Sulla constatazione che la Biennale di Venezia sia la più ghiotta sagra dell’arte contemporanea che viene servita su territorio nostrano mi pare non ci siano dubbi.
Suppongo quindi di non essere l’unica ad essere rimasta discretamente perplessa alla scoperta che più di un artista dei quattordici elementi presenti nel padiglione italiano di quest’anno è passato a miglior vita già da quel po’.
A questo proposito, occorre prendere visione delle giustificazioni portate dai curatori, di certo pronti ad affrontare simili polemiche. Scopriamo perciò che uno dei cardini su cui si basa l’esposizione italiana di questo 2013, chiamata “Vice versa”, è il dialogo tra passato e presente. Il motivo per cui artisti letteralmente contemporanei, coloro i quali avrebbero meritato, de facto, di presenziare ad una tale contemporanea esposizione, non siano stati ritenuti sufficientemente abili a rappresentare tale dialogo resta un mistero.
Sarà forse la solita diffidenza dell’uomo moderno che ritiene a prescindere migliore ciò che è stato fatto prima di lui, come diceva qualcuno famoso, già probabilmente anch’esso defunto e quindi in assoluto più attendibile di me.
Superate le diffidenze verso questa sospetta politica, sarà curioso analizzare insieme la scelta di presentare una particolare performance e cioè quella di Fabio Mauri, lasciando parlare l’arte, che ha sempre le sue ragioni.
Mauri (1926-2009), è stato un esponente eclettico dell’arte del secondo dopoguerra, ha ruotato la sua attenzione sui più disparati campi artistici, collaborando con sublimi intellettuali italiani, quali Pier Paolo Pasolini, Edoardo Sanguineti ed Umberto Eco. Il cuore delle sue riflessioni artistiche ha fatto perno sul caro concetto di ideologia, egregiamente rappresentato in toto dalla performance scelta per questa Biennale: Ideologia e natura, datata 1973.
L’opera viene concepita a seguito del grande trauma storico che aveva coinvolto la società e l’autore stesso e cioè quello della seconda grande guerra. In essa vediamo una ragazza in divisa da Balilla che si spoglia e si riveste con un crescendo di caoticità. Ciò che Mauri intendeva rappresentare aveva più funzioni: in primis, abbiamo due annullamenti: quello della volontà dell’individuo ad opera di un potere dittatoriale e quello del valore del singolo ad opera di una divisa. Ma un’interpretazione finale svela anche la vittoria del corpo umano, in quanto prodotto della natura, sull’ideologia, in quanto prodotto della società.
Ecco che, a conti fatti, trovo significativa la scelta di riproporre adesso un tale artista.
Trovo allarmante che opere simili facciano ancora breccia, dopo quarant’anni.
Quando Ideologia e natura si è affacciata alla vita per la prima volta, il mondo era un mondo diverso. Nel 1973 difficilmente tale opera avrebbe avuto come collega, in un padiglione dirimpettaio, quello delle Maldive, il blocco di ghiaccio di Stefano Cagol, preoccupato per il riscaldamento globale.
Lasciando a ciascuno le proprie deduzioni, quello che trovo significativo è esattamente questo: nel padiglione delle Maldive, un artista (un artista un po’ italiano, consoliamocene), si preoccupa del pianeta terra. Queste simpatiche mode radical-chic da terzo millennio, così attuali, che fanno tanto arte contemporanea.
Noi invece, che alle Maldive al massimo ci andavamo in vacanza quando c’erano i soldi, siamo ancora qua, ancora a terrorizzarci con un’opera vetusta di quarant’anni, e consapevoli del fatto che purtroppo la nostra non è una moda radical-chic, ma una triste realtà.
Written by Francesca Lettieri