Giacomo, ragazzo sordo, Stefania, sua amica: la loro estate al fiume.
La morsa delle attese (non per niente anagramma di “estate”), duplice perché propria del film e di riflesso anche dello spettatore, e soprattutto il coraggio di un friulano classe ’82 di spolpare il racconto, di annullarlo in favore dell’immediatezza ad un passo dall’improvvisazione. Coraggio perché eliminando la scrittura si avvicinano i ganci del freddo documentario, tuttavia come Dumont giustamente sostiene nel cinema è impossibile non-raccontare: una macchina da presa fa il lavoro più grosso, quello di catturare ciò che vede, due ragazzi, che di fronte ad essa diventano due attori, fanno il resto. Così nel primo lungometraggio di Alessandro Comodin l’apparenza degli eventi, futili e ordinari come qualunque altra scampagnata sulle rive di un fiume (è il Tagliamento), cela radici sensitive perché questo è cinema di cui si sente la profondità, un vestito semplice che copre mondi complessi come un bosco con i suoi sentieri infiniti e terreni fangosi o l’adolescenza con i suoi intercapedini altrettanto tortuosi, e ovviamente la fioritura sessuale, afflato eroticizzante mai dichiarato perché probabilmente nemmeno ricercato, ma, di nuovo, sentito grazie ad una forma di empatia naturale concentrata nella vicinanza tra Giacomo e Stefania, tra il loro giocoso scontrarsi, sfiorarsi, aprirsi: dice Stefania: “la felicità sta nelle piccole cose”, spesso anche il buon cinema.
Attese. Inconsapevoli. Inizialmente il progetto di Comodin doveva riprendere Giacomo in due periodi diversi, prima di un’operazione molto delicata alle orecchie, e dopo, in modo da rappresentare due transizioni simultanee: dal silenzio al suono, dalla pubertà all’adultità. Per vari motivi quest’idea non è stata portata avanti, ciononostante l’obiettivo viene centrato ugualmente e perfino in modo più genuino, perché l’estate che Giacomo vive sulla pelle è anche l’ultima stagione di un’età, ecco il passaggio illustrato, il rituale: dalla confidenza con il sesso opposto al congiungimento con esso, un cammino che nel finale ha un’impennata di delicatezza inaspettata, istantanea introduzione dell’amore per un cinema che finalmente non ricama sull’invalidità né elemosina compassione d’accatto ma esprime pacatamente i tumulti della giovinezza, dribblata la didascalia rimane l’evidenza, qui mimetizzata nel normale fluire di un pezzetto di vita.
L’estate di Giacomo (2011) si iscrive a pieno titolo in quella cerchia di recenti opere incategorizzabili nostrane che comprende autori come Frammartino (Il dono [2003]; Le quattro volte [2010]), Marcello (Il passaggio della linea [2007]; La bocca del lupo [2009]) e Covi e Frimmel (Non è ancora domani [2009]) dove l’ibridazione e la sovrapposizione tra realtà e finzione sembrano gli unici modi per sfuggire dalla melmosa impasse in cui versa l’agonizzante cinema italiano.