Oggi la libertà è minacciata: non dai nobili o dai generali, e neppure dai preti e dagli imam, ma dall’uguaglianza e dalla democrazia, cioè dal livellamento indistinto dei pensieri e delle ambizioni e delle paure, dalla tirannia della maggioranza e dell’opinione pubblica, dall’invadenza dello Stato nella vita privata e nelle scelte personali dei cittadini, dalla trasformazione del pregiudizio in autorità. La sinistra, se ci fosse una sinistra, oggi dovrebbe fare questo, e soltanto questo: riaprire la frontiera della libertà.
Mentre l’uguaglianza è prima di tutto un limite, la libertà è un’apertura: per questo è strettamente intrecciata con il concetto di felicità. L’identità incompiuta di ciascuno di noi si realizza attraverso la libertà: di scegliere e pensare e comportarsi come si vuole e come ci si sente di fare; di realizzare le proprie aspirazioni, i propri sogni, le proprie ambizioni e i propri desideri; di immaginare qualsiasi cosa venga in mente e sforzarsi di renderla possibile; di muoversi ovunque senza barriere né catene né limitazioni; di proseguire illimitatamente e senza vincoli nella ricerca delle tante verità che il mondo ci offre (o ci nasconde), padroni di sé stessi e della propria intelligenza. Senza questa libertà, l’uomo non può essere felice.
Il diritto alla felicità, dunque, coincide con il diritto alla libertà di ciascuno e di tutti. Mentre l’uguaglianza è per natura individualista, la libertà è naturalmente sociale. Nel mondo degli uguali ciascuno di noi è una monade identica a tutte le altre, che gode dei medesimi diritti e obbedisce agli stessi doveri; nel mondo dei liberi ognuno è un individuo il cui mondo ricomprende tutti gli altri, perché la libertà di cui gode è precisamente la rete di relazioni al cui interno è continuamente (ri)collocato.
Una società vera, cioè solida e solidale, esiste soltanto se ciascuno è libero di fare ciò che desidera e può concretamente farlo; là dove ciascuno è uguale agli altri, e basta, non c’è nessuna società umana, ma un pollaio o una caserma. Il nesso fra libertà e felicità non sfuggì ai rivoluzionari americani, che avevano varcato l’oceano con l’intenzione di lasciare alle loro spalle anche il re e la sua Chiesa e di fare, nel Nuovo Mondo, a modo loro. Le parole di Thomas Jefferson che aprono la Dichiarazione d’indipendenza del 1776 sono giustamente famosissime:
Consideriamo queste verità di per sé evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che tra questi ci sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità.
La libertà non è mai programmabile perché è per natura imprevedibile: per questo è sempre abbastanza sciocco (ancorché qualche volta lodevole) pretendere di voler cambiare il mondo, elaborando progetti e strategie, organizzando rivoluzioni, prendendo il potere. Il mondo non va cambiato, va finalmente interpretato.
L’interpretazione è per definizione libera: prima di tutto perché il concetto stesso di “interpretazione” richiede il genere plurale: ogni interpretazione è tale perché si differenzia da un’altra, e dunque, perché ci sia un’interpretazione, devono essercene almeno due. Se però le interpretazioni sono due, nessuna può essere considerata interamente vera, perché per farlo dovremmo ricorrere a una terza interpretazione che lavora sulle prime due e sceglie la “migliore”. Ma si tratterebbe, appunto, di una terza interpretazione, e non della verità.
Non solo: interpretare non è soltanto in sé un atto plurale e pluralistico; ma anche presuppone che il mondo cui si rivolge sia un mondo plurale e pluralistico. Perché l’interpretazione sia possibile, infatti, occorre che il testo, il fatto o la persona siano interpretabili, offrano cioè una pluralità di significati (o di frammenti di significato) variamente combinabili e, appunto, interpretabili.
Insomma: non soltanto il mondo è vario, ma ciascuna cosa all’interno del mondo (compresi noi stessi) è di per sé e in ogni momento complessa, plurale, interpretabile. È questo il campo di gioco della libertà. Ed è su questo campo di gioco che si disputa la partita della nostra felicità. Il nesso libertà-felicità è talmente stretto che, da un certo punto di vista, i due concetti potrebbero essere considerati sinonimi.
La felicità non è forse la realizzazione di sé stessi? E come posso provare a realizzarmi, se non sono libero di compiere una scelta, prendere una decisione, esprimere un’opinione? Ne consegue che fra libertà e uguaglianza, fra libertà e democrazia politica, e fra libertà e società, dobbiamo sempre scegliere la libertà.
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