Il dibattito pubblico sul fine vita fa certamente affiorare in superficie le domande sul senso della vita e della morte, sul valore della sofferenza. Per questo il centro culturale Crossroads ha organizzato un incontro a New York il 20 giugno scorso, con Daniel Sulmasy che è Kilbride Clinto Professor di Medicina ed Etica all’Università di Chicago e direttore associato del McClean Center for Clinical Medical Ethics.
Riportiamo alcune sue parole, davvero molto interessanti, dell’intervista a “Tracce”: «Il diritto di morire è uno dei diritti più bizzarri da rivendicare, perché è un po’ come reclamare il diritto del sole a sorgere: non abbiamo scelta, moriremo tutti in ogni caso. In realtà il dibattito è sorto dal desiderio di impedire che un paziente venisse tenuto in vita artificialmente per un tempo troppo lungo. Successivamente però si è trasformato nella richiesta del diritto di essere uccisi o di uccidersi. Fondamentalmente credo che questa sia cattiva medicina, cattiva morale e cattiva politica». Una una pretesa di libertà, contraddittoria perché «affermare che la giustificazione dell’eutanasia sia un diritto illimitato all’esercizio della libertà è incongruente, perché nell’atto di ucciderci distruggiamo le basi dell’argomentazione, ovvero il nostro stesso essere, e perciò la nostra libertà e capacità di agire nel mondo».
Mentre le associazioni mediche lo capiscono, «uno dei problemi principali è che l’opinione pubblica non si rende conto che questa pratica mina le basi stesse della medicina». Se il valore intrinseco è il valore che una persona ha in virtù del fatto che è un essere umano, e questa è la base di ogni morale e certamente della medicina, il valore attribuito è il valore che conferiamo a noi stessi o che gli altri attribuiscono a noi. Quest’ultimo «è all’origine dell’idea che un adulto con il pannolone sia, nel senso del valore attribuito, privo di dignità. La domanda però è: l’attacco che la malattia porta al valore attribuito di una persona riesce mai a distruggere completamente la sua dignità? Credo che la risposta debba essere no. Se un paziente è in coma e noi diciamo che ha perso la razionalità, e quindi il fondamento della propria dignità, e quindi il proprio valore, diciamo una cosa sbagliata. Quando diciamo che i medici possono uccidere un paziente, ancorché con il suo consenso, stiamo dicendo che esistono persone a proposito delle quali possiamo a buon diritto affermare che non hanno valore. E se è così, il fondamento etico della medicina viene minato irreparabilmente, insieme a quello di tutta la morale».
A volte le persone malate sono vittime anche di un’altra problematica: non essendoci «modo per diventare biologicamente immortali, messe di fronte a questa profonda realtà metafisica, alcune persone hanno una reazione istintiva, debole: poiché non posso sconfiggere la mia mortalità, la rivendico uccidendomi. Ma è solo un’illusione di controllo e di libertà, perché mette capo alla morte dell’individuo». L’eutanasia ha preso piede sopratutto in Europa settentrionale, «penso che il successo di questa mentalità dipenda dall’indebolimento dei valori religiosi e da un senso di autorità tipico di certe persone benestanti e istruite, convinte che il senso dell’essere umani sia nell’esercitare il controllo. Gran parte di loro non si rende conto che questa pretesa di controllo è in ultima analisi illusoria». Queste persone, al contrario di quelle meno benestanti, «si illudono di essere padrone del proprio corpo perché sono padrone di tante altre cose nel mondo che le circonda. Ma in ultima analisi si tratta di un’illusione, anche per l’Occidente industrializzato. Non esercitiamo alcuna autorità sui momenti fondamentali della nostra esistenza. Per quanti progressi possa compiere l’ingegneria genetica, non potremo mai scegliere i nostri genitori. Non potremo scegliere di nascere o di non nascere, o di non morire. Non possiamo imporre a qualcuno di amarci. Questa filosofia del controllo, che oggi sembra essere una forza predominante, non può spiegare la nascita, la morte e l’amore, perciò mi sembra un sistema filosofico piuttosto debole».
Non si può infine non osservare il piano inclinato inevitabile una volta che si apre lo spiraglio all’eutanasia: «Per vederne l’impatto reale, dobbiamo osservare i Paesi Bassi dove l’eutanasia era illegale ma non perseguita; poi è diventata legale, ma solo per chi era in grado di esprimersi e scegliere liberamente. Oggi, all’atto pratico, subiscono l’eutanasia anche persone che non sono in grado di intendere e di volere, perché la famiglia decide al posto loro: “La mamma non vorrebbe andare avanti così”. Di fatto, il 32 per cento delle morti per suicidio assistito sono non-volontarie. Quindi si è passati dal volontario al non-volontario, e inoltre ora si passa dagli anziani ai bambini». Tutto si basa «sull’assunto che la persona malata preferirebbe essere morta e che sia più pietoso ucciderla. Inoltre, l’eutanasia non riguarda più solo i malati terminali, come prevede la legge: viene praticata a persone depresse che non sono riuscite a curarsi, e si afferma che la loro depressione è terminale perché si suiciderebbero se il medico non praticasse loro l’iniezione letale». E ancora: «Una volta che l’eutanasia sarà legalizzata, la norma si ribalterà e la domanda da porre alla persona vulnerabile diventerà: perché non ti sei ancora suicidata?».