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L’Europa e il fragile mantello dell’Occidente

Creato il 07 luglio 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Rometreatydi Michele Marsonet. Si nota in questi ultimi tempi una crescita delle discussioni sul concetto di “Occidente”. Credo sia un fatto del tutto naturale. Terminata la contrapposizione tra il blocco sovietico e quello che per decenni si è definito giustappunto “occidentale”, lo scenario internazionale è molto cambiato con la comparsa di nuove potenze non collocabili nel quadro di cui sopra. Inoltre la leadership americana ha subito un certo appannamento, anche politico e culturale, e l’amministrazione USA attualmente in carica sembra avere una visione geopolitica in cui il termine “Occidente” trova meno spazio rispetto a quanto eravamo abituati.

Ancora più importanti, tuttavia, sono i riflessi di questa nuova situazione per l’Unione Europea flagellata dalla crisi. Qualche mese orsono Ernesto Galli Della Loggia formulò a tale proposito alcune tesi interessanti pur se discutibili. A suo avviso fu l’occupazione sovietica dell’Europa orientale che indusse – erroneamente – a considerare europee in modo omogeneo realtà eterogenee quali Francia, Italia, Germania e Benelux. Storie diverse, tradizioni culturali anche molto differenti. La vera forza aggregante a suo avviso era “esterna”. I sei Paesi fondatori della UE condividevano solo il fatto di gravitare nell’orbita americana, l’unico comun denominatore essendo quindi l’atlantismo. Si sarebbe trattato, insomma, di un’unione ben diversa da quella che siamo abituati a pensare. Un’operazione nata sotto l’egida americana e spiegata dal timore dell’espasionismo sovietico.

Non solo. Il vizio di fondo – insito negli stessi Trattati di Roma – sarebbe aver cancellato con un semplice colpo di spugna la differenza fondamentale tra l’Europa che alcuni definiscono “tedesca” (forse meglio sarebbe usare la parola “nordica”) e l’Europa mediterranea. Alle origini, tra l’altro, rappresentata soltanto dall’Italia e in maniera assai parziale dalla Francia, nazione notoriamente divisa tra le due anime. Se ne deduce che per parecchio tempo tutto andò bene proprio perché la componente mediterranea era minoritaria, e in quanto tale controllabile con facilità dai Paesi nordici (inclusa la parte settentrionale della Francia). La crisi si manifesta solo in seguito, quando entrano parecchie nazioni del Sud che, portando all’interno della UE i loro antichi vizi, causano lo squilibrio poi sfociato nella crisi attuale.

Qual è il problema di questo rapido affresco? Sostanzialmente questo. Viene da un lato riconosciuta l’esistenza di comuni valori europei, mentre dall’altro si sottolineano i conflitti che hanno insanguinato il vecchio continente per secoli, creando solchi e diffidenze che un semplice atto di fede non è in grado di superare. Essi hanno radici vastissime e profonde. La Cee in un primo momento, e la UE in seguito, sono riusciti a mascherarli utilizzando non solo l’economia (finchè andava bene), ma anche e soprattutto un mantello ideologico fragile come l’Occidente. Quest’ultimo ha resistito in presenza dei due blocchi contrapposti. Crollato quello sovietico, pure l’altro ha cominciato a manifestare segni di crisi, deboli all’inizio e via via sempre più marcati. Si aggiunga che gli Stati Uniti hanno da tempo cessato di considerare l’Europa quale teatro principale in cui esercitare la propria influenza e, con l’attuale presidenza, il baricentro si è spostato in altre parti del mondo. Quell’Occidente cui si attribuiva tanta importanza, e del quale Oswald Spengler aveva preconizzato il tramonto, si è dunque rivelato per ciò che era: una semplice foglia di fico.

Importante pure la constatazione che nella stragrande maggioranza delle nazioni europee la democrazia non è una pianta autoctona. “Per radicarla c’è stato bisogno qualche volta di un deficit di duemila miliardi, altrove il prezzo è stato Auschwitz, quasi dappertutto è stato necessario il vento d’oltreoceano”. E, aggiungo, questo spiega perché gli inglesi sono sempre stati così tiepidi nei confronti dell’unità europea: si sentono più vicini agli USA e alle loro ex colonie anglofone che alle nazioni continentali.

Senza dubbio l’analisi coglie bene alcuni nodi fondamentali, ma trascura il fatto che i padri fondatori erano ben coscienti dei problemi menzionati. Lo erano i tedeschi reduci dall’apocalisse nazista, gli italiani appena usciti dal ventennio, e pure i francesi sbaragliati in guerra ma capaci di trasformare con disinvoltura la sconfitta in vittoria. Era presente in tutti la coscienza che – isolatamente – i Paesi europei, sia grandi che piccoli, avrebbero avuto un peso marginale nelle vicende mondiali. Di qui l’idea di una unificazione progressiva, il cui errore principale è stato procedere con troppa fretta inglobando realtà nazionali che non erano pronte al “grande salto”.

Si può dire con certezza che gli egoismi ora tornano a prevalere. Chi ha i conti in (relativo) ordine, e la Germania in primis, non si rende conto che il crollo dell’Unione causerebbe danni ingentissimi anche alle economie più fiorenti, come del resto dimostrano alcuni studi proprio di marca tedesca.

Occorre inoltre chiedersi se “democrazia” e “nazione” debbano ancora essere giudicate inscindibili. Nei Paesi del nostro continente – secondo Galli della Loggia – ciò che mette alle corde la politica non è tanto l’economia, bensì “la perdita di sovranità da parte degli Stati nazionali”. E naturalmente sul banco dell’imputato siede l’Unione Europea. Ne consegue che è a rischio la stessa democrazia, poiché essa non può sussistere senza sovranità nazionale. “Perché esista la sovranità della nazione, e dunque l’idea dell’autogoverno, e quindi il meccanismo della rappresentanza, è necessario che esista preliminarmente uno Stato dotato degli attributi della piena autonomia e del comando”. In questo senso la nazione sarebbe un “noi” che ci rende diversi dagli “altri” e, pertanto, un meccanismo di esclusione, proprio come accade per la famiglia o la coppia.

Credo che a considerazioni di questo tipo, per quanto brillanti e ben argomentate esse siano, occorra rispondere ancora una volta rammentando come e perché nacque l’Unione Europea. Dopo il cataclisma della seconda guerra mondiale l’Europa era ridotta a un mosaico di piccoli Stati, alcuni dei quali si illudevano di aver conservato il precedente rango di potenze internazionali. Uomini politici dalla vista più lunga capirono subito che non era così, e intrapresero il lungo e difficile cammino di costruire una entità sovranazionale più vasta, in grado – almeno a lungo termine – di giocare un ruolo importante sul palcoscenico mondiale. A monte stava la convinzione che, nonostante le guerre ininterrotte che avevano fiaccato il continente, vi fosse pur sempre una comune eredità culturale in grado di superare le ovvie differenze tra i Paesi latini da un lato e quelli germanici da un lato. Con la speranza che in seguito si aggiungessero slavi e altri. Né si deve trascurare la convinzione, valida per molti di quei politici, che ci si potesse anche basare su una condivisa eredità cristiana.

Che l’Unione Europea abbia – almeno finora – disatteso molti degli obiettivi iniziali è un dato di fatto. Non ha un governo sovranazionale davvero rappresentativo, e le elezioni europee sono assai meno sentite di quelle statali. Non esiste, se non sulla carta, un esercito comune, e tante altre mancanze si potrebbero citare. Siamo tuttavia sicuri che la soluzione consista in un ritorno al passato, con gli Stati legati solo da vaghi vincoli di solidarietà? Mi chiedo perché si debba rinunciare alla speranza di dar vita a una UE seriamente strutturata come Stato transnazionale, lottando a denti stretti affinché tale obiettivo venga davvero raggiunto. Né mi è chiaro il motivo per cui ogni popolo europeo dovrebbe ricominciare a considerarsi un “noi” che ci rende diversi dagli “altri”.

Nel nostro continente il nazionalismo ha avuto due volti. Il primo ha consentito la liberazione di popolazioni oppresse da imperi dispotici. Ma il secondo è un volto ben più cupo. In suo nome si sono scatenate guerre e pulizie etniche, si sono rivendicati “spazi vitali” e pretese superiorità culturali. Tuttavia l’Unione Europea non è un impero dispotico, ed è sorta in base all’idea che l’appartenenza a un’entità più vasta avrebbe consentito di raggiungere la stabilità pur senza eliminare le differenze. Certo è difficile cancellare in pochi decenni pregiudizi radicati in secoli di lotte fratricide.

Da più parti si afferma, in sostanza, che essendo l’Unione un’entità più o meno evanescente, gli Stati nazionali – Italia inclusa – debbono tornare ad essere l’unico contenitore entro il quale possa esercitarsi l’autogoverno di una comunità. Non solo. Si aggiunge pure che la democrazia non può prescindere dallo Stato nazionale, nel senso che se viene meno l’uno, appare destinata a venire meno anche l’altra. In realtà non si capisce quale sia la soluzione proposta: una sorta di “rompete le righe” con conseguente scioglimento dell’Unione? Oppure un ritorno alla mazziniana “Europa delle Patrie”?

Una volta di più mi chiedo se valga davvero la pena di rinunciare all’unità per ritornare alla mera collezione di Stati nazionali che un tempo riempivano le carte geografiche. Mi sembra un’ipotesi miope e passatista, anche se purtroppo la crisi economica ne accresce la popolarità. Resta sullo sfondo una questione di grande portata. Ogni volta che si raggiunge il livello di guardia sono i banchieri a parlare, non i politici. Questi ultimi sono quasi silenti, tranne quando litigano nei vertici così frequenti. Adenauer, De Gasperi – e lo stesso De Gaulle – non si sarebbero comportati così. I mercati sono importantissimi, come la sorte dell’euro, ma il vero deficit europeo è di carattere politico.

La UE nacque sulle macerie della seconda guerra mondiale in primo luogo proprio per porre fine agli interminabili conflitti tra gli Stati nazionali europei, e in secondo luogo in base alla comprensione che il mondo, dopo la fine della guerra, era totalmente cambiato. Vi erano allora due superpotenze mondiali come USA e URSS, e una serie di Paesi – spesso ex-colonie europee – che iniziavano a giocare un ruolo politico ed economico rilevante nello scacchiere internazionale. Tale ruolo, come tutti sanno, è cresciuto in modo esponenziale con il trascorrere degli anni, tanto che oggi Cina, India, Brasile e Russia post-sovietica rappresentano fattori dai quali è impossibile prescindere sotto ogni punto di vista. Basti solo pensare al loro peso economico. Mi è capitato, nel corso di una conferenza internazionale tenutasi a Buenos Aires l’anno passato, di ascoltare le relazioni di alcuni brasiliani. Parlando del debito pubblico della loro ex madre patria, il Portogallo, costoro affermavano che se lo volesse il Brasile potrebbe anche “comprare” l’intero debito pubblico portoghese.

Naturalmente si dirà che i brasiliani sono degli sbruffoni, ma se si guardano PIL e cifre relative, l’affermazione di cui sopra appare tutt’altro che lontana dal vero. Vorrei rimarcare, insomma, che i padri fondatori dell’Unione Europea avevano sguardo acuto e vista lunga: le ragioni che li condussero a costruire, pur con enorme fatica, questa struttura transnazionale erano motivate, ancor più oggi che ai loro tempi. La soluzione non è il ritorno agli Stati nazionali, ma il perseguimento effettivo degli obiettivi di fondo che i padri fondatori avevano in mente. Quindi unione politica e non solo economica, governo europeo davvero rappresentativo sul piano internazionale, sottolineatura dell’identità culturale comune e superamento delle differenze. Difficile, si dirà. Ma non impossibile. Senza questo i vecchi Stati nazionali europei sono condannati all’irrilevanza.

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