Magazine Psicologia

L’esperimento che Jung fece su di sé

Da Renzo Zambello

L’esperimento che Jung fece su di sé

, così come lo era stata l’anno scorso, a livello internazionale, l’edizione inglese – anticipata su queste pagine il 18 ottobre 2009 – divenuta un best-seller a dispetto della mole e del prezzo. Non è solo un libro splendido, strano, commovente, unico – è scritto in caratteri miniati e corredato di illustrazioni immaginifiche alla William Blake – ma è anche un documento cruciale per la storia delle idee. Non è solo un dialogo serrato con la propria anima, i cui modelli sono il Faust di Goethe e lo Zarathustra di Nietzsche, un’autoanalisi svolta sull’orlo di un autentico naufragio esistenziale, ma è soprattutto il lavoro che segna il distacco da Freud.

Jung era entrato in contatto col padre della psicoanalisi nel 1906 per poi diventare presidente della Società psicoanalitica. Il rapporto tra i due è ampiamente mitologizzato e il Libro rosso chiarisce che la fonte primaria dell’opera junghiana non può essere rintracciata in Freud e nella psicoanalisi. Concetti come quello dei tipi psicologici (introverso e estroverso per esempio), il processo di individuazione e l’inconscio collettivo vengono elaborati qui per la prima volta e sono distanti dall’impronta freudiana.

L’interesse del Libro rosso va anche al di là del mito e dell’aura di mistero alimentati dal divieto di pubblicazione imposto a lungo dagli eredi, superato grazie al paziente lavoro di persuasione dell’infaticabile e acutissimo curatore, lo storico della psicologia indiano Sonu Shamdasani. Perché in realtà questo testo, tenuto “segreto” dallo stesso Jung, non contiene nulla di pruriginoso o di scandaloso. Il suo carattere messianico e allucinatorio non ha a che fare con l’uso di droghe. Le immersioni nel sogno, nel mito e nello spirito religioso non sono i sintomi di una conversione, o concessioni a un’idea di superiorità dell’irrazionale o a pensieri in stile New Age, benché tutto ciò sia la testimonianza di un processo di rinnovamento e di rinascita di sé, elaborato nel contesto di una personale riflessione cosmologica. Qui si gettano piuttosto le basi per lo studio dei meccanismi universali dell’animo umano, andando alla ricerca di quei modelli di comportamento di carattere istintuale e culturale che Jung definirà come «archetipi» e che oggi si suggerisce di approfondire e verificare a partire dalle neuroscienze e in particolare dagli studi sulle emozioni di Antonio Damasio e di Vilayanur S. Ramachandran. 

.. Nel 1957 Jung scrive: «Gli anni più importanti della mia vita furono quelli in cui inseguivo le mie immagini interiori. A essi va fatto risalire tutto il resto. Tutto cominciò allora, e poco hanno aggiunto i dettagli posteriori. La mia vita intera è consistita nell’elaborazione di quanto era scaturito dall’inconscio, sommergendomi come una corrente enigmatica e minacciando di travolgermi. Una sola esistenza non sarebbe bastata per dare forma a quella materia prima. Tutta la mia opera successiva non è stata altro che classificazione estrinseca, formulazione scientifica e integrazione nella vita. Ma l’inizio numinoso che conteneva ogni altra cosa si diede allora».

Il Libro rosso è anche una sorta di modello per un lavoro che ognuno dovrebbe fare su di sé, un “esercizio spirituale” – l’uso e la riflessione sulle immagini rimandano anche alle tecniche di Sant’Ignazio – volto a scandagliare le parti più nascoste e più irrazionali dell’io e dal quale non si può che uscire rafforzati. Un esercizio che ci riguarda tutti, perché, – scrive Shamdasani – «al pari di molti altri psichiatri e psicologi, Jung non considerava la malattia mentale un fenomeno antitetico allo stato di salute, ma riteneva andasse collocata all’estremo limite di uno spettro continuo».

Tutto era cominciato nel 1913. In un viaggio in treno verso Schaffhausen, Jung ebbe la visione di una terribile alluvione che inondava l’Europa – macerie, galleggianti e migliaia di morti – che, come avrebbe detto più tardi, preconizzavano i disastri delle Prima guerra mondiale. Jung, quarantenne e professionalmente affermato, sfida a viso aperto visioni e sogni di questo tipo, non sapendogli dare una interpretazione immediata. Inizia così, nel pieno di una crisi personale, l’esperimento su se stesso (che poi avrebbe chiamato il suo «confronto con l’inconscio») che proseguirà fino al 1930. Sviluppa uno specifico metodo di esplorazione psicologica – detto «immaginazione attiva» – finalizzato a consentirgli di «andare alla base dei processi interiori», «tradurre le emozioni in immagini» e «cogliere le fantasie che sollecitavano dal sottosuolo».

In un primo tempo Jung annota le sue fantasie nei Libri neri, quindi le rielabora aggiungendovi una serie di riflessioni e le trascrive in scrittura calligrafica, corredandole di illustrazioni, nel Liber novus, rilegato in pelle rossa, da cui il nome Libro rosso. L’originale è stato esposto, nell’ultimo anno, insieme ad altri materiali a New York e in California. La mostra inaugurata ieri a Zurigo espone anche le sculture che appartennero a Jung e, per la prima volta, gli originali dei Libri neri e le pergamene su cui egli scriveva in caratteri miniati. Sapeva che il suo non era il lavoro di un “artista”, né voleva abbandonare la propria mentalità “scientifica”, benché fosse dalla consapevolezza dei limiti di quella che era scaturito il proprio disagio di fronte al fluire dinamico dell’irrazionale e dell’inconscio. «Il lavoro sull’inconscio va fatto in primo luogo per noi stessi – scriveva Jung –, anche se indirettamente andrà a beneficio dei nostri pazienti.

Il pericolo è quello della follia profetica, spesso in agguato quando si ha a che fare con l’inconscio. È il Diavolo che dice: disprezza la ragione e la scienza, eccelsi poteri dell’uomo. Questo fatto non va mai dimenticato, anche se siamo costretti a riconoscere l’esistenza dell’irrazionale».

Carl Gustav Jung (1875–1961) è stato il fondatore della psicologia analitica, dopo essersi separato da Freud, insistendo sulle nozioni di archetipo, tipi psicologici e inconscio collettivo. Nel 1913, quarantenne e realizzato, è colto da incubi e visioni che annoterà nel «Libro Rosso», testo rimasto segreto fino a oggi

 di Armando Massarenti

da: http://www.ilsole24ore.com

Commento del Dott. Zambello  

Non aggiungo nulla alle  osservazioni filosofiche dell’autore,  nutro però  dei dubbi che il “libro Rosso” come lui dice,  sia ” una sorta di modello per un lavoro che ognuno dovrebbe fare su di sé, un “esercizio spirituale”.

Forse di dimentica che mentre  Jung scriveva il suo diario e lavorava con  tanta fatica  su se stesso, pubblicava  tra i tanti lavori: “Psicologia e Alchimia”(1944),  dove descrive, nella metafora dell’alchemico come avviene la trasformazione, la rinascita, cioè,  l’avvio all’individuazione nella psicoterapia 

Io credo che la “segretezza” del Libro Rosso, almeno nella volontà di Jung, sia proprio da ricercarsi in queste due diverse strade che lui percorreva.  Quella personale, appunto, una illuminazione sofferta che gli  permetterà però   di capire, svelare, suggerire agli altri la via da seguire: la psicoterapia analitica.  Era così convinto della possibilità liberante della psicoterapia analitica che fu lui, non Freud  ad  istituire per   i futuri terapeuti l’obbligatorietà non solo di una analisi personale ma di una successiva seconda analisi o analisi didattica, proprio per limitare il più possibile i percoli,  come dice Massarenti ” della follia profetica, spesso in agguato quando si ha a che fare con l’inconscio”.

Ho  l’impressione che ci  fermiamo spesso ad ammirare il lavoro junghaino  con un atteggiamento  staticizzante e non cogliamo  il significato concreto, pratico della sua ricerca. Dimentichiamo che lui, come in un mantra in “Sogni Ricordi e Riflessioni”   si definiva un Pragmatico non un Filosofo né un Teologo. Sono certo che   non lo diceva per modestia ma perché il   significato della sua ricerca,  dopo il bisogno personale,  era  la Psicoterapia Analitica.

 

 


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