Luigi Garlando ha scelto di dedicare il suo ultimo romanzo ad un personaggio che per molti della mia generazione sarà più che noto, le cui imprese ben conosciute e familiari.
Quando ero al liceo era raro che il programma di storia arrivasse molto oltre la seconda guerra mondiale e quindi era improbabile che i fatti della rivoluzione cubana e la figura di Ernesto Che Guevara venissero studiati sui libri. Ma molti di noi, come me, a quell’età, sono corsi, fuori dalle aule, a leggere gli scritti che riguardavano l’eroe rivoluzionario: i volumi che riunivano le lettere e i diari del comandante, o ancora i testi, tanti, che altri hanno scritto su di lui.
Una figura a metà tra la storia e il mito per noi che siano nati dopo la fine degli anni sessanta. Conosciuta quando già era diventata icona, quando già sventolava sulle bandiere rosse, sulle magliette di chi si sentiva rivoluzionario e voleva gridarlo al mondo o nelle pagine delle agende scolastiche di chi era più timido e la leggenda del Che voleva tenersela per sé e magari sognare di essere nato un po’ prima per vivere in diretta quegli anni in cui, da un capo all’altro del pianeta, tutto pareva possibile, perfino la libertà degli ultimi.
Chissà se gli adolescenti di oggi conoscono nulla di Ernesto Guevara. Mi pare quasi strano che ad ascoltarne il nome non si accenda nei loro occhi una fiammella… Forse una riflessione simile ha animato Luigi Garlando che, nel libro bello e appassionato “L’estate in cui conobbi il Che”, si pone il chiaro intento di raccontare la vita del rivoluzionario argentino con chiarezza, precisione e fedeltà ma calandola nella realtà attuale, dimostrando che alcune “storie” nella Storia hanno ancora messaggi forti e vivi da consegnare, anche quando parrebbe tutto finito e superato.
Cesare ha dodici anni ed è figlio di un ricco imprenditore dell’hinterland milanese. La madre chirurgo di fama e la sorella, nonostante sia iscritta all’università, si dedica maggiormente allo shopping e all’attività di fashion blogger.
E’ l’anno dei mondiali, quelli poco fortunati per l’Italia del 2014 e le preoccupazioni del ragazzo paiono vertere soprattutto sulle partite cui assistere, sulle nuotate nella piscina della villa dove abita, magari ammirando da lontano Blanca, sinuosa campionessa di nuoto e figlia della domestica colombiana.
Ma il giorno del suo compleanno, durante la festa in giardino, due brutti colpi aspettano Cesare. Il primo dipende dalla diserzione di molti degli invitati all’evento, pare perché dissuasi dai genitori, molti dei quali dipendenti del mobilificio del padre, dal recarsi al party del figlio del “tagliatore dei teste”.
Il secondo ben più grave: l’amato nonno ha un infarto e, salvato d’un soffio, viene portato in ospedale. Mentre lo guarda disteso sulla barella e incosciente, il ragazzo nota, sul petto del nonno, uno strano tatuaggio che mostra il volto barbuto di un uomo con un cappello a basco.
Chi sarà mai quello strano figuro che pare somigliare a Gesù Cristo? E perché in paese tanti chiamano il padre “tagliatore di teste”
Questi sono le domande che innescano, per Cesare, un processo di crescita e presa di coscienza. Mentre il nonno, durante la convalescenza, gli racconta la storia dell’uomo del tatuaggio – Ernesto Che Guevara – , il padre è impegnato nelle trattative per vendere ai cinesi l’azienda familiare.
Tra le gesta del Che a Cuba e i picchetti e le manifestazioni degli operai del mobilificio paterno, per il ragazzo sarà un’estate di fitte riflessioni e di scelte coraggiose.
Un romanzo, come nel consueto stile di Garlando, coinvolgente e scorrevole, facile da leggere d’un fiato. Animato – anche qui come negli altri lavori dello scrittore milanese – da passione civile, da valori di giustizia ed eguaglianza, da spirito d’impegno.
Mi piace che Luigi Garlando, non tradendo le sue radici di giornalista sportivo, mescoli sovente nei suoi libri lo sport, più frequentemente il calcio, con tematiche più “alte” legate alla legalità, al lavoro, alla difesa dei diritti, contro i razzismi e le discriminazioni. Questo, oltre ad attrarre sicuramente l’attenzione dei ragazzi, indirettamente, restituisce alle pratiche sportive quella “sportività” che oramai pare quasi dimenticata nelle logiche di società e tifoserie e ci ricorda che sotto soldi e violenze c’è il gioco, quello che è nato per confrontarsi nel rispetto, per migliorarsi nell’impegno e per essere non nemici ma comunità.
In queste pagine i ragazzi di oggi potranno trovare, oltre ad una storia vera, appassionante ed eroica, anche tutta l’umanità della figura di Ernesto Che Guevara. Comprenderne i principi e gli ideali che lo hanno portato a consacrare la sua vita ad una causa ed apprezzarne la profonda coerenza, che non è rigidità ma capacità di non scendere ai compromessi del “facile”, del “forte” o del “conveniente”. Di sentirsi coinvolto non soltanto dalle ingiustizie che lo riguardavano da vicino, ma da tutti “gli schiaffi dati ai deboli”, in qualunque parte della terra, fino ad arrivare a consacrare alla battaglia per un mondo più giusto la sua stessa vita.
Il tutto non in maniera fredda o distante ma integrando il racconto di un tempo che fu con vicende che, seppure inventate, risultano di scottante attualità in un momento di crisi economica, quando tante famiglie si trovano, o si sono trovate, nella condizione di perdere il lavoro.
Ecco quindi che lottare per la giustizia, essere rivoluzionari, non rappresenta più qualcosa di anacronistico ma diventa sinonimo di un impegno possibile anche nella propria vita. Significa sentirsi coinvolti dalle questioni della società, chiamati a riflettere, a prendere parte, a mettersi in gioco.
Un andare contro i disvalori di una società che incita all’individualismo, al non guardare oltre il proprio guscio, a non porsi domande, a non considerare le ingiustizie e le sofferenze subite da altri anche un proprio problema: un problema umano e quindi dell’umanità.
Cesare cresce, grazie al rapporto col nonno, grazie al racconto delle imprese di Che Guevara, grazie alle vicende degli operai che stanno per perdere il lavoro, grazie all’amore per Blanca e alle scelte che alla fine riesce a compiere. Cresce come ragazzo ma soprattutto cresce in lui la coscienza civile. Civile e politica, se questa parola non fosse troppo spesso usata in senso dispregiativo anziché secondo il significato nobile che dovrebbe avere.
(età consigliata: dai 12 anni)
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