Secondo Aristotele il fine ultimo dell’uomo è l’esercizio eccellente della ragione
Ha esercitato un influsso enorme sull’Occidente e si è in larga parte “sposata” con quella cristiana. Il fine ultimo dell’uomo è l’esercizio eccellente della ragione. Ma anche gli affetti hanno la loro importanza.
L’influsso dell’etica di Aristotele (Stagira, 384 a.C. - Calcide, 322 a.C.) sull’Occidente è stato enorme. A partire dal XIII secolo esso è collegato in modo rilevante alla diffusione dell’etica cristiana: infatti, diversi pensatori cristiani (specialmente sant’Alberto Magno e san Tommaso d’Aquino) hanno recepito alcuni concetti etici di Aristotele, ne hanno rilevato la convergenza con il messaggio morale cristiano (ed è straordinaria la vicinanza al messaggio etico rivelato a cui è arrivato questo genio tra gli uomini con le forze della sua ragione) o hanno aggiunto questi concetti all’etica che trovavano nella Rivelazione. Quanto a Tommaso, la sua filosofia morale in molte parti è appunto una ripresa o un (talvolta lieve, talvolta cospicuo) completamento o una rivisitazione o (raramente) una critica di quella di Aristotele.
Le principali opere in cui lo Stagirita sviluppa la sua visione morale sono l’Etica Nicomachea (di seguito EN), l’Etica Eudemia ed i Magna moralia (testo di cui non è sicurissima, ma probabile, l’attribuzione a lui), ma ci sono discorsi etici anche nella Retorica. Qui di seguito riassumiamo solo alcuni (pochissimi) concetti.
Aristotele scrive che ogni azione (cioè ogni evento di cui l’uomo è soggetto consapevole) ha sempre uno scopo, mira ad un fine.
Lo rileva il principio di finalità (la seguente enunciazione è medievale, ma il concetto è di Aristotele): omne agens agit propter finem (“ogni agente agisce in vista di un fine”). Se la causa di un evento non è consapevole (pensiamo per esempio ad un animale e al suo “agire”), tende al fine mossa da un altro agente, per esempio da un uomo, oppure da Dio (Etica Eudemia, 1248a 18 e ss.).
Ma i fini a cui tendiamo con le nostre azioni sono di due tipi: o sono fini intermedi, o sono il fine ultimo.
I fini intermedi sono quelli che desideriamo come tappe-mezzi in vista di un traguardo-fine ulteriore: mi preparo per uscire di casa, esco per prendere la macchina, prendo la macchina per andare al lavoro, vado al lavoro per guadagnarmi uno stipendio, mi guadagno lo stipendio per sopravvivere, sopravvivo per… Come si vede, in questa sequenza di azioni ogni volta c’è un fine che non è definitivo, bensì intermedio. Il fine ultimo, invece, è quello in vista di cui desideriamo tutti fini intermedi.
Ora qual è il fine ultimo dell’uomo?
In astratto, noi uomini desideriamo tutti lo stesso fine ultimo, perché tutti desideriamo l’eudaimonia, cioè (è questa la giusta traduzione, altre sono fuorvianti) l’autorealizzazione (infatti, nessuno vuole fallire, anche se poi fallisce), nonché la felicità (vedremo tra poco la relazione tra l’autorealizzazione e la felicità).
In concreto, però, il fine ultimo che desideriamo e a cui dedichiamo principalmente la nostra vita non di rado diverge da uomo a uomo: alcuni tendono in ultima analisi al piacere, altri all’onore e al successo, altri alla ricchezza, ecc.
Aristotele discute questi tipi di vita.
Una vita il cui fine ultimo è il piacere ci rende come le bestie, sia perché il piacere è appunto lo scopo degli animali, sia perché una simile vita ci rende schiavi delle pulsioni, ci toglie progressivamente la libertà, rendendoci preda degli istinti quasi come lo sono gli animali.
Riporre il fine ultimo nell’onore-successo è sbagliato per vari motivi, per esempio perché ci fa dipendere dagli altri – mentre l’auto-realizzazione è, per definizione, qualcosa che deve essere in nostro potere – che ci possono revocare da un giorno all’altro le loro lodi, la loro ammirazione, invidia, ecc. Concepire poi la ricchezza come fine ultimo (come fa l’avaro) è assurdo, perché il denaro per natura è un mezzo (per acquistare cose), non un fine. Aristotele allora spiega qual è il vero fine ultimo, l’autentica autorealizzazione.
L’autorealizzazione dell’uomo deve consistere nel realizzarsi in quanto uomo.
Ora, l’uomo si caratterizza non già per le attività vegetative (nutrizione, crescita, metabolismo, ecc.) che anche le piante svolgono, né per le attività sensitivo-motorie (sensazioni, movimento, appetizioni, ecc.), che ha in comune con gli animali, bensì per l’esercizio della ragione, che è la sua funzione (ergon) propria e peculiare.
Dunque la vera autorealizzazione dell’uomo deve consistere nell’esercizio della ragione; ma non un qualsiasi esercizio, bensì: – quello eccellente: come il fine del musicista non è solo suonare bensì suonare in modo eccellente e quello del costruttore non è solo costruire ma costruire in modo eccellente, così il fine dell’uomo è esercitare in modo eccellente la ragione, cioè conseguire la sapienza [considerazione per gli addetti ai lavori: secondo alcuni l’argomento di Aristotele è il seguente: siccome l’uomo è razionale ha il dovere di esercitare la ragione, perciò (dicono questi autori) Aristotele cade sotto la legge di Hume, perché deduce il dover essere (razionale) dall’essere (razionale); in realtà (almeno secondo Yarza, pp. 144- 148, cfr. bibliografia) l’argomento di Aristotele è diverso: l’uomo ha il dovere di comportarsi da uomo, d’altra parte l’uomo è razionale, dunque l’uomo ha il dovere di esercitare la ragione in modo eccellente]; – quello che pensa le cose eccellenti, cioè (pochi interpreti di Aristotele fanno la seguente esplicitazione, ma la posso difendere soprattutto alla luce di EN, 1177 a 12 e ss., di Etica Eudemia, 1249b 16-21 e Metafisica 1072 b 18-25) specialmente quello che pensa Dio.
Una vita di questo tipo ci rende simili a Dio, che è Ragione, Logos: visto che «l’intelletto in confronto con l’uomo è una realtà divina, anche l’attività secondo l’intelletto sarà divina in confronto con la vita umana.
Ma non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi» e che «per potenza e per valore è molto superiore a tutte le altre» (EN , 1177 b 30 e ss).
Ora, chi vive in questo modo prova il piacere intellettuale, a volte un vero senso di felicità, quello di chi scopre la verità, in certi casi addirittura la verità su Dio, e vi si immerge e la approfondisce sempre di più (è un piacere che non tutti possono comprendere perché – per usare un’espressione che Dante userà secoli dopo – «intender non lo può chi non lo prova »; ma in fondo a molti sarà capitato, almeno una volta, di provare un piacere intenso nel capire qualcosa di interessante e affascinante). Ecco dunque spiegato il nesso tra autorealizzazione e felicità: la prima comporta la seconda.
Certamente questo discorso di Aristotele è grandioso: l’uomo come immagine di Dio, perché Dio è Logos e lo esercita continuamente ed anche l’uomo ha il logos e lo può esercitare. D’altro canto, il discorso è un po’ razionalista, perché assegna alla sapienza, al pensiero e alla teoresi un peso preponderante, sminuendo il ruolo dell’amore e degli affetti nell’autorealizzazione, il ruolo dell’amore da parte degli altri e per gli altri.
Il pensiero cristiano dirà invece che l’autorealizzazione esige sì l’esercizio della ragione (ovviamente nella misura delle proprie possibilità), che è un grandissimo dono di Dio, un talento da far fruttificare, ma consiste principalmente nell’esercizio dell’amore verso Dio e verso il prossimo, dirà che l’uomo è immagine di Dio sia per la ragione, sia per l’amore, e per l’esercizio di entrambe, visto che Dio è sia Ragione sia Amore.
D’altra parte, Aristotele dice che l’autorealizzazione consiste sì principalmente nella teoresi, ma aggiunge che in seconda battuta essa richiede (in qualche modo che non posso qui spiegare):
– dei beni esteriori, per esempio la salute, una qualche serenità economica, ecc. e in particolare delle persone che ci amano e da amare, degli amici (l’amicizia, ma potremmo dire l’amore se potessimo fare delle specificazioni, è il tema di gran lunga più estesamente trattato da Aristotele);
– delle altre attività, diverse dalla teoresi, come la vita civile-politica, come le attività in cui si esercita l’ingegno, come l’attività artistica, ecc.
– l’esercizio delle virtù etiche (sul ruolo delle virtù etiche bisognerebbe parlare molto a lungo).
Quanto al ruolo dei beni esteriori, Aristotele dice che essi non costituiscono l’autorealizzazione, ma la loro assenza la può compromettere, come capita a chi subisce delle malattie, a chi perde delle persone care che muoiono, a chi finisce nella miseria, ecc.
PER SAPERNE DI PIÚ
Aristotele, Etica Nicomachea, varie edizioni, reperibile integralmente sul sito: www.ousia.it
Ignacio Yarza, La razionalità dell’etica di Aristotele. Uno studio su Etica Nicomachea I, Armando, 2001.
Julia Annas, La morale della felicità in Aristotele e nei filosofi dell’età ellenistica, Vita e Pensiero, 1998.
Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele, ESD, 1998.
Giacomo Samek Lodovici, Il ritorno delle virtù. Temi salienti della Virtue Ethics, ESD, 2009.