Non è un segreto infatti rilevare che mentre la generalità dei nuovi bacini di sfruttamento è concentrata nelle Grandi Pianure – nel centro della nazione – le raffinerie sono invece concentrate sulla costa ed in particolare a Sud. Il viaggio è dunque lungo e contorto. Tra una discussione e l’altra sull’impatto ambientale e di costo di nuovi oleodotti, ciò che per il momento ha messo una pezza al problema è stato l’intensificarsi del traffico via terra, via fiume e soprattutto via treno, ma a costi superiori delle pipeline. Mentre la produzione aumentava ad un tasso di 700-800.000 barili/giorni in un anno, la capacità di trasporto via pipeline aumentava, nello stesso periodo, ad una tasso di 500.000 barili/giorno. Colli di bottiglia logistici esistono eccome, ed è anche questa la ragione per cui il prezzo di riferimento americano WTI – relativo al petrolio fisicamente “intrappolato” nel mercato nazionale – è sempre stato più basso di altri prezzi di riferimento internazionali, come ad esempio il Brent.
Il miglioramento della logistica interna – ottenuto con ingenti investimenti realizzati a tempo di record negli ultimi 3-4 anni – non ha però risolto completamente i problemi di marketing dello shale oil. Per due diverse ragioni: le limitazioni legislative all’esportazione di petrolio e la limitata capacità di assorbimento dello shale oil da parte delle raffinerie statunitensi.
L’esportazione di materie prime considerate scarse – ed in particolare il petrolio – è regolata da una legge del 1979 che rende difficile ai rivenditori ottenere le necessarie licenze. I produttori americani si sono però adattati, esportando semi-lavorati come benzine e diesel: negli ultimi anni le raffinerie americane hanno assorbito tutto lo shale oil che potevano, annullando in pochi anni le importazioni di greggio leggero da Nigeria ed Arabia Saudita e limitando fortemente quelle dal Venezuela e Messico. Hanno esportato prodotti in tutto il mondo – risultando seconde sole alle raffinerie russe – mentre in Europa le raffinerie erano – e sono – costrette a chiudere (anche i sauditi hanno aumentato enormemente la loro capacità di raffinazione negli ultimi tre anni, spostando quindi le loro entrate verso prodotti a maggiore valore aggiunto).
Ma la capacità di assorbimento da parte delle raffinerie americane è limitata: esse sono infatti state costruite per trattare greggi pesanti e ad alto tenore di zolfo, mentre le qualità provenienti dai giacimenti di Eagle Ford e Bakken sono molto leggere. Nonostante gli investimenti eseguiti e programmati la capacità di raffinazione americana è aumentata di soli 300.000 barili/giorno.
L’esportazione dello shale oil è quindi una necessità per i produttori americani e lo scontro si è presto spostato a livello politico dove però si è anche impantanato dividendo i due partiti mainstream. In questo contesto si è inserito il crollo del prezzo internazionale del petrolio complicando enormemente la faccenda: questo vale sia se si crede che esso sia la conseguenza di una decisione politica USA (e/o saudita), sia se si crede all’effetto dell’eccesso di produzione rispetto ad una domanda internazionale calante. Per ora il fallimento ha riguardato solo piccoli produttori americani molto esposti finanziariamente e non ci sono segnali drastici di diminuzione degli investimenti in nuovi pozzi di fracking. Ma non si potrà andare avanti a lungo in queste condizioni, a meno di non rischiare di trasformare il boom dello shale oil in un totale fallimento.