari, messaggeri della manipolazione dell’informazione e quindi della realtà, della storia, di tutto.
Il critico senz’altro apprezza, assieme al tratto elegante e preciso (ma tradizionale) di disegnatori come Massimo Rotundo, le soluzioni grafiche di Paolo Raffaelli (#15, Crollo di un impero) o di Stefano Biglia (#18 La Sorgente dei Fiori di Pesco), innovazioni chiaroscurali ricche di fascino, solarizzazioni estreme, le uniche modularità in grado di poter compiutamente tradurre la desolazione delle cose, l’estraneazione degli scenari, la devastazione spirituale che vede protagonisti e vittime Ugo Pastore e i suoi compagni.
Il critico si compiace per il romanzo di formazione che ha sotto gli occhi, un vero e proprio bildungsroman, che l’autore tesse con Ugo Pastore come protagonista. Il lungo percorso dell’antieroe romano è fatto di tormenti e sofferenze, non esclusivamente fisiche che lo portano al giardino dell’ultima conoscenza, dove la tigre è pacifica come un bimbo e la donna che assume una visione salvifica, in un’altra vita, è stata una prostituta. Un eroe assolutamente postmoderno Ugo Pastore, ma nello stesso tempo kantiano, senza obiettivi e certezze, se non la legge morale dentro il proprio cuore.
Manfredi ha voluto dimostrare di essere un autore che si stacca dalla generalità della produzione fumettistica seriale. Aveva diciotto numeri per farlo, un totale di milleseicentonovantadue tavole. Uno spazio enorme dove poter raccontare, congetturare, affascinare e sperimentare. L’ha fatto regalandoci quegli spunti importanti che abbiamo sopra descritto.
Lo sconcerto del lettore
Ma al lettore, al lettore comune che per diciotto numeri, per diciotto mesi, guidato dalla mano dell’autore, ha attraversato la Cina della rivolta dei Boxer, malata e insanguinata, spossata dalle convulsioni di una classe dirigente in disfacimento e alla fine impotente di fronte agli eserciti di occupazione delle potenze straniere, in ultimo, cosa è rimasto?
Invece che dalla testa partiamo dalla coda, verifichiamo il finale di cui lo stesso Manfredi mena vanto nella rubrica Al Dragone volante definendolo “sorprendente”, “visionario ma non allucinatorio” (Shangai Devil #18, p. 4).
Il lettore, invece, resta sorpreso della sorpresa dell’autore che si sorprende di se stesso.
Dove starebbe la straordinaria inventiva dell’autore che, in un finale, tutto sommato tautologico, non ha fatto altro che portare il disgraziato protagonista nel luogo in cui si sapeva, sin dagli inizi, che aveva trovato ricovero Meifong? Tutti quanti i lettori si aspettavano che sarebbero state date spiegazione forse strabilianti, magari anche banali, su questo luogo. Poteva essere solo una utopia, oppure una scaglia di una società perfetta, o forse un monastero lamaista, forse era in un sogno di fumatori d’oppio, magari non esisteva per nulla. Tutto poteva essere accettato, tutto tranne quella sequenza di iconette adulterate spiaccicate lì con corredo di gattone mansueto. Il finale è semplicemente astruso e fuori di logica e comunque incoerente e non trova appigli nella complessità degli intrecci fino a quel momento intessuti che hanno portato, a quanto pare, al vuoto assoluto.
In una intervista rilasciata a Comicus l’autore se ne lava le mani, affermando che ha voluto lasciare l’interpretazione del finale “alla libertà e alla sensibilità dei lettori”.
Eh no, caro Manfredi! Così non va bene! Troppo comodo cavarsela in tal guisa!
Ma come si può menare in lungo e in largo il lettore per diciotto lunghissimi mesi e appioppargli, in conclusione, un finale posticcio e incomprensibile? E questa sarebbe una “libertà” concessa al lettore? Libertà di reinventarsi il finale da solo?
Nella medesima intervista Manfredi si vanta del fatto che ha realizzato un “totale capovolgimento delle regole” della narrazione tradizionale, la quale, in partenza, collocherebbe l’eroe in un luogo ove può attingere alla sua forza attraverso una esperienza mistica o religiosa che lo proietterebbe, successivamente, verso l’azione nel mondo concreto.
In Shangai Devil si avrebbe, viceversa, un totale capovolgimento della narrazione, in quanto rappresenta il percorso di Pastore verso la sorgente della forza (e non viceversa).
Manfredi è troppo smaliziato per non sapere che la tipologia di finzione da lui utilizzata non è né originale, né tantomeno innovativa, visto che potremmo ritrovarla (quale illustre antenata!) nell’omerica Odissea, narrante delle peripezie di un astuto greco, reduce da una guerra interminabile, attraverso perigliosi itinerari (e qualcuno potrebbe trovarci, grosso modo, qualche similitudine con le disavventure di Ugo Pastore), verso un’agognata pace non solo esteriore bensì anche spirituale.
Diciamo pure che Ugo Pastore si inserisce bene fra le categorie degli eroi moderni, protagonisti che non hanno il controllo degli eventi e delle figure che agiscono ma subiscono gli uni e gli altri. Ugo Pastore è una figura estremamente debole dal punto di vista spirituale, provato com’è dalle vicende narrate in Volto Nascosto (SBE, nn. 1-14, ottobre 2007 – novembre 2008).
Visti i presupposti, il percorso della narrazione non può che prendere il via dalla debolezza di Ugo Pastore e andare verso la sua riaffermazione, attraverso una serie di esperienze e di prove che lo conducano verso il sentiero della verità, o della forza interiore o di quel che si vuole. Nulla di male in questo percorso (l’unico coerente con la specificità del personaggio) che avrebbe dovuto comportare, però, una qualche evoluzione del protagonista in conseguenza degli innumerevoli accadimenti. Ugo invece, nonostante le prove infinite, rimane simile a sé stesso, anzi, con il passare degli eventi si incupisce e si deprime ancora di più (se mai possibile), non pare intenda affrontare alcuna via attraverso cui sbrogliare un suo qualche nodo esistenziale, al di là di quel sentiero piuttosto concreto e materiale che lo condurrà alfine verso la Sorgente.
Ad aggravare questo girovagare inutile e incerto arriva, come una mazzata finale, il discutibile esito conclusivo.
L’incomprensibile erranza di Ugo Pastore
Ma per arrivare dove Manfredi ci ha portato, servivano veramente tutte quelle peregrinazioni attraverso cui abbiamo seguito i personaggi? E, alla luce del risultato, servivano davvero tutti quei personaggi, tutte quelle sottotrame?
Lo Shanghai Devil di Manfredi appare, prima di tutto, un esempio di violazione del principio di economicità, poiché troppi elementi risultano non funzionali all’intreccio.
La storia mette in evidenza due centri di interesse: la vicenda personale del protagonista, Ugo Pastore, e la ricostruzione del contesto storico. Un terzo centro, sottolineato dalle interessanti introduzioni di Manfredi a ciascun episodio, è costituito dalla Cina quale elemento componente dell’immaginario occidentale. Questo aspetto attiene alle motivazioni di Manfredi nel proporre la storia narrata, ma è poco significativo ai fini della narrazione vera e propria.
Secondo uno schema tipico del romanzo storico, le avventure del protagonista conducono il lettore attraverso i luoghi e situazioni, dove può vedere in scena i fatti della Storia. Seguendo Ugo Pastore, scopriamo intrighi, usanze e modi di vita di un mondo largamente sconosciuto e sottratto, grazie alla precisione dello scrittore, all’indeterminatezza e approssimazione eurocentrica di tanta narrazione occidentale.
Ma, nella misura in cui Shanghai Devil è un romanzo, e non un’opera di divulgazione storica, lo sforzo nella ricostruzione sta nella definizione dello scenario in cui si svolgono gli eventi, qualcosa che è una precondizione narrativa, un lavoro preparatorio. Manfredi ha costruito un fondale accurato, documentato e dettagliato, ma che cosa ha raccontato su quel fondale?
Ha raccontato di un individuo che, alla ricerca di un senso alla propria esistenza, si cala totalmente in una cultura aliena: di questa completa immersione è segnale evidente il fatto che la padronanza del cinese sia tale che nessuno riconosce nel mascherato Shanghai Devil (che si esprime evidentemente in mandarino) un occidentale. L’immersione nella cultura cinese è tale che, attraverso l’amore per Meifong, giunge alla Sorgente dei Fiori di Pesco, luogo dell’immaginario cinese (non sappiamo se vi giunga vivo o in allucinazione; l’uso di una soggettiva nella scena conclusiva avrebbe sottolineato con chiarezza l’ambiguità, ma per il nostro punto è decisamente secondario: il suo cervello ci arriva e questo è quanto). Il percorso umano di Ugo è quindi, come progetto, assolutamente affascinante. Siamo nel pieno della tradizione del romanzo di formazione.
La resa narrativa di quel percorso, purtroppo, è stata quantomai sconcertante.
Lo sconcerto non nasce da una qualche messa in crisi o discussione di categorie né dalla profondità della crisi di Ugo o dall’incertezza del suo cammino.
Lo sconcerto nasce dal fatto che l’intreccio è stato sviluppato con grande attenzione al dettaglio e poca al progetto complessivo, come un quartiere di begli edifici ma realizzati senza alcuna visione urbanistica. Mentre in ogni episodio Manfredi ci propone scene ottimamente costruite, la serie, nel suo complesso, ha un ritmo zoppicante, e in molti casi gli eventi non fanno avanzare la vicenda, quasi fossero episodi di una serie infinita, che si concludono con il ritorno al punto di partenza per poter ripartire il mese successivo.
Questo approccio è forse traccia di una potenzialità iniziale del progetto?
Oppure è l’effetto secondario del tentativo di costruire una consuetudine con luoghi e personaggi, che aiuti la lettura?
Il fatto è che, ad esempio, ai fini narrativ,i tutto il primo terzo della serie poteva essere condensato in due numeri, che mettessero in evidenza l’innamoramento di Ugo e il suo invischiarsi nelle vicende locali. La dilatazione scelta da Manfredi è la dilatazione tipica del feuilleton o della soap opera, ma risulta in un enorme spazio dove si affastellano eventi in maniera gratuita. A dare un senso ai personaggi, infatti, non è sufficiente richiamarli in scena, se non si dà a queste riapparizioni un significato intellegibile nell’ambito della storia. Così, alla fine del viaggio ritroviamo il maestro Ziwen, che istruì Ugo all’inizio dell’avventura: e allora? Così vuol dirci Manfredi? Forse che la sapienza è la porta sia per entrare nel mondo fisico sia in quello della felicità spirituale (o della morte serena)?
Anche in questo caso la spiegazione è demandata al lettore, che tuttavia, come già puntualizzato, non ha semplicemente elementi che forniscano criterio per separare interpretazione legittima da sovrainterpretazione arbitraria (chiaramente un seguace di Richard Rorty potrebbe segnare questo come punto a favore dell’opera).
Personaggi entrano ed escono precipitosamente dalle pagine, sono sacrificati frettolosamente ancorché essere sfruttati a fondo: si pensi ai villains Likang e Sun (Shangai Devil #4: I Ribelli del Fiume Giallo), che, col senno di poi, sembrano una prima versione incerta di Chuang Lai. Manfredi elimina Likang e Sun come se non sapesse che farsene dopo quell’episodio. Allo stesso modo, Chuang Lai alla fine dà solo un contributo strumentale alla vicenda: è l’occasione di qualche scontro oltre che il deus ex-machina per salvare Ugo dalle Guardie Imperiali nell’episodio finale.
Risto è una spalla con tutti i numeri per essere la controparte ambigua di Ugo, ma Manfredi non lo definisce come meriterebbe anche se riesce a far emergere la contraddittorietà di questo meneghino arruffone, trafficone ma in fondo con un senso dell’amicizia che effettivamente ne influenza le scelte e contribuisce alla sua evoluzione.
Troppo poco, troppo tardi.
Fra i personaggi ricorrenti, giusto Lady Jane Stanton esprime quel fascino che non può mancare alle spie e alle belle donne dei romanzi d’avventura. Manfredi ci mostra le sue gesta ma ci cela le sue vere intenzioni, trasferendo al lettore, secondo una costante stilistica di questo lavoro, il compito di indovinarne i pensieri. Poteva essere Lady Jane il necessario co-protagonista di questa miniserie? Anche in questo caso, i presupposti c’erano, ma Manfredi ha rinunciato anche a questa possibilità.
E, come vedremo più oltre, il motivo è semplice: l’autore è interessato solo ed esclusivamente al protagonista e al suo percorso umano e spirituale, vero soggetto della vicenda.
Pastore non è abbastanza cupo da essere disturbante né abbastanza profondo da essere affascinante. È un cieco che si muove in un labirinto e sbatte la testa contro i muri, diventando, più che un punto di vista critico, una fonte di irritazione (e i suoi compagni, in questo, esprimono efficacemente il pensiero del lettore). Guidano, Ugo Pastore, sogni e visioni la cui introduzione nella vicenda è ulteriore elemento di sconcerto, perché assolutamente avulse dal resto, quasi parentesi autonome. Manfredi non le usa cioè per suscitare suggestioni, per evocare atmosfere di realismo magico o inquietudine spirituale: restano siparietti visionari, che muovono Ugo quando niente altro nell’intreccio sembra in grado di farlo.
Anche il ruolo delle due maschere, quella di Shanghai Devil e quella di Tai-Mien rimane occulto e contraddittorio per l’incapacità (l’intenzione?) dell’autore di fornire al disgraziato lettore elementi interpretativi. Quando indossa la maschera di Shanghai Devil, Ugo Pastore fuoriesce dalla sua ordinaria natura e diviene violento e persino crudele. Cosa può significare tutto ciò. Forse che la maschera dell’Occidente non può che mascherare prepotenza? E la maschera di Tai-Mien (che proviene dal teatro classico cinese) cosa significa? Rappresenta forse l’imponderabilità della cultura cinese? Domande poste e lasciate lì, demandate alla buona volontà del lettore.
Il viaggio di Ugo Pastore e la destrutturazione dell’eroe
Ma adesso abbandoniamo le vesti del lettore e, riassumendo quelle di critico, vediamo di esaminare l’opera da ulteriori punti di vista che potrebbero essere di completamento del quadro sino a qui proposto.Abbiamo visto come Ugo Pastore appaia un personaggio confuso e irresoluto. Questa sua stessa “in-essenza” potrebbe essere esaminata come una caratteristica funzionale nell’economia di un’opera che propone di calarsi in una realtà sconosciuta e fondamentalmente aliena.
Nella letteratura visiva del Novecento, l’idea stessa del viaggio, in una dimensione estranea e lontana da quella comunemente conosciuta, è un momento fondante per l’elaborazione dell’eroe moderno e postmoderno. Dal punto di vista cinematografico si rammentano le esperienze di autori come Rossellini, Pasolini, Malle, Renoir in India. Si pensi alle “Cine” di Antonioni, Bertolucci, Ivens, al Giappone di Wenders, di Marker. Viaggi alla scoperta di culture altre e di modelli cognitivi meno fallibili rispetto a quelli occidentali.
Il viaggio, tradizionalmente simbolo di acquisizione di conoscenza e competenza, presa di coscienza e superamento dei propri limiti, negli esempi citati diventa momento di disorientamento culturale, personale e sociale. Diviene un itinerario di scoperta che trascende nel vagabondaggio, nella deriva personale in cui la volontà viene meno e si rimane in balia degli uomini e degli eventi.
Ugo Pastore, come gli altri interpreti di quei viaggi “esotici”, si lascia trasportare dalle vicende, sopravvive senza obiettivi definiti, sin dal primo numero in cui ciondola in una Shanghai immensa e incomprensibile. La sua inerzia, che sgomenta il lettore abituato a ben diversi tenori, risponde però pienamente alla tempra fragile e instabile dell’eroe moderno. Il contorno che circonda il protagonista rimane sospeso in una soluzione di chiaroscurale enigmaticità. La narrazione vibra di misteri suggeriti e mai definiti, è percorsa da personaggi ambigui e misteriosi spesso ambivalenti che circondano il protagonista e di cui non sarà mai più svelata la vera essenza spirituale.
L’opera forse è più di quel che appare, probabilmente rappresenta un viaggio in soggettiva dell’autore Manfredi attraverso una cultura aliena dalla natura disorientante, incomprensibile.
In definitiva Shangai Devil vuole insegnare che la maniera di avvicinarsi al cuore del Tao, non è attraverso una esperienza di viaggio come momento formativo e conoscitivo ma attraverso una esperienza di erranza e di inconoscibilità quale quella che vive Ugo Pastore, che vivono i suoi lettori e che subisce (forse) l’autore medesimo.
Cosa si può dire ancora di Shanghai Devil?
A Shanghai Devil siamo debitori di scenari affascinanti, di approcci culturali inconsueti.È inutile negare che abbiamo assaporato la diversità di un fumetto autenticamente e sinceramente post-coloniale. Rimane la sensazione di un esperimento che non ha dato i risultati sperati.
Probabilmente è la struttura contenitore del fumetto da edicola a essere inadatta a soluzioni quale quella progettata da Manfredi. Un personaggio post moderno quale quello di Ugo Pastore, per quanto possa essere potenzialmente affascinante, risulta irritante se è costretto a perpetuarsi per diciotto numeri. In questi diciotto numeri Manfredi ha dovuto pur metterci, per non annoiare a morte il lettore, azioni e avventure, che non avevano nulla a che vedere con l’obiettivo del lavoro.
Di fatto tutto ciò che è avvenuto in Shanghai Devil è stato lasciato cadere perché non era assolutamente funzionale alle intenzioni di Manfredi che voleva raccontare altre cose.
Un progetto in cui il viaggio, come detto, non era di formazione e di conoscenza (quindi non il Bildungsroman, cui si è accennato qua e là, ma il suo perfetto opposto) bensì di svuotamento e di annullamento degli istinti e delle volontà acquisiti in una precedente vita. Un’opera, dunque, assolutamente intimistica con connotazioni mistiche così sintetizzabili: per giungere alla Sorgente bisogna prima uccidere le emozioni, le intenzioni, le volontà umane, in altri termini “bisogna morire senza morire”.
La traduzione del progetto è risultata piuttosto infelice.
Inserita in un contesto editoriale obbligatoriamente d’avventura e di azione, l’opera di Manfredi non è riuscita a esplicitare il messaggio letterario e spirituale di cui era, troppo implicitamente, portatrice.
Il grosso difetto di Shanghai Devil sta in questo semplice assioma: il lettore deve essere messo nelle condizioni di rinvenire nell’opera stessa tutti i significati che l’autore intende esprimere e non deve essere costretto a cercarseli attraverso periglioso equilibrismi mentali o, ancora peggio, attraverso l’ausilio delle interviste rilasciate dall’autore qua e là.
Quello che deve dire l’autore lo deve esprimere nella propria opera, unico luogo propriamente deputato a raccogliere idee, genio e arte, altrimenti ogni “interpretazione autentica” suggerita dall’autore risulta una giustificazione non richiesta alla difettosa costruzione dell’opera.
Abbiamo parlato di:
Shangai Devil #1-18
Gianfranco Manfredi, AAVV
Sergio Bonelli Editore, ottobre 2011-marzo 2013
ciascun numero 98 pagine, brossurato, bianco e nero – 2,90€
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