L'amico Carlo ci racconta il primo turno di Junior World Championship da un originale punto di vista. Che merita di essere letto.
A volerla buttare sul credo, per una volta, dovremmo dire che sono i protestanti ad aver fatto da padrone nella prima giornata della Junior World Cup. I poveri cattolici di Italia, Irlanda e Argentina (c'è solo una felice eccezione, la Francia, che però – nella sua storia – non ha mancato di essere più volte, “protestando”, Gallicana) hanno dovuto soccombere alla potenza britannica e allo strapotere Baby(?) All Black.
Questione di Credo? E' certo che il rugby premia con i risultati chi si sacrifica in esso. E la Grande Bretagna sembra aver posto, nei suoi Domini, le condizioni per lo sviluppo di questo grande gioco, a guardare i risultati. Se andrà come il capitalismo, arriveremo anche noi nel G8, per il momento dobbiamo ancora lavorare, lavorare e lavorare. Partendo da dove?
In Italia siamo all'opposto della Nuova Zelanda sul mappamondo. E non solo sul mappamondo... Le basi, gli skills, quelle cose che da noi “si impareranno” (pare d'obbligo il riferimento alle parole dell'apertura airone Marshall), loro sembrano avercele già nel Dna.
E' questione di sistema, non solo di fisico. La Francia (anche l'Irlanda per un certo periodo, ma oggi è stata sconfitta e quindi la lascio là..), in questi anni, sembra essere l'unica “cattolica” ad aver capito quale potrebbe essere una “via latina al capitalismo”, e l'ha fatto senza porre limiti di altezza o peso (Elissalde, Clerc, Medard – i primi che mi vengono in mente – non sono bestioni eppure hanno fatto cose egregie). Sarà quindi un francese come Brunel, piuttosto che il “protestante” Mallet, che potrà meglio aiutare la nostra nazione in via di sviluppo? Staremo a vedere.
La prima giornata di questo Mondiale veneto ha visto delle vittorie nette: Australia su Tonga 54 a 7, Sud Africa su Scozia 33 a 0, Nuova Zelanda sull'Italia 64 a 7 e il Galles sull'Argentina 34 a 5, Francia su Fiji 24 a 12. Solo una partita è stata combattuta davvero, anche se la nazionale inglese, a mio parere, ha dato l'impressione per tutta la partita di poter fare bello e cattivo tempo: Inghilterra-Irlanda, conclusasi 33 a 25.
Proprio questa la partita che ho seguito con maggiore attenzione, grazie alla messa in onda Rai.
L'Inghilterra parte bene, con un gioco aggressivo in difesa, semplice e veloce in attacco. Vanno in meta quasi subito in prima fase con un'azione da mischia. Palla che dal mediano di mischia (mi sento di dire che i mediani di mischia, sia quello irlandese che quello inglese, erano dotati di un buonissimo passaggio) passa ai trequarti che non fanno un-incrocio-uno, passano velocemente la palla con un paio di “salti” e la palla arriva all'ala che schiaccia in meta alla bandierina. Semplicità disarmante, quella che – purtroppo – non vediamo mai dalle nostre parti. La nazionale inglese è dotata fisicamente e tecnicamente, ha un'apertura (Ford) dotata di un piedino fantasioso e telecomandato, sia dalla piazzola che in movimento, e due piloncini niente male. Gli irlandesi, invece, all'inizio sembrano buttati giù dal letto, stropicciati. Pian piano si riprendono: dopo aver regalato punizioni (piazzate) all'Inghilterra cominciano a farsi furbi, a guadagnare terreno e falli in zona buona, grazie anche ad una touche eccellente. Se in un primo momento l'Inghilterra si limita a rispedire indietro i folletti con il piede, mettendoli in difficoltà con sporadiche azioni prepotenti, l'Irlanda poi fa emergere il suo spirito “latino”: giocata dell'Inghilterra, Ford da 5 metri manda un grabber in area di meta, gara di velocità tra avversari, qualcuno schiaccia, gli inglesi esultano ma l'arbitro non ha nessun dubbio... ripartenza irlandese dai 22. Gli irlandesi vedono che c'è spazio, giocano veloce la ripartenza, Conway ripiglia, corre corre corre e schiaccia in meta. Robe da rimanerci secchi. Ma gli inglesi reagiscono, e gli irlandesi, praticamente perfetti fino ad allora in touche, perdono quella decisiva e regalano un pallone agli albionici che capitalizzano con una meta in poche rapide fasi. La partita rimarrà incerta fino alla fine, con l'emergere di alcune individualità, come l'estremo irlandese; ma non mi interessa la cronaca (giustamente interesserà magari a voi, ma ci sono altri che l'hanno già fatta): quello che mi preme è sottolineare il livello del rugby, del gioco basilare, quello che le individualità esaltano, ma che senza il collettivo non possono essere determinanti. E' il solido sistema di gioco che determina la fortuna di una o dell'altra squadra. La fortuna e il genio possono essere decisivi a volte, non sempre.
La differenza “nelle basi” emerge ancor più nella nostra “disfatta di Monigo” contro i neozelandesi, una moderna Caporetto – peraltro ampiamente prevedibile e per questo non scioccante.
Gli Azzurri sembrano mancare nel placcaggio, nella tecnica. Contro hanno dei supereroi, è vero. Ma non è il gap fisico a fare sempre la differenza. L'apertura inglese, per fare un esempio, non è un armadio, eppure ha ben figurato nella sua partita.
Sono proprio le basi, lo “spirito di sacrificio”. Non che i nostri non si siano “immolati per la Patria”: hanno dato quello che hanno potuto. Deve far riflettere il sistema, ripeto ancora. Per entrare nel G8 del rugby serve una svolta di mentalità, dal minirugby alla dirigenza federale. Dalla speranza nel miracolo (il cui artefice dovrebbe essere il Mallet di turno) alla testa bassa e lavorare. Una cosa che nel nord-est abbiamo fatto, parlando di economia e imprese (il miracolo economico era frutto di sudore e sacrificio umani – per niente soprannaturali -, oltre che di circostanze favorevoli, senza dubbio). E che mi auguro si ripeterà un giorno – magari a livello nazionale stavolta – nel rugby.
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