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L’eroe – Achille Campanile (estratto)

Creato il 07 febbraio 2012 da Maxscorda @MaxScorda

7 febbraio 2012 Lascia un commento

(Recensione completa qui)

"A proposito, non m’ha detto ancora come perse il braccio buono."
"Ah," disse Nicola con noncuranza "una congiura." "Una congiura?" "Sì. E" una storia un po’ "lunga."
"Me la racconti. Tanto, anche la cerimonia andrà per le lunghe." "E lei non va?"
"Le dirò: ne ho una barba, io. Sono quindici anni che si fa."
"E allora le dirò. Ero stato arrestato per ragioni politiche." "Sovversivo?"
"Macché. Mi trovai coinvolto per caso. Immagini ora…"
A questo punto passiamo a mostrare direttamente quel che il giovane narrò, nel seguente dramma intitolato:

Il braccio
ATTO I

La prigione di St" Gail, in una repubblichetta di cui non ricordo il nome, desolata dal vento a piè del Cerro San Antonio, quasi fuor del mondo, è un carcere alla buona, in cui si vive come in famiglia.
Ruggero, l’allampanato direttore, è per i detenuti quasi un padre,severo, ma giusto. La sua giovine moglie, Angelica di nome e di fatto, un’adorabile, mite creatura bionda e infelice, è la buona fata del carcere, che spesso intercede per mitigare una punizione, per sedare un malcontento.Verso l’ora del tramonto, finite le opre del giorno, quando i detenuti, nelle loro celle, si preparano ad affrontare la lunga triste notte del carcere, moglie e marito scendono in cortile per respirare una boccata d’aria e dedicarsi alle loro piccole occupazioni personali, e allora la scena diventa idillica. Lui, che alle sue dure funzioni alterna per diletto la passione perla floricultura e il giardinaggio, nella sua palandrana color tabacco, troppo lunga e larga, diligentemente innaffia i fiori, che in grami vasi, tra una statuina di Eros alato e una fontanina dal sottile zampillo verticale, menano una vita stentata.
Grame pianticelle, prigioniere anch’esse, che anelano quell’unica ora del giorno in cui un pallido raggio di sole scende nel tetro luogo ed è per esse quello che per i prigionieri è l’ora dell’aria.

Quell’ultimo raggio che sta per scomparire dietro il Cerro San Antonio, cedendo il passo al buio, nel vento desolato, sconsolato,che scende gemendo dalle gole dei monti a spazzare le lunghe deserte diritte strade della povera cittadina quasi fuori del mondo, coi suoi rari passanti frettolosi intabarrati e i suoi piccoli lustrascarpe accoccolati fra i loro stracci e quasi stracci essi stessi, pare affacciarsi nel cortile per dire: "Buona notte e siate buoni, poveri carcerati!". Mentre, nell’aria chiara del crepuscolo, s’accende quasi diafano il gigantesco Crocifisso in cima al Cerro, Angelica, come ogni giorno a quell’ora, seduta davanti all’arcolaio, presso un tavolino ingombro di registri e carte del marito, lavora a un suo interminabile ricamo,cantando certe vecchie canzoni romantiche, che fanno stringere il cuore a tutti i carcerati in invisibile ascolto nelle loro celle,dietro le finestre schermate, a imbuto.
Brava gente anch’essi, infondo, poveracci. Dal fondo di quella specie di pozzo che è il cortile, il canto sale lungo le mura, verso il cielo, anch’esso anelando la libertà.
"Bel cavaliere, disse la fanciulla, bel cavaliere, portami conte…"
Angelica interrompe il canto, per sospirare. "Che vita!" esclama, agucchiando al suo ricamo.
Il marito volge il capo verso di lei, tenendo fermo l’innaffiatoio sollevato."Resisti ancora un po’," dice con dolcezza "presto ci manderanno all’ergastolo." "Bella prospettiva!" sospira Angelica.
"Come direttore" aggiunge Ruggero, sospendendo di nuovo per un momento l’innaffiamento dei fiori.
"E questo è il guaio" dice Angelica, continuando a ricamare. "Almeno, come detenuti c’è la speranza d’un condono, della grazia, si può tentare un’evasione." "Salvognuno" mormora il marito, sul quale la parola evasione fa un effetto terrificante. "Ma noi," seguita la giovine donna, continuando a lavorare," niente.
Condannati a vita. Che prospettiva, la nostra! In cui si teme, come la maggior jattura, d’esser dimessi dal carcere.
E si spera nell’ergastolo." "E" logico," fa il marito, sorridendo, "è la mia carriera. Vorrei vedere."
"Mi sai dire che differenza c’è fra la mia vita e quella dei detenuti? Dormiamo sotto lo stesso tetto, mangiamo sotto lo stesso tetto, viviamo sotto lo stesso tetto. L’unica differenza è che, invece che in una camerata o in una cella, viviamo in un appartamento. E che l’ora dell’aria, invece che nel cortile, posso averla fuori.
Ma sempre qui debbo tornare. Almeno i detenuti sanno che, dopo un certo tempo, usciranno, se ne andranno."
Angelica si rimette a lavorare, canticchiando tristemente: "Bella fanciulla, disse il cavaliere, bella fanciulla, vieni via con me!". Il canto s’interrompe. S’ode avvicinarsi, dagli oscuri meandri del carcere, un fragore chioccio di ferraglie.
Grosse chiavi girano in serrature, catenacci scorrono, e finalmente, con un cigolio più acuto, si schiude brevemente la cancellata che separa il cortile dalla rampa elicoidale con relativi bracci, celle, e inferriate, e un secondino lascia uscire un giovinotto nel quale si riconoscerebbe Nicola di qualche anno più giovane che al tempo del nostro racconto.Egli si dirige verso il direttore del carcere. Ha il suo bravo arto artificiale a posto e il fagottello delle sue robe. "Direttore," dice, mettendosi sull’attenti, "vengo a prendere congedo."
"Ah, già," fa il direttore, posando l’innaffiatoio e asciugandosi le mani al grembiule, "oggi avete finito di scontare la vostra pena." Va al tavolo, apre un registro. "Una firma" dice.Porge una penna al giovane.
"Ma che fate?" grida, guardando di sulle spalle di lui quello che Nicola sta scrivendo.
"Scrivo un pensiero" fa il giovine. E legge ad alta voce, compiaciuto:" "Porto meco imperituro il ricordo del tratto squisito…" ". "Ma siete matto? L’avete preso per un albergo? Solo la firma. E l’impronta digitale. E" il regolamento."
"Scusi, scusi. Credevo."Nicola firma. "Allora," dice "grazie di tutto." "Di che? Dovere" fa Ruggero, burbanzoso, per non mostrare che è un po’ commosso, come ogni volta che parte uno di quelli che, nei discorsi privati, egli si compiace di chiamare "i miei ragazzi". "Beato lei che se ne va" esclama Angelica, sollevando gli occhi dal ricamo, e guardando il giovine. E’ anche lui un po’ commosso. Il direttore non rinunzia al discorsetto di rito.
"Voglio sperare," dice "che comincerete una nuova vita, e vi asterrete d’ora in poi da manifestazioni sediziose, moti di piazza, e compagnia bella." "Fu un equivoco," fa il giovane "gliel’ho già spiegato."
"Va bene, va bene," borbotta il direttore, burbero non senza sforzo, "dicono tutti così. Sono momenti di torbidi politici e conviene evitare i minimi pretesti. Ora andate, ché si fa tardi e non vorrei che vi capitasse qualcosa, figliolo, qualche brutto incontro. Fuori di qui, non c’è da stare punto tranquilli."
Di nuovo Nicola s’irrigidisce sull’attenti, facendo battere i tacchi. "Riverisco" dice.Improvvisamente il braccio destro, ortopedico, per un guasto della molla, scatta in alto col pugno chiuso, come nel saluto comunista.
Anche il direttore scatta, come lo mordesse la tarantola. "Ah, no, eh?" dice.
"Ah, no! E dicevate ch’era stato un equivoco. Ma con me non attacca. Avete sbagliato. Niente da fare."
"Che c’è?" domanda Angelica, alzando gli occhi dal lavoro. "C’è che l’amico è comunista" spiega il marito.
"Non vedi? Fa il saluto col pugno chiuso, in alto." "Che comunista!" esclama Nicola.
"Mi si è ancora una volta guastatala molla del braccio ortopedico, come quando fui arrestato.
Fui arrestato proprio per questo. E" un difetto di fabbricazione. Ogni tanto scatta."
"E sempre nei momenti meno adatti, mi pare" osserva Ruggero .A un tratto tende l’orecchio a un brusio minaccioso. S’odono all’esterno avvicinarsi, sempre più distinte, grida di: "A morte!","Alla lanterna!"."Sentite?" dice Ruggero, diventato pallido. "Ancora un tumulto di piazza. Moti sediziosi. Bastonate, al solito."Dall’esterno vengono battuti colpi violenti alla porta e s’odono grida: "Aprite! Veniamo a liberare i detenuti politici!" "Che nessuno apra!" ordina il direttore, con voce terribile. E a Nicola, che continua a stare col braccio alzato:"Ma volete metter giù quel braccio? Vi prenderanno per comunista. Volete comprometterci tutti?"
"Le ho spiegato che mi si è incagliato il meccanismo, direttore" esclama Nicola, cercando di mettere a posto il braccio finto, senza riuscirci. "Ma mettetelo giù!" grida Ruggero. "S’è incantata la molla. Non si riesce ad abbassarlo." "Volete provocare un pandemonio con quel pugno chiuso? Aprite almeno il pugno. Così!"
Ruggero s’alza sulla punta dei piedi e allungandosi apre a forza il pugno ortopedico di Nicola.
Ma, dalla padella nella brace: adesso il braccio è alzato e la mano aperta e tesa.
"Per carità!" esclama il direttore del carcere, coprendosi gli occhi inorridito. "Questo è il saluto fascista. Volete far succedere il finimondo, con quella mano aperta?"
"Aiutatemi a richiuderla, per favore!" mugola Nicola, sforzandosi con la mano buona di chiudere quella artificiale."Adesso," geme Ruggero, che suda freddo, unendo i suoi agli sforzi del giovane, "non si riesce più a chiuderla." "Bè, bè," fa Nicola ansante per lo sforzo fatto e desistendo dai tentativi, "poco male.
Visto che, mio malgrado, con questo braccio fo il saluto fascista, con l’altro farò il saluto comunista, e siamo a posto, l’equilibrio è ristabilito." "Per carità!" sbuffa il direttore del carcere. "Vi piglieranno per un opportunista e saran dolori, per voi e per noi.""Allora," interviene Angelica, accorrendo, "facciamo così: mezzo aperta e mezzo chiusa."
Alzandosi sulle punte dei piedi, ripiega con le sue manine gentili alcune delle dita ortopediche.
"Per l’amor del cielo!" strepita Ruggero. In cima al braccio teso verso l’alto, si vedono ora l’indice e il medio della mano ortopedica aperte a "v". "Questo è il "Victory" di Churchill" geme Ruggero. "Vi prenderanno per un guerrafondaio, antipacifista, anglofilo, colonialista.Stringete quelle due dita!" "Così" dice Angelica.
E facendo un salto, stringe le due dita artificiali di Nicola. "Per carità!" sbraita Ruggero sempre più spaventato.
"Quella è la benedizione, roba da preti, vi prenderanno per democristiano,papista, clericale."
Difatti ora l’indice e il medio sono alzati, tesi, ma uniti, nella mano levata in alto, come a benedire.
Nicola dà una botta al braccio. "Maledetto!" esclama. Cerca di rimettere a posto l’arto artificiale, stringendolo con la sinistra alla piegatura dell’avambraccio e involontariamente l’arto,col pugno che s’è richiuso, si mette a fare oscillare l’avambraccio,come facendo il gesto fallico. "Disgraziato!" grida Ruggero.
"Questo è un gesto offensivo, sconveniente. Volete provocarli? Farli inferocire?" "E allora," grida Nicola seccato, al braccio ribelle, "crepa!" Spazientito, dà un colpo violento all’arto finto, che rotea e poi si ferma in una posizione scontorta, impossibile, come un fumaiolo di stufa a gomito, che gli spunti dietro la schiena.
"Ma questa è una posizione innaturale!" esclama Angelica. "Meglio innaturale che provocatoria!" rugge Ruggero.
S’ode una detonazione. Una bomba ha abbattuto la porta e un’orda di scalmanati, con le camicie lacere, a brandelli, e i ceffi patibolari irrompe nel cortile della prigione, con le armi puntate."Rivoluzione! A morte!" gridano.
Alla vista di Nicola al centro del cortile col braccio nella strana posizione, l’orda degli invasori si ferma, stupita, incerta. "Non è il saluto fascista" mormora uno dei rivoltosi alludendo al braccio di Nicola.
"E nemmeno il saluto comunista" esclama un secondo. "Dev’essere un nuovo partito" fa qualcuno.
"Forse quello che attendiamo da anni. "E un altro: "Una nuova idealità". "Ma se quello non lo conosciamo nemmeno!" "Appunto." I rivoluzionari guardano stupefatti, increduli, speranzosi. "E" meraviglioso" fa quello che sembra il capo. "Guardate com’è nuovo." "Non s’è mai visto un saluto simile." "Chi riuscirebbe a farlo?"
"Questo sì, che significa rovesciare la situazione!" "Se lo acclamassimo nostro capo?"
Uno degli scalmanati si volge indietro, al grosso dei dimostranti."Compagni!" grida. "E" lui! L’uomo del destino!
Il nostro condottiero!" Segue un attimo di sospensione sbalordita. E, poi, un grido che fa tremare i vetri delle finestre e si ripercuote lontano, fin quasi nelle gole sperdute fra i monti, del Cerro San Antonio.
"Viva il nostro condottiero!" "Evviva!" ripetono tutti. "Evviva!" ripetono echi lontani, mentre Nicola, sollevato di peso,viene portato fuori, a spalla, in trionfo.

(Recensione completa qui)


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