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L'Europa è in guerra?

Creato il 03 luglio 2012 da Episteme

L'Europa è in guerra?

Moneta da 2€ coniata in Germania



La guerra è un evento sociale e politico generalmente di vaste dimensioni che consiste nel confronto armato fra due o più soggetti collettivi significativi. Il termine "guerra" deriva dalla parola "gwarra" dell'alto tedesco antico, che significa "mischia". Nel diritto internazionale, il termine è stato sostituito, subito dopo la seconda guerra mondiale, dall'espressione "conflitto armato" applicabile a scontri di qualsiasi dimensioni e caratteristiche.


Si giunge alla guerra quando il contrasto di interessi economici, ideologici, strategici o di altra natura non riesce a trovare una soluzione negoziata, o quando almeno una delle parti percepisce l'inesistenza di altri mezzi per il conseguimento dei propri obiettivi.


La guerra è preceduta da:
  • un periodo di tensione, che ha inizio quando le parti percepiscono l'incompatibilità dei rispettivi obiettivi;
  • un periodo di crisi, che ha inizio quando le parti non sono più disponibili a trattare tra di loro per rendere compatibili tali obiettivi.
Nei periodi di tensione e di crisi si sviluppa l'attività politica e diplomatica di tutta la comunità internazionale per evitare il conflitto: in tali periodi, le forze armate giocano un ruolo rilevante nel dimostrare la credibilità e la determinazione dello Stato, con lo scopo deterrente di rendere evidente all'antagonista la sproporzione fra l'obiettivo da conseguire e il costo, sociale e materiale, di una soluzione militare. La guerra quindi può essere evitata quando ambedue i contendenti percepiscono questo sfavorevole rapporto.
Carl von Clausewitz, nel suo libro Della guerra, compie un'analisi del fenomeno: "La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi" e "La guerra è un atto di forza che ha lo scopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà."
La guerra in quanto fenomeno sociale ha enormi riflessi sulla cultura, sulla religione, sull'arte, sul costume, sull'economia, sui miti, sull'immaginario collettivo, che spesso la cambiano nella sua essenza, esaltandola o condannandola.
Le guerre sono combattute per il controllo di risorse naturali, per risolvere dispute territoriali e commerciali, per motivi economici, a causa di conflitti etnici, religiosi o culturali, per dispute di potere, e per molti altri motivi. In Europa non si sono più combattute guerre per motivi religiosi dal 1648, anno della pace di Vestfalia che chiuse la guerra dei trent'anni.
Con queste parole Wikipedia introduce il termine "guerra", una condizione in cui l'Europa - per lo meno l'Europa occidentale - non si trova più nominalmente dalla caduta di Hitler e la fine del secondo conflitto mondiale.
Indubbiamente non sarebbe corretto pensare ad un continente pacificato: sono troppo recenti le crisi dei Balcani degli anni '90, gli scontri succedutisi alla caduta dell'Unione Sovietica e le attuali politiche di repressione russa in Cecenia per poter coltivare una simile utopia; è tuttavia innegabile che il nostro continente sta vivendo un periodo notevolmente lungo di sostanziale pace e stabilità rispetto alla definizione di guerra riportata.
Tuttavia dalla semplice lettura di Wikipedia emerge una certa ambiguità di fondo che lascia spazio ad analisi più approfondite sulla situazione del continente ed in particolare dell'Unione Europea: la riduzione del concetto di guerra a quello di conflitto armato lascia infatti un vasto cono d'ombra tra lo status di guerra e quello di pace che apre interrogativi di fondo molto importante.È possibile che l'Europa, pur non in guerra, non stia in realtà vivendo un reale periodo di pace? È possibile che ci ritroviamo a vivere un periodo storico in cui le antiche ambizioni di egemonia continentale che a corrente alterna hanno attraversato tutte le nazioni europee si stiano riproponendo e manifestando in nuove forme, forme che per una volta non vedono l'impiego di eserciti sul campo? È possibile, infine, che sia in corso una guerra interna all'Europa, una guerra invisibile perché non riconoscibile, perché lontana dalla definizione generalmente offerta a tale sostantivo?
Per rispondere a queste inquietanti domande il primo passaggio è indubbiamente comprendere quali sono le meccaniche che individuano uno stato di conflitto e capire se sono presenti nella realtà attuale.Come riporta Wikipedia, vi sono mille motivi in grado di scatenare un conflitto, ma a livello generale tutte le guerre possono essere ricondotte a due filoni principali:
  • le guerre ideologiche, in cui il tema dominante è l'imposizione della propria visione al nemico, o al contrario la liberazione da una imposizione pre-esistente; il massimo esempio di questa categoria sono naturalmente i conflitti religiosi e, portando al limite il concetto, le guerre di sterminio
  • le guerre di conquista, in cui lo scopo dichiarato è acquisire vantaggi economici e/o territoriali nei confronti del nemico, a cui appartengono sostanzialmente tutti gli altri tipi di conflitto

Il secondo passo della catena logica è una semplice ma focale constatazione: come hanno dimostrato gli episodi di neocolonialismo in Africa, non occorre la conquista militare di un Paese per renderlo proprio vassallo, così come non occorrono necessariamente raid aerei, cannoni e nemmeno virus informatici per danneggiare e indebolire uno Stato.
Se uno Stato inizia ad acquisire rilevanti settori dell'industria di un Paese straniero, se ne è fornitore privilegiato di materie prime oppure energia, infine se ne controlla il debito pubblico attraverso una sapiente esposizione verso i suoi titoli di Stato, diventa evidente che si arriva lentamente ma inesorabilmente ad instaurare un rapporto quasi di protettorato tra lo Stato più forte e quello più debole, che riesce a mantenere solo nominalmente la propria sovranità.
Questo genere di conquista soft è naturalmente meno sicuro di un attacco militare, proprio perché le armi potrebbero essere l'estrema risposta dello Stato più debole per aprire una breccia nei vincoli economici di sudditanza in cui si ritrova a dibattersi, ma in una cultura uscita dall'orrore di due Guerre Mondiali una simile azione appare sostanzialmente relegata al ruolo di ipotesi accademica.
Alcuni degli effetti più evidenti di questo fenomeno riguardano naturalmente il controllo del know-how scientifico, dal momento che i brevetti sarebbero nelle cassette di sicurezza di società straniere, la sudditanza energetica, con una distribuzione di energia sottoposta alle decisioni di aziende straniere, e in ultima analisi la riduzione dello Stato più debole a semplice supermercato in cui esporre i propri prodotti e da cui mungere capitale.
Solo in un secondo tempo, e solo dopo un intollerabile abbassamento delle condizioni di vita, la convenienza economica degli investimenti nel Paese più debole sarebbe sufficientemente rilevante da arrestare questo fenomeno. Ma il prezzo da pagare per arrivare ad un simile stadio sarebbe altissimo.
D'altra parte, sembra impossibile che uno Stato possa cedere in questo modo la propria sovranità ad un altro Paese senza colpo ferire... persino uno Stato in perenne debito di ossigeno come l'Italia, schiacciata da un debito pubblico immenso.
Le regole del capitalismo liberista, che dal reaganismo degli anni '80 regolano o dovrebbero regolare la vita degli Stati d'Europa, prevedono una netta separazione tra politica ed economia, tra pubblico e privato: in questo senso, l'acquisizione di un'industria da parte di un gruppo straniero non dovrebbe e non potrebbe essere vista come parte di una manovra più ampia di egemonia transnazionale.
Eppure la realtà dei fatti dimostra che non è così: da un lato molti Stati - come dimostrano ad esempio gli interventi francesi degli ultimi anni a difesa del proprio settore energetico - giocano un ruolo molto attivo a protezione dei propri settori chiave; dall'altro gli Stati più deboli sono spesso costretti a intraprendere la strada delle privatizzazioni per pagare il proprio debito pubblico, sottraendo al controllo statale intere filiere industriali e affidandole al molto più rischioso mercato privato.
Soprattutto in Italia riesce forse difficile pensare che un'azienda privata possa lavorare al servizio dello Stato, fino all'estremo paragone di diventarne un braccio armato - economicamente parlando. Una compagnia energetica come Edison in mano a EdF non è certo come porla in mano al governo francese. È tuttavia innegabile che il business core di EdF non è certo l'Italia dove opera la controllata Edison, ed il nostro Paese viene quindi visto come mercato periferico: nel migliore dei casi terra di penetrazione commerciale, nel peggiore una mera riserva di risorse, eventualmente da sfruttare altrove.
Se, quindi, una posizione dominante in fatto di credito e debito pubblico può essere fondamentale per l'acquisizione degli asset strategici di un Paese, se una penetrazione commerciale pur privata equivale ad una sudditanza dello Stato, allora diventa più semplice vedere nelle vicende della recente storia dell'Unione Europea un gigantesco, unico, conflitto.
Se per una certa linea di pensiero le posizioni inflessibili di Angela Merkel sul rigore dei conti - appena intiepidite da un accordo che versa comunque generose contropartite in termini di governance - appaiono meramente dogmatiche, occorre ripensarle alla luce del vantaggio che avrebbe la Germania da una prosecuzione lungo l'attuale linea politica.
Da più parti si sente ripetere che alla lunga la politica del rigore fiaccherebbe anche i tedeschi.
Tuttavia, si tratterebbe di uno svantaggio a lungo termine, e preceduto da tanti e tali punti positivi da rendere l'opzione in ogni caso appetibile per la Germania.
Come il caso greco e quello spagnolo - e, perché no, anche quello italiano - stanno dimostrando, i Paesi più deboli, messi alle strette, anziché ribellarsi ai diktat e utilizzare il proprio debito come una clava verso i Paesi creditori, stanno progressivamente smantellando stato sociale e asset per tentare di salvare il salvabile... senza tra l'altro alcuna garanzia di successo.
Alcuni Paesi sicuramente esploderanno, come la Grecia; altri forse riusciranno a salvarsi, ma sicuramente a carissimo prezzo.
Nel frattempo i Paesi creditori potranno contare su una serie di vantaggi: in primo luogo un flusso di cassa garantito dalla riscossione del credito, ed in secondo luogo immensi vantaggi sul proprio costo del denaro in termini di apprezzamento dei propri titoli di stato. Se si pensa che cento punti di spread, considerata la mole dei titoli italiani sul mercato, equivale in una differenza di una decina di miliardi di interessi in più o in meno, si capisce la reale dimensione della posta in gioco, indubbiamente superiore a qualsiasi minor introito legato alla crisi delle esportazioni negli Stati più deboli legato alle manovre recessive a cui questi sono stati sottoposti.
Ma anche se qualche Paese dovesse lasciare l'Euro o dichiarare default proseguirebbero i vantaggi per le economie più forti, che in presenza di una moneta pesantemente svalutata, magari in concomitanza con uno Stato affidato ad una sorta di curatore fallimentare internazionale, potrebbero letteralmente fare shopping di asset, industrie e persino territori strategici dal punto di vista militare o commerciale.
Sono lontani i tempi in cui le dichiarazioni di guerra venivano consegnate alle ambasciate dei Paesi nemici, ma non per questo il conflitto che si sviluppa in questi anni in Europa non sembra meno violento e virulento. Il prezzo, in questo momento, non si paga in vite umane ma in progressivo svuotamento di capitali, indipendenza e diritti.
Ed il maggiore beneficiario di questo fenomeno è il Paese che sostiene con maggior forza l'attuale politica. Quasi troppo per pensare ad una semplice coincidenza.

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