Sembrerebbe quasi accolto con freddezza questo nuovo ventottesimo membro dell’Unione Europea. L’ingresso della Croazia ha dato a molti l’impressione di un inesorabile spostamento del baricentro europeo ad est, con buona pace delle vecchie potenze.
L’Europa impantanata nella crisi che da anni non lascia spazio al rilancio dell’economia trova inspiegabilmente tempo per fagocitare nuovi Stati. Certo, si dice, sono Stati che, lasciati a se stessi, sarebbero ben lungi dall’intraprendere quei percorsi di avanzamento democratico ed economico (sic!) che l’ingresso in Unione europea richiede. Alternativamente, come l’Ucraina, sono Stati che potrebbero facilmente cadere nella tentazione di ripiombare sotto l’orbita russa (e non più sovietica), impegnata nella promozione della sua unione doganale eurasiatica.
Tuttavia, l’allargamento ad est, per lo meno nel contesto attuale, non può che avere parecchi aspetti controversi. Se da un lato non si arresta il dibattito su come correggere gli errori che la governance europea (o piuttosto la sua assenza) ha provocato sul tessuto economico degli Stati flagellati dalla crisi, dall’altro lato si accetta di fare un doppione delle chiavi a Stati che fino a ieri erano lacerati da guerre sanguinarie. Stati che ancora oggi devono compiere molti passi in avanti per consolidare il loro stato di diritto, il settore bancario, la propria politica di bilancio fino ad arrivare ai piccoli conflitti sociali e territoriali ancora non risolti.
Lo spirito solidaristico ed integrazionistico paneuropeo trova il suo limite nella notoria difficoltà di gestione delle istituzioni. Istituzioni sempre più appesantite da veti e cleavages, da procedure garantiste della sovranità e da apparati barocchi o pletorici. Viene in mente il problema politico dell’eccessivo numero dei deputati al Parlamento europeo, ma anche quello del sistema di ponderazione dei voti all’interno del Consiglio, recentemente riformato dal Trattato di Lisbona. Poniamo il caso che nel prossimo decennio paesi come Albania, Serbia, Macedonia, Bosnia, Kosovo, Slovenia e, più remotamente, Turchia e Ucraina, completino con successo la procedura di ingresso all’Unione Europea. E che il referendum in Gran Bretagna abbia successo e il Regno Unito si tiri fuori dall’UE, magari creandosi un’alleanza parallela con i vecchi Stati dell’EFTA. Gli equilibri politici all’interno dell’Unione sarebbero completamente sconvolti e, ora sì, Francia e Italia avrebbero minor peso di Romania o Polonia, più facilmente supportati dai loro vicini. Fantapolitica? Non proprio, se consideriamo che i voti all’interno del Consiglio sono assegnati su base demografica e non, giustamente, in base alla contribuzione finanziaria. Proprio su questo punto, emerge anche la grande questione del budget dell’Unione: ci sono Stati (le vecchie potenze) che sono contributori netti al bilancio e che vedono di anno in anno assottigliarsi i fondi destinati alle politiche agricole o gli aiuti per favorire la concorrenza delle imprese, la libertà e la sicurezza di cittadini; ci sono altri Stati (quelli di recente ingresso) che ricevono molto pur contribuendo poco, grazie a generose politiche di sviluppo. Benvenuta Croazia, con la speranza che il suo ingresso possa portare a una doverosa riflessione sull’Europa dalle mille contraddizioni.
Ylenia Citino