Mi ricordo ancora il giorno in cui le cose senza senso cambiarono la mia vita. Prima erano accadute senza che io riuscissi a farmi domande intelligenti, ma quando hai vent’anni non è che puoi rimanere a guardare. Una mia cara amica perse i suoi due bimbi, o meglio, al quinto mese li partorì senza vita, e io iniziai a voler capire perché, se la vita è una sola, ci sono bambini che muoiono prima ancora di vedere la faccia della loro mamma.
Chi è che decide? E dall’alto di cosa? Una sola vita che alcuni riescono a vivere fino alla fine in modo pieno, e migliaia di bambini che muoiono come mosche?
No, mi sembrava troppo ingiusto, mi sembrava proprio un disegno stronzo, e sentirmi in balia di un progetto crudele o di un monarca sadico non era quello che io riuscivo a chiamare vita.
Poi ho imparato che i bambini che si perdono sono tantissimi: bambini cellula, quelli che hanno solo pochi giorni di vita; bambini palla, che sono un grumo di carne; bambini coccodrillo, quando nelle prime settimane hanno ancora la coda; bambini criceto, bambini topo e bambini finiti. Se ne perdono tantissimi, ma il numero non attutisce il dolore: sono quelli che tornano più volentieri da dove sono arrivati, ma ci lasciano sempre con una fitta nella pancia.
Proprio da qui ho avuto bisogno di trovare una storia diversa, più giusta, più uguale per tutti: la storia che ognuno di noi ha tante vite a disposizione, e che in ogni vita deve imparare una lezione (o donarla) per arrivare alla conoscenza, per arrivare alla liberazione.
E in giorni difficili come questi, dove tutta una città – sì, sempre la Piccola Città di C. – è ridotta al silenzio e allo sgomento da un ragazzo di 35 anni che in una notte di festa si rompe e muore, che la vecchia questione del “senso” delle cose torna a togliermi il fiato.
Manolo era sposato da poco col suo amore, un anno e spiccioli, e in trenta secondi (forse quaranta) stop, tutto finito. Una vita passata a costruire, cercare, crescere, e poi la felicità che finalmente stringi in pugno piena, corposa, densa, finisce risucchiata al centro della terra e tu rimani trasformata in una statua di sale senza che nessuno ti chieda neanche scusa.
Manolo e Silvia erano una coppia strepitosa, di quelle che lasciavano i luoghi dove passavano pieni di calore felice. Uno a un certo punto arriva a chiedersi perché: perché così, perché adesso.
E forse mi vien da dire che Manolo in questa vita doveva imparare a riconoscere l’amore, e ora che l’aveva fatto aveva esaurito il suo compito.
Grazie al cazzo, direte voi.
Però riconoscere l’amore, quello grande, quello forte, non è cosa da tutti: trovarlo e riconoscerlo, trattenerlo, celebrarlo, fermarlo, è cosa più rara di quel che si creda. Lui ce l’ha fatta, e non è sempre fortuna: ci vuole anche talento.
È così che la voglio pensare, perché altrimenti la vita fa schifo e vien voglia di schiantarsi contro il muro adesso, nemmeno il tempo di un ripensamento.
Tanto ci si ritrova sempre: sia voi che credete in una vita sola, sia noi che crediamo in molte vite e in molte possibilità, sappiamo che la riunione è inevitabile.
È solo un pensiero per non impazzire?
Può darsi. Ma chi rimane ha il compito di portare avanti un’eredità, che sia il più potente possibile.
E l’eredità di Manolo, nelle mani di Silvia e di tutti quelli che lo hanno amato, è al sicuro.
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