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L’eredità del petrolio: tanti aspiranti in un mercato “falsato”

Creato il 31 agosto 2011 da Elvio Ciccardini @articolando
L’eredità del petrolio: tanti aspiranti in un mercato “falsato”

Non troppi mesi fa, la crescita dei consumi energetici, fino al 2015, era stimata intorno 2,5% annuo e, sempre secondo le statistiche ufficiali, la produzione giornaliera di barili di petrolio sarebbe passata da 83 milioni nel 2009 a 150 milioni nel 2030.

Tutti gli analisti di settore sono concordi nell’affermare che nessuna tecnologia alternativa di produzione energetica sia ancora in grado di competere con gli 8-10 centesimi di euro necessari per produrre un Kwh di energia con i combustibili fossili (petrolio e derivati).


L’urgenza nella ricerca di una valida alternativa energetica è data dall’ampia ricerca scientifica rivolta alla definizione della data del Peak Oil, cioè del momento in cui la produzione petrolifera di una regione, di una nazione o del mondo, raggiunge il suo massimo. Dopo questo punto, essa declina inesorabilmente, con pesanti conseguenze sulla disponibilità di energia e sul suo costo.

Gli studi e le ricerche sul Peak Oil non sono recenti, ma risalgono quasi a mezzo secolo fa. Un fondamentale contributo, a questo filone di ricerca, fu dato da M. King Hubbert quando, nel 1956, predisse, correttamente, che il picco della produzione petrolifera degli Stati Uniti sarebbe avvenuto intorno al 1970. In effetti, dagli anni ’70 l’economia a stelle e strisce ha iniziato sempre più a dipendere dalle esportazioni di petrolio.

Il Future Analysis department del Bundeswehr Transformation Center, ha pubblicato uno studio in cui si afferma che il picco della produzione mondiale è già stato raggiunto nel 2010. In Italia, l’Agenzia Internazionale per l’Energia, ha affermato che il picco del petrolio è imminente e la produzione convenzionale è già in calo dal 2008, in parte coperta dall’apporto della produzione non convenzionale, più costosa ed inquinante nell’estrazione. Più ottimistiche, ma non meno urgenti, sono le date fornite dall’UK Energy Research Centre e Università di Oxford, che colloca l’evento tra il 2015 e il 2030.

A fronte di questi scenari, la ricerca scientifica si è orientata verso l’individuazione di una serie di tecnologie alternative di produzione energetica. Ad oggi, lo stato dell’arte vede l’accantonamento dell’ipotesi di ricorrere all’idrogeno, poiché fonte secondaria ed economicamente non sostenibile per l’elevato costo del platino, e quella di incrementare il ricorso al nucleare, suiccessivamente alle recenti vicende giapponesi che hanno fatto desitere molti Stati nell’investire in questo settore.

Ciò, nonostante il nucleare, al contrario dell’idrogeno, sia economicamente sostenibile, poiché permetterebbe una riduzione del costo dell’energia in bolletta del 20-30%, con emissioni medie di anidride carbonica. Tuttavia, il forte impatto psicologico dettato dai disastri ambientali legati al malfunzionamento delle centrali o a calamità naturali, rendono impraticabile il superamento dell’effetto nimby (not in my black yard). Tanto che quasi tutti i paesi europei si sono orientati verso altre soluzioni.

L’unica vera e reale speranza, sopratutto ecosostenibile, proviene dalle fonti rinnovabili di energia che presentano indubbi vantaggi, almeno dal punto di vista ambientale, data la disponibilità infinita degli input di produzione, il continuo e tendenziale raggiungimento della grid parity, cioè il raggiungimento della coincidenza del costo del kWh fotovoltaico con il costo del kWh prodotto da fonti convenzionali per tutte le categorie di utenti e per tutte le fasce orarie, e per l’importante contributo pubblico fornito attraverso gli incentivi allo sviluppo.

Tuttavia, c’è un aspetto che spesso e volentieri viene sottovalutato o addirittura omesso dagli organi di stampa, dalla classe politica e anche dagli addetti di settore, che riguarda l’effettivo costo dell’energia. Si tratta di un aspetto non secondario sopratutto nella definizione di una strategia di uscita dall’era del petrolio. In effetti, ragionando proprio in termini di grid parity, le energie rinnovabili possono essere considerate una valida alternativa alle fonti tradizionali nel momento in cui esse riescono a raggiungere la fatidica soglia degli 8-10 centesimi per kWh. Ma è veramente questo il costo dell’energia con cui confrontarsi, o meglio l’obiettivo da raggiungere? Se questo è vero per i produttori, non lo è per i consumatori.

La determinazione del costo dell’energia, infatti, non può prescindere dal costo delle esternalità collegate alla sua produzione ed al suo consumo. E’ così che, al costo di pruduzione, facilmente quantificabile e quantificato (gli 8-10 centesimi di cui sopra), è necessario aggiungere il costo delle esternalità, che corrisponde al costo dell’inquinamento ambientale derivante dalla fonte utilizzata. Solo tenendo in considerazione l’insieme dei costi dell’energia, di produzione e delle esternalità ad essa collegate, questo mercato potrà raggiungere l’ottimo sociale.

Sono ormai diversi anni che alcuni economisti, a livello internazionale, affrontano la problematica della valutazione delle esternalità, introducendo il concetto di “valore dell’ambiente”. Cioè il valore collegato al livello efficiente di sfruttamento o di protezione dell’ambiente, determinato da una valutazione economica dei beni ambientali (qualità dell’acqua, dell’aria, ecc.) e del relativo danno collegato allo sfruttamento stesso (inquinamento).

E’ possibile affermare che il modo in cui le persone percepiscono il danno derivante dalla mancata
disponibilità di un bene ambientale ne definisca il valore d’uso ed il valore di non uso. Il primo deriva dal consumo del bene (può essere uso corrente, atteso o possibile). Il secondo, valore di non uso, deriva dall’incremento di utilità che si ottiene dalla semplice esistenza del bene ambientale, anche se non si fa uso di quest’ultimo.

Al valore d’uso e al valore di non uso, si aggiungono altre declinazioni valoriali: il valore dell’esistenza (es. esistenza di una specie animale); il valore altruistico (utilità deriva dal fatto che il bene verrà goduto da qualcun altro); valore di eredità (es. area di pregio naturalistico goduta da figli e/o nipoti).

A fronte di questa chiave di lettura, la vera sfida non è definire quale sia la possibile alternativa al petrolio, ma arrivare ad un bilancio definitivo sulla convenienza o meno delle varie fonti candidate alla sostituzione del petrolio, cercando di superare la complessità di calcolo dei costi reali della produzione di energia, tra l’altro non facilmente monetizzabili. Solo superando questo scoglio economico, il mercato dell’energia potrà essere efficiente.

Purtroppo, ragionando solo ed esclusivamente in termini di grid parity, è molto probabile, almeno nel breve periodo, che si ricorrerà ad una combinazione tra fonti primarie e secondarie, che renderà più soft la fine dell’oro nero. Tuttavia, questa scelta, non risolutiva, comporterà ulteriori costi ambientali e sulla salute pubblica. Nonché maggiori costi sociali, poiché il mercato delle energie rinnovabili è oggi sostenuto da incentivi e contributi statali che gravano sulla collettività, così come sono scaricati sulla collettività i costi delle esternalità della produzione di energia attraverso il petrolio, che dovrebbero, al contrario, essere inseriti nel costo finale dell’energia da fonti tradizionali e, quindi, aggiungersi agli 8-10 centesimi a kWh di cui sopra. La domanda può sembrare provocatoria, ma siamo sicuri che l’energia da combustibili fossili sia ancora la più conveniente come si afferma oggi?

Per rispondere a questa domanda, le attività di ricerca in campo energetico dovrebbero assumere un taglio multidisciplinare ed essere rivolte all’individuazione e quantificazione dei costi di esternalità, alla quantificazione fisica dei danni ambientali (con il limite che essa sia praticabile solo ai rispettivi limiti inferiori), alla successiva quantificazione monetaria (fermo restando la difficoltà di stima dei beni intangibili, quali ad esempio il problema di definire il valore della vita umana o della conservazione di un ecosistema) e, infine, alla internazione di questi costi, che è strettamente collegata alle scelte di politicy degli attori istituzionali pubblici, che ne definiscono il riflesso sociale.

In merito a queste tematiche, già nel 2003, la Commissione Europea aveva dato incarico di produrre studi e attività di ricerca, rivolte alla definizione di modelli per la valutazione dei costi di esternalità dell’energia.

I risultati evidenziavano che, tra tutte le fonti di produzione di energia, quelle tradizionali avevano costi di esternalità superiori, rispetto alle altre fonti di produzione energetiche, in tutti i paesi europei analizzati.

I riferimenti metodologici, per definire una strategia efficace di uscita dall’era del petrolio non mancano. Uno di questi è il progetto ExternE, nato nel 1991, dalla collaborazione tra la Commissione Europea e il Department of Energy degli Stati Uniti, allo scopo di proporre il primo approccio sistematico per la valutazione monetaria dei costi esterni di una vasta gamma di cicli di produzione di energia elettrica.

Purtroppo, a venti anni di distanza dalla nascita di ExternE, ancora si calcolano i costi dell’energia senza tenere conto del costo delle esternalità con un duplice danno economico e ambientale. Il danno economico si manifesta in due forme. La prima ha a che vedere con la scelta di falsare il mercato dell’energia scaricandone parte dei costi sulla collettività e non sulla domanda. La seconda è indiretta, poiché attiene alle politiche pubbliche energetiche che sottostimando il prezzo delle fonti tradizionali non permettono il normale sviluppo del mercato delle rinnovabili, che poi sostengono attraverso sistemi di incentivazione che sono ripartiti nuovamente tra i contribuenti, secondo criteri che esulano da logiche di mercato. La variabile danno ambientale, se possibile, ha risvolti ancora più drammatici, poiché in parte prevede un aggravio di costi in spesa pubblica, almeno per la parte che i governi decidono di internalizzare, e, per la maggior parte, vengono scaricati sulle generazioni a venire che dovranno fare i conti con un ambiente manomesso e sempre più inquinato.

Il problema energetico non può essere declinato solo ed esclusivamente con la necessità di coprire il fabbisogno energetico di un paese, o mondiale, garantendo fonti di produzione che siano in grado di coprirlo. Al contrario esso dovrebbe essere affrontato cercando di eliminare quei disequilibri e quelle inefficienze di mercato che lo hanno reso un “non-mercato”, con posizioni di rendita e lontano dal raggiungimento dell’ottimo sociale.

E’ per questi motivi che gli attori pubblici dovrebbero rivedere le politiche a sostegno del settore, intervenendo con azioni correttive dei prezzi dell’energia laddove essi non corrispondano agli effettivi costi sociali legati all’utilizzo di una determinata fonte. Mentre, dall’altro lato, i ricercatori dovrebbero impegnarsi maggiormente nel comprendere le implicazioni economiche legate dettate dalla scelta delle tecniche di produzione e delle materie prime necessarie sia per la produzione, sia per la costruzione degli impianti.

Di certo, il nuovo mercato dell’energia, che non tarderà a nascere, non potrà essere configurato come un mercato “ipoteca” che le nuove generazioni si troveranno a dover pagare a fronte di scelte egoistiche e lobbistiche, così come avvenuto fino ad oggi.



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