Cominciamo dall’inizio, dal tuo rapporto con il fumetto, dalle tue letture. È stata una tua passione sin da ragazzino? Quanto è stato importante per la tua formazione personale ancor prima che professionale?
Gli inizi sono stati dei numeri di Skorpio e Lanciostory dell’Eura che trovai in casa nei primissimi anni Ottanta. Mia madre li acquistava per leggere qualcosa, ma per me furono uno shock. Vi trovai dentro un mondo di disegnatori esteri sconvolgente, rimasi letteralmente scioccato dalla Barbara di Barreiro e Zanotto, pubblicata a episodi in bianco e nero; l’ho copiata per anni nella mia pre-adolescenza. Disegnavo già da prima, ma non avevo mai immaginato la possibilità di mettere al lavoro il disegno per fare una cosa simile. Mi resi conto subito che il fumetto era un mondo fantastico in cui potevo far muovere i miei disegni come volevo, e allo stesso tempo mi era chiaro che i migliori disegnatori si dedicavano al fumetto. Quello che faceva Zanotto in Barbara, in oltre 500 pagine, credo sia ancora oggi di un livello molto difficile da raggiungere. Da allora applicai immediatamente la mia passione per il disegno puro al fumetto. Mi piaceva disegnare le donne, e mi resi conto che in una pagina di fumetto potevo disegnarle tante volte e ogni volta in una posizione diversa. Era un caleidoscopio visivo e di immaginario vorticoso che mi attraeva più di qualsiasi altra cosa. Iniziai a procurarmi tutto e lo shock continuò per anni, fino a oggi. Allora divoravo riviste e fumetti anche in lingua originale, volevo vedere tutto e scoprii i maestri che tutt’oggi considero indelebili. Recentemente, tra i tanti omaggi che ho portato a Parigi in mostra, ho realizzato una grande illustrazione di Barbara, con non poca emozione.
Quando e come hai capito che disegnare sarebbe stato il tuo mestiere?
Non credo di averlo mai capito. Tutt’oggi non sono certo che sia un mestiere, mi sono abituato al fatto che vengo pagato per fare quello che mi piace e mi è sempre piaciuto fare. Ho sempre avuto un po’ di paura, fin dagli inizi, del fatto che il disegno dovesse a un certo punto trasformarsi in un mestiere e che quindi avrebbe perso,
Giovanissimo, all’inizio degli anni Novanta hai iniziato a muovere i tuoi primi passi nel mondo del fumetto entrando in contatto con una delle realtà editoriali più brillanti di quegli anni, la Granata Press di Luigi Bernardi. Come arrivasti a loro, cosa ricordi di quell’esperienza e cosa ti ha lasciato?
Hai detto bene, Granata Press rimane una realtà editoriale irripetibile, ancora oggi. Il fumetto e il disegno erano allora, come oggi, il fulcro dei miei interessi e della mia vita; caratterizzavano le mie amicizie e frequentazioni e altri miei amici appassionati mi dissero che c’era questa casa editrice a Bologna che cercava nuovi talenti. Partii immediatamente, con la mia cartella, a diciotto anni, per presentarmi. Al primo incontro venni giudicato dal serio e preparatissimo Luigi Bernardi come un disegnatore di talento, ma non ancora pronto per la pubblicazione. Luigi mi consigliò di farmi risentire di lì a un anno. Mi chiusi in casa per un anno circa a disegnare come un ossesso e tornai a Bologna. Firmai subito un contratto. Granata Press è stata un’esperienza formativa e allo stesso tempo magnifica, i consigli e le cose che mi passava Roberto Ghiddi, allora art director, oppure Luigi, le ricordo e le conservo oggi come allora. Oltre a questo, si respirava ancora un’atmosfera di creazione elettrizzante, c’erano progetti che nascevano, il mercato era promettente e la casa editrice spiccava per genialità e originalità. Mi sentivo fiero e fortunato a essere con loro.
Per la Granata realizzasti Koshka, fumetto che avrebbe dovuto far parte del progetto Alba Nera, un universo narrativo d’impronta cyberpunk ideato da Stefano Di Marino che includeva Benares Inferno, disegnato da Davide Fabbri. Raccontaci come sei stato coinvolto in quella iniziativa.
Di Alba Nera venni a conoscenza quando ero già al lavoro su Koshka da un po’. Iniziai Koshka dopo che Luigi Bernardi affidò l’onere a Stefano di Marino di inventare una storia di fantascienza con una protagonista femminile apposta per me. In seguito venni a conoscenza del progetto Alba Nera, ma ero troppo innamorato di Koshka per pensare ad altro. Se ci penso oggi, io e Di Marino eravamo al lavoro su qualcosa di elettrizzante. Disegnare e sviluppare Koshka è stata una vera benedizione per me, non avrei potuto chiedere di meglio.
Hai dovuto rifarti a un preciso immaginario grafico dettato dai testi di Di Marino o hai avuto l’opportunità di seguire un tuo percorso personale, attingendo alle tue fonti d’ispirazione?
Ero assolutamente libero. Quando parlo di qualcosa di elettrizzante, riguardo a Koshka e a Granata Press, intendo soprattutto questo:
Purtroppo Koshka rimase inedito a causa del fallimento della casa editrice, ma è stato comunque pubblicato all’estero. Come arrivasti a Heavy Metal e al mercato francese? Come fu accolto il tuo fumetto?
Dopo il fallimento di Granata Press i diritti di pubblicazione di Koshka furono venduti. Io ero via negli Stati Uniti ed ero lontano dal mondo del fumetto perché stavo lavorando nel cinema. Verso la fine degli anni Novanta scoprii che Koshka aveva fatto quasi il giro dei mercati del fumetto più floridi del mondo. Fu una bellissima sorpresa. Tutte le pubblicazioni, sia quelle francesi e spagnole che quelle in America su Heavy Metal, erano fuori dal mio controllo e dalla mia volontà. Dopo molti anni, credo nel 2004, mentre ero ad Angoulême, in Francia, a fare delle dediche sulla mia Sophia, una signora, dopo aver fatto una lunga fila, mi mise davanti un’edizione di Koshka in lingua fiamminga: voleva una dedica per sua figlia che era rimasta malata a casa. Ovviamente di questa edizione non sapevo nulla.
Successivamente ti sei allontanato dai fumetti aprendo una lunga parentesi di lavoro nel mondo del cinema, facendo la spola tra Hollywood e la Cina. Raccontaci di questa avventura: come è nata e di cosa ti sei occupato precisamente?
Sì, sono stato impegnato nel cinema per quasi otto anni. Subito dopo Koshka venni invitato dal grandissimo Oscar Chichoni a Los Angeles per aiutarlo a disegnare un progetto di film di animazione e da allora non mi sono fermato fino al 2001 circa. Non mi sono mai occupato di storyboards, tranne un caso isolato. Fare storyboards non mi è mai piaciuto ed è in realtà di una noia mortale. In quel caso il lavoro del disegnatore non richiede nessuna creatività o talento particolare, anzi, spesso non è nemmeno richiesto che il prodotto venga disegnato bene. Il disegnatore viene sfruttato solo per pre-visualizzare alcune scene per fini di budget, in modo che il regista abbia un’idea più o meno chiara di quanto spenderà e di cosa andrà a girare, qualcosa da mettere in bella mostra per la produzione e la troupe nelle riunioni. È un lavoro tecnico e noioso, dove bisogna fare quello che ti viene detto. Non mi è mai piaciuto. Per questo mi sono sempre occupato di concept design o di visual concept: disegnare e inventare cose, costumi, oggetti, scenografie o personaggi (nel caso dell’animazione) che non erano stati visualizzati prima, specialmente, e non solo, nell’ambito del fantastico o del fantascientifico. Senza dilungarmi troppo, posso dire che porto nel cuore solo l’esperienza con i cinesi e con Tsui Hark, insieme a qualche esperienza con registi e disegnatori giapponesi negli Stati Uniti. Per il resto, l’esperienza di Hollywood non corrispondeva alle mie esigenze creative. A Hollywood, chiunque collabori a questi blockbusters creati per fare soldi diventa un piccolo ingranaggio in una macchina che porta avanti solo il nome del regista; il lavoro dei disegnatori viene usato e buttato, letteralmente, nella spazzatura. Non fa per me.
Ritieni che questa esperienza abbia in qualche modo arricchito il tuo bagaglio professionale di disegnatore?
Certamente, quando si lavora con grandi artisti o con persone dalla creatività esplosiva come Tsui Hark non si può evitare di arricchire il proprio bagaglio. Purtroppo persone e registi come lui sono rarissimi. La maggior parte delle persone che lavorano nel cinema a Hollywood e negli Stati Uniti sono soltanto persone che inseguono e poi esibiscono uno status sociale. Non hanno nessun interesse per la creatività e l’arte.
Tornando a fare fumetti dopo quasi un decennio quale realtà si è parata davanti ai tuoi occhi nel mercato italiano? Quali differenze hai riscontrato rispetto agli anni del tuo (non) esordio e che cosa ti ha spinto a rivolgerti altrove, più precisamente alla Francia?
Dal 2001, tornato dalla Thailandia, ho deciso di abbandonare e rifiutare tutte le richieste dal cinema per tornare al mondo intimo e creativo del fumetto, e soprattutto del disegno, la mia prima passione. SpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="456" width="280" alt="Lerotismo è ovunque: intervista ad Adriano De Vincentiis >> LoSpazioBianco" class="alignright size-full wp-image-49742" />Certi meccanismi adulti, basati sul successo e sul denaro, sono atti a farti dimenticare da dove vieni e cosa stavi cercando fin dall’inizio. A un certo punto riescono quasi a convincerti che devi lavorare tantissimo per fare tanti soldi e avere successo, quando in realtà tu hai iniziato perché quello che volevi era tutt’altro: divertimento ed ebbrezza creativa. Nel cinema, per realizzare una scena si mettono in mezzo tante di quelle complicazioni, tutte legate al denaro, che il tuo obiettivo diventa sempre più lontano e raggiungibile solo se i produttori ne hanno la voglia e le possibilità. È un processo che inevitabilmente, da subito, ha il sapore amaro dell’elemosina. Non c’è un passaggio diretto dall’idea alla realizzazione creativa di questa idea. Nel fumetto sì: se voglio disegnare una scena in cui dei pirati spaziali viaggiano alla velocità della luce su dei cavalli di acciaio che solcano galassie e mondi, e poi gigantesche astronavi, se ne ho le capacità, posso farlo con un foglio e una matita. Uno sceneggiatore di fumetti (guarda caso, si dovrebbe essere resa palese negli ultimi anni la migrazione di tanti cineasti al fumetto e viceversa) può scrivere felicemente una sceneggiatura senza alcun limite, se sa che lavorerà con un disegnatore dalle ottime capacità visive, perché le scene che descriverà saranno disegnate con la passione e il divertimento di una sola persona. Oltre a questo fatto, il bisogno intimo al quale ho sentito di dover tornare è principalmente la dimensione di sogno e di divertimento, la possibilità di disegnare quello che voglio io senza nessun art director che debba passare al mio tavolo giornalmente a farmi pesare il suo status gerarchico, mentre magari è incapace di tenere una matita in mano. Avevo bisogno soprattutto di ricordarmi cosa volevo e cosa cercavo quando i miei sensi e le mie aspirazioni erano ancora pure e non contaminate da meccanismi adulti e falsi, per tornare felicemente bambino.
Nel fare questo, quindi, nella grande volontà di tornare a fare fumetti, al mercato italiano non ho nemmeno pensato. Già dalla fine degli anni Novanta la situazione editoriale e di pubblico in Italia era precipitata in un deserto avvilente. Ho pensato subito alla Francia perché il mondo del fumetto francese ha sempre illuminato i miei occhi e i miei sogni. Non è stato facilissimo, ricordavo benissimo e sono stato felice di riscoprire che per lavorare nel mondo del fumetto non basta un curriculum a Hollywood. A loro non frega nulla, devi dimostrare di saper fare i fumetti. Dopo un po’ di giri e contatti ed esperimenti, ho trovato una strada e ho lavorato sodo. Ancora una volta il mercato francese non mi ha deluso. > LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="462" width="259" alt="Lerotismo è ovunque: intervista ad Adriano De Vincentiis >> LoSpazioBianco" class="alignleft size-full wp-image-49743" />Per chi ha voglia e passione il ritorno è sempre di altissimo livello e sono ancora felice di aver fatto questa scelta.
Da Manara a Liberatore, sfogliando le tue produzioni appaiono evidenti i riferimenti a questi autori nel tuo gusto grafico. Paradossale (e tragico) che proprio in Italia non ci sia spazio per un autore che s’inserisce nel solco di questi due mostri sacri di casa nostra, non trovi? Quali sono secondo te i mali del nostro mercato fumettistico (ed editoriale in generale)?
Milo e Tanino sono due giganti. A loro va un grande tributo, e non solo da parte mia, come artista che deve loro tantissimo, ma da parte della storia dell’arte e dell’immaginario visivo, erotico e non, di tutti. I due grandi Maestri che hai citato hanno iniziato ad apparire sulle pagine di riviste e albi a fumetti in un periodo molto diverso da quello in cui mi sono trovato io, in tutti i sensi. Quelli erano anni in cui potevi sfogliare una rivista e vedere prima Frank Miller e subito dopo Andrea Pazienza. Una cosa che solo a pensarci mette i brividi oggi. Purtroppo nulla di tutto questo è rimasto. Io ho avuto la fortuna di poter guardare e divorare il loro lavoro e contemporaneamente la sfortuna (per gli italiani, non per me) di trovarmi in un periodo in cui c’è pochissimo spazio per chi ha voglia di disegnare fumetti o altro.
Sui mali del marcato del fumetto italiano mi sono fatto tante idee, ma la cosa che prevale sempre è un grande stupore per l’assenza di considerazione per autori e disegnatori che mettono tutto in quello che fanno a discapito di prodotti di consumo senza nessuna velleità artistica. Mi viene solo da pensare che gli occhi e l’immaginazione vanno nutriti e il pubblico, sfortunatamente, preferisce nutrirli di show televisivi raccapriccianti senza l’ombra di uno spessore intellettuale o artistico. Purtroppo dal nutrimento viene il frutto, e oggi sembra davvero che non ci sia nulla da fare. Constatato questo, non ne ho mai fatto un dramma, mi sono mosso in modo da trovare un terreno che mi permettesse di esprimermi e divertirmi al meglio, e non era e non è quello italiano.
E arriviamo a Sophia, il punto di svolta decisivo per la tua carriera. Com’è avvenuto l’incontro con lo sceneggiatore Massimo Visavi e com’è nato il progetto di questa serie?
Massimo Visavi mi fu presentato da Pierre Paquet, editore svizzero che distribuisce i suoi libri in tutta la Francia e che oggi sta crescendo sempre di più. Per fortuna, sia con Pierre che con Massimo, trovammo subito un feeling di divertimento e gioco, e anche di passione.
Avventura ed erotismo in salsa thriller sono gli ingredienti principali di questa saga giunta al terzo volume. Vuoi presentarla al pubblico italiano che non ha ancora avuto l’opportunità di leggerla?
Sophia è una serie, come dicevo, difficile da racchiudere in un genere, perché è il risultato, ancora una volta, della voglia di divertirci e di inventare. Sul web e nelle recensioni viene definito erotico, esoterico, d’avventura, poliziesco, addirittura satanico. In poche parole Sophia è la storia di una donna che si trova davanti al grande mistero dell’invisibile e del magico che governa la vita. È la storia di una donna che si ritrova ad aver perso il controllo della sua vita e solo tramite la perdita del controllo inizia a ritrovare le tracce della sua origine e della sua essenza. Il fattore erotico è presente, ma l’erotico non è altro che espressione di vita e mistero insieme. Non vi può essere erotismo senza mistero e non può essere assente il mistero dalla vita. Io amo tremendamente Sophia per questo, perché per me rimane misteriosa ogni volta che la disegno, spero di non smettere mai di visitarla. Devo però dire che il terzo volume della serie è stato disegnato e sceneggiato da altre persone che non avevano nessun contatto con me e con lo sceneggiatore originale, in seguito ad una serie di disguidi che eviterò di raccontare, cosa che ha dato origine a un finale della trilogia che ha deluso tutti, senza esclusione. Stiamo pensando a qualcosa di nuovo e di degno su Sophia. La realizzeremo di sicuro presto.
Da un volume all’altro, fino ai tuoi lavori più recenti, alle illustrazioni e agli sketches che pubblichi sul tuo blog appare evidente la maturazione del tuo segno, che si fa via via più ricco e complesso, con anatomie estremamente realistiche e una grande attenzione alle geometrie e agli equilibri nella costruzione delle tavole. Vuoi raccontarci il tuo metodo di lavoro? Utilizzi anche il computer?
Uso il computer, ma non per disegnare. Mai. Tutto quello che faccio è tradizionale e artigianale al 100%: carta, matite, inchiostri, gomme, bianchetto. L’uso del computer si limita al lavoro compositivo. Faccio tantissimi disegni e bozze e poi scansiono tutto, senza pensare a quanto sarà grande una vignetta o a quanto spazio ho. Poi compongo i miei disegni scansionati con il computer. Il computer mi aiuta a organizzare i miei disegni e a comporli nella tavola, non ha nessun accesso al disegno e alla realizzazione, nemmeno per i balloons, che faccio ancora a mano, con grande delizia.
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Di Sophia hai realizzato anche un prezioso artbook, nel quale dai sfogo alla tua passione nel rendere graficamente la bellezza e la sensualità del corpo femminile. Quali stimoli o necessità espressive hanno portato ad avvicinarti al fumetto erotico?
Direi puro istinto. Inoltre credo di non essere capace di fare altro. Però ci tengo a sottolineare una cosa: io non vedo e non ho mai visto nessuna delimitazione tra ciò che è erotico e ciò che non lo è. Tutto è erotico, l’erotismo è ovunque, senza erotismo non ci sarebbe la vita, è così semplice. La forma della natura è sinuosa, le forme dure e spigolose sono rare in natura, tutto si svolge e si ordina in base a una fuga verso l’entropia e l’equilibrio e ogni manifestazione nell’universo si esprime tramite curve e spirali, cerchi e forme sinuose. La natura è erotica, io vedo erotismo ovunque.
La recente mostra che ti è stata dedicata alla Galerie Daniel Maghen di Parigi rappresenta un po’ la tua consacrazione professionale, e uno schiaffo ideale al mondo del fumetto italiano che non ha saputo tenersi in casa e crescere un talento come il tuo. Raccontaci com’è andata.
La mostra che si è da poco conclusa è stata il frutto di un lungo progetto. In realtà ho conosciuto Daniel molti anni fa e abbiamo parlato di fare una mostra per molto tempo. In base agli impegni e ai casi della vita i tempi sono maturati in questo ultimo anno e siamo riusciti a farla. È stato un successo del tutto inaspettato. La sera del vernissage, Parigi, come gran parte dell’Europa, viveva una delle serate più fredde degli ultimi trent’anni, eppure la galleria era stracolma, non si passava e i vetri erano appannati dalla condensa. Nessuno se lo aspettava, anzi, eravamo pronti a berci un po’ di champagne tra di noi, dato il freddo.
Una mostra, come l’ha definita Daniel Maghen, molto intima, dove ho messo a nudo le mie passioni più profonde. Avrei voluto davvero avere più tempo, perché ogni giorno facevo il disegno di un nuovo personaggio e avrei potuto continuare all’infinito. Durante la serata è stato girato un documento audio-video che sarà incluso in un documentario su di me di prossima pubblicazione.
Dopo questa esperienza, che ha avuto una qualche eco anche qui da noi almeno sul web, hai avuto qualche contatto o richiesta da editori italiani?
Nulla, ed è stato anche difficile far girare sul web il comunicato. Anzi, ho trovato anche una certa resistenza immotivata e arrogante da parte di certe testate web che dichiarano di occuparsi di fumetti, per di più, d’autore…
Nel frattempo per Soleil hai disegnato il secondo volume di Succubes. In quale altro progetto sei impegnato attualmente o per il prossimo futuro?
In questo momento sono al lavoro sul tomo 4 di Succubes, con una nuova eroina e una nuova epoca che mi sono scelto io e che mi causa moltissima eccitazione. Sono all’alba di una collaborazione con la rivista Playboy e ho molti progetti oltre a questo. Alcuni di questi forse in Italia, ma non posso anticipare nulla, tranne che sono coinvolte persone di altissimo livello ma che non fanno parte del mondo del fumetto.
Sito: www.sophiabd.com
Blog: sophiabd.livejournal.com
Facebook: www.facebook.com/adrianodevincentiis
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