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L’Est europeo: polveriera di un mondo risorto dalle ceneri dell’Unione Sovietica

Creato il 01 maggio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Reportage: “Tra le fauci dell’orso. Geopolitica e società di un’Ucraina divisa”

L’epopea post-’91. Gli effetti politici della dissoluzione

Il crollo dell’Unione Sovietica fu un gigantesco processo di disintegrazione di un intero orizzonte socio-politico, economico e culturale. La caduta di un sistema che era resistito a una guerra mondiale e alle tensioni profonde della Guerra Fredda, e si presentava al mondo come la fine di un’era dove «un regime scriveva dio con la minuscola e Kgb in maiuscolo», secondo le parole di Aleksandr Isaevic Solzenicyn. Le conseguenze della dissoluzione, dunque, non potevano che essere geopolitiche nei termini di un nuovo equilibrio generale nei rapporti internazionali.

Si è incominciato a parlare di Stati post-sovietici non tanto per decretarne una rinascita all’indomani del crollo di quel vecchio sistema, quanto – invece – per segnalarne l’inevitabile retaggio culturale che in essi avremmo ancora scorto. È l’immagine che, in fondo, scoprimmo nell’incontro delle due Germanie, quando cadde il muro: la morale socialista dell’Est contro la dottrina capitalista dell’Ovest. Quelle due Berlino che erano rimaste isolate per quasi 30 anni, fondandosi intorno a due economie relativamente opposte.
Fu questo il processo che condusse i vecchi Paesi sovietici all’indipendenza o alla restaurazione di un’autonomia politica come per gli Stati baltici. È pur vero che il crollo dell’Urss procurò un’instabilità profonda in questi nuovi Stati. Buona parte delle ex repubbliche sovietiche adottò il capitalismo come modello economico, anche se parecchie riscontrarono poi un crollo del 40% nel prodotto interno lordo (Pil) con un incremento considerevole dell’inflazione. La stessa Russia post-sovietica – di matrice capitalista – non poté che riscontrare il fallimento della nuova stagione economica. Col 1998 la Russia di Boris Eltsin registrò il culmine della crisi.
Sono questi gli anni embrionali dei successivi conflitti separatisti: dalla Cecenia alla Transnistria, dall’Abcasia all’Ossezia del Sud al Nagorno-Karabakh in Azerbaigian, nel Caucaso meridionale. Il rimescolamento etnico-religioso, scaturito dal crollo del vecchio sistema (Urss), aveva generato l’insorgere di nuove tensioni sommerse. La Transnistria, l’Abcasia e l’Ossezia del Sud hanno raggiunto un’indipendenza mai riconosciuta dalla comunità internazionale. In Daghestan è sorto un movimento separatista, mentre l’Agiara è stata pacificamente riannessa alla Georgia.

La Cecenia di Dudaev e Maskhadov. La polveriera del Caucaso

La fine della stagione sovietica inaugurò in Cecenia la nascita di un movimento indipendentista, propugnatore di una secessione alla quale il Cremlino si oppose da subito. In Cecenia transitavano oleodotti e gasdotti russi, ed era dunque una terra strategica per Mosca.

Dzokhar Dudaev, presidente nazionalista ceceno, dichiarò l’indipendenza del Paese nel 1991. Le trattative, sorte con l’obiettivo di giungere a un compromesso politico, finirono alla deriva e l’11 dicembre 1994 un attacco missilistico russo colpì la città di Grozny. Aveva così inizio la Prima guerra cecena (1994-1996). La seconda avrebbe visto la luce cinque anni più tardi, nel 1999.

Il palazzo presidenziale ceceno durante la battaglia di Grozny. Photocredits: CC BY-SA 3.0/Wiki/Rama

Il palazzo presidenziale ceceno durante la battaglia di Grozny. Photocredits: CC BY-SA 3.0/Wiki/Rama

Il comparto dei ribelli ceceni assestò duri colpi all’esercito russo, ostacolandone l’offensiva. E Mosca riuscì a conquistare la capitale cecena soltanto nel febbraio del 1995, e un anno più tardi ad uccidere Dudaev, individuato da un aereo di ricognizione russo. La morte di Dzokhar Dudaev fu il risultato di un’operazione congiunta fra l’esercito ex sovietico e l’intelligence del Cremlino.

Nell’estate del 1996 il presidente russo, Boris Eltsin, grazie alla cooperazione con l’Osce e al contributo del diplomatico svizzero Tim Guldimann, riuscì a formalizzare un’intesa con i vertici ceceni per un cessate il fuoco. Le trattative preliminari dell’estate a Khasav-Yurt, in Daghestan, portarono l’anno successivo (1997) a un vero e proprio trattato di pace a Mosca sui “principi delle relazioni russo-cecene”. Agli occhi di Aslan Maskhadov quell’atto diplomatico rappresentò un incentivo concreto a una riappacificazione con il Cremlino. Un ottimismo che fu – due anni più tardi – smentito dall’invasione del Daghestan da parte di ex comandanti ceceni. L’atto di forza di Shamil Basayev e Ibn Al-Khattab fu l’esordio della Seconda guerra cecena.

La guerra etnica nel Nagorno Karabakh. Il ’92 dei massacri

Sebbene si attesti al gennaio del 1992 l’inizio della guerra fra il Nagorno Karabakh di etnia armena e l’Azerbaigian, i primi scontri e i primi atti di pulizia etnica furono già registrati nel febbraio di quattro anni prima (1988). In quell’occasione, infatti, il parlamento armeno aveva decretato la nascita della Repubblica del Nagorno Karabakh, determinando l’insorgere di moti indipendentisti e di violenze volte a fermarne gli sviluppi politici.

Ma è col 31 gennaio 1992 che il mondo conosce l’inizio effettivo della guerra nel Nagorno Karabakh. Le montagne di questa regione armena verranno letteralmente prese d’assalto dall’esercito azero, che dispiegherà – per l’intero conflitto – oltre 40mila uomini. Gli Azeri conquisteranno villaggi e posizioni strategiche: da Farruk a Khramort a Nakhicivanik, mentre la capitale della Repubblica del Nagorno Karabakh, Step’anakert, verrà assediata procurando la morte di oltre 20mila civili. L’esercito azero colpirà senza remore la città di Step’anakert, posizionando l’artiglierà nella vicina città di Shusha. Gli Armeni, nella controffensiva armata, conquisteranno Aghdaban, Karadagly e Malibayli.
È col massacro di Khojaly del 25 febbraio 1992 che si tocca con mano la crudeltà del conflitto fra Azerbaigian ed Armenia. A Khojaly è presente l’unico aeroporto della zona, nonché una posizione strategica per l’artiglieria azera puntata su Step’anakert. Le testimonianze degli Azeri riportano di un massacro di un centinaio di civili perpetrato dalle truppe armene. Queste ultime avrebbero giustiziato una parte di popolazione azera, che stava transitando lungo un corridoio umanitario. L’operazione militare ebbe inizio poco prima della mezzanotte del 25 febbraio, per concludersi il giorno successivo alle 3 della notte. L’Human Rights Watch ha ritenuto che il massacro fosse stato attuato in concerto fra l’esercito armeno e il 366° reggimento russo dei fucilieri. Secondo le stime tracciate dalla Croce Rossa Internazionale, l’operazione militare causò 4.500 dispersi: 1.500 Armeni e 3mila Azeri.
Il 10 aprile 1992 è la volta del massacro di Maragha, nella regione nord-orientale del Nagorno Karabakh. Le unità speciali antiterrorismo entrarono nel villaggio di Maragha e commisero crimini violenti contro i civili armeni. L’operazione militare vide la luce all’alba del 10 aprile, e le truppe azere penetrarono nel villaggio in collaborazione con alcune unità armate russe. Con l’appoggio dei soccorsi la resistenza armena riuscì – dopo alcune ore – a riconquistare Maragha. Fu allora che si rese evidente l’eccidio commesso dagli Azeri. La logica degli eventi vuole che il massacro di Maragha sia da leggersi nei termini di una contro-risposta violenta alla carneficina di Khojaly.

Sarajevo e l’assedio infinito. L’addio alla Jugoslavia

È l’economia socialista il fil rouge che lega – in questo nostro articolo – l’ex Unione Sovietica del colosso di Mosca e l’ex Jugoslavia di Tito. Conclusa la Seconda guerra mondiale e ultimata la liberazione dei territori dall’occupazione nazifascista, il 29 novembre 1945 venne decretato l’addio alla monarchia di Pietro II. È l’avvento della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, che verrà successivamente ribattezzata – nel 1963 – da Tito col nome di Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Il 1963 fu l’anno in cui la Jugoslavia riscrisse la costituzione secondo una matrice deliberatamente socialista, aprendo così una nuova stagione politica ed economica per quei territori dell’Est europeo. Con Tito a capo del governo, fu evidente il concretizzarsi di un’alleanza con l’Unione Sovietica fondata sulla dottrina del socialismo, in aggiunta a una politica interna sorretta dalle direttive della Lega dei Comunisti di Jugoslavia.

Il Parlamento della Bosnia Erzegovina brucia dopo i colpi dell'esercito serbo-bosniaco. Photocredits: CC BY-SA 2.5/Wiki/Direktor

Il Parlamento della Bosnia Erzegovina brucia dopo i colpi dell’esercito serbo-bosniaco. Photocredits: CC BY-SA 2.5/Wiki/Direktor

A tre anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, il regime jugoslavo si allontanò progressivamente dalle attenzioni dell’Unione Sovietica di Stalin, quel tanto che – nello stesso 1948 – la Jugoslavia fu espulsa dal Cominform. La politica interna dello Stato federale allungato sulla penisola balcanica, manifestò sempre più i tratti di un regime accentratore del potere, interessato a sedare sul nascere ogni moto nazionalista.
La Bosnia Erzegovina dell’assedio di Sarajevo è dunque una creatura derivata dall’indipendenza scaturita dal disfacimento della gigantesca Jugoslavia di Tito. L’aprile del 1992 è l’emblema di questa forza centrifuga che conduce il Paese verso una nuova storia. Un contingente dell’Armata Popolare Jugoslava (JNA) aveva accerchiato la capitale, e il governo bosniaco temeva la medesima sorte della città croata di Vukovar.
Il 2 maggio 1992 Sarajevo fu assediata e isolata dall’esercito serbo-bosniaco con il sostegno di Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic. Furono interrotte le principali arterie di comunicazione, mentre il transito dei beni primari e l’erogazione dei servizi vennero bloccati. L’inizio dell’assedio di Sarajevo vide i ripetuti tentativi dell’esercito serbo-bosniaco di far breccia all’interno della città. Soltanto in un secondo momento la città venne presa a bersaglio dall’artiglieria pesante dispiegata ad anello sulle montagne. Il culmine delle violenze fu registrato a cavallo fra il 1992 e 1993, quando ormai la popolazione civile era allo stremo e le truppe serbe padroneggiavano nella capitale. La presenza delle Nazioni Unite presso l’aeroporto di Sarajevo si dimostrò – per un certo periodo – il solo barlume di speranza per gli assediati. Gli approvvigionamenti per i civili giungevano soltanto da lì.
Stando ai rapporti formulati nel corso dell’assedio, è stata indicata una media di 329 bombardamenti al giorno sulla città di Sarajevo. L’apice degli scontri armati sembra sia stato raggiunto il 22 luglio 1993 con una gragnola di quasi 3.800 bombe sganciate sulla capitale. All’inizio dell’autunno di quello stesso anno, un nuovo rapporto segnalò il danneggiamento di quasi tutte le strutture abitative e amministrative di Sarajevo, con 35mila edifici del tutto distrutti.
Nell’epilogo di questo crescendo di violenze nella guerra di Bosnia, il massacro del mercato di Markale – nel centro storico della capitale assediata – è un netto rimando alla strage del mercato di Mariupol in Ucraina dell’Est, nella guerra che ancora oggi si combatte. Era il 5 febbraio 1994, quando una serie di granate serbe si abbatté nel cuore di Sarajevo: 68 morti e 200 feriti. Fu la prima strage a Markale, in attesa della seconda il 28 agosto dell’anno successivo. E ora Mariupol, con il suo mercato colpito da raffiche di missili Grad. La strage dei civili tra le fauci dei ribelli: decine di morti e feriti, mentre il mondo si interroga sul domani di queste terre segnate dal sangue.

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