In realtà, vi sarà presto chiaro che mi sto muovendo nel limbo compreso fra l'ironia e la provocazione, perché la filosofia del vivere senza pensieri ha in Leopardi gli effetti opposti di quelli che riscontriamo in Timon e Pumbaa: semplicemente, mi sembrava un modo divertente per alleggerire una riflessione un po'ostica.
«Senza pensieri la tua vita sarà / chi vorrà vivrà in libertà» recitava la canzoncina. Ebbene, anche Epitteto, filosofo greco vissuto fra il I e il II secolo d.C. (ma di cui si hanno poche notizie certe, a partire dallo stesso nome) ha costruito la sua opera fondamentale, il Manuale (Encheirìdion) sull'idea del raggiungimento di una felicità che ha come necessaria premessa il rigido controllo dei pensieri.
Alla base delle possibilità di avere una vita lieta e appagante c'è la ragione, che permette di operare una distinzione essenziale fra 'cose che sono in nostra facoltà'[1] e quelle che non lo sono; se, attraverso l'esercizio della ragione (in forma di proaìresis, ovvero di una 'valutazione primaria') l'uomo si dovesse rendere conto che quanto desidera o ciò di cui si dà pena come possibile minaccia al raggiungimento della felicità appartiene alla sfera di ciò che non dipende dalla sua volontà, dovrebbe disinteressarsi dell'oggetto stesso delle sue premure. In caso contrario, si voterebbe ad un'esistenza di perpetuo tormento e di insoddisfazione irreversibile:
«Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro la opinione, il movimento dell'animo, l'appetizione, l'avversione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la reputazione, i magistrati[2], e in breve quelle cose che non sono nostri propri atti. [...] Ricordati adunque che se tu reputerai per libere quelle cose che sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t'interverrà di trovare quando un ostacolo quando un altro, essere afflitto, turbato, dolerti degli uomini e degli Dei.»[3][4]
Da questa constatazione dell'impossibilità di dominare una gran parte degli avvenimenti e della natura umana partono diverse considerazioni sull'insensatezza del preoccuparsi della morte, della malattia, dei beni materiali, delle attenzioni o del disinteresse delle divinità nei confronti delle sorti di ciascun mortale. Il saggio deve comportarsi come un attore:
«Sovvengati che tu non sei qui altro che un attore di un dramma il quale sarà o breve o lungo, secondo la volontà del poeta. [...] A te si aspetta solamente di rappresentar bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene a un altro.» [5]Stabilita questa condizione elementare, il filosofo passa a fornire un prontuario di comportamenti rispettosi della moderazione e della sobrietà che si addice al saggio, affrontando questioni come l'adulterio, i divertimenti, l'esercizio fisico, la sincerità.
Quello di Epitteto, insomma, è un invito ad accettare serenamente la vita, comportandosi con equilibrio ed evitando di volgere le proprie attenzioni e le proprie energie al perseguimento di scopi vani o irraggiungibili. Non si nota, nelle pagine dell'autore greco, alcuna amarezza, ma, anzi, le sue massime sono pervase da un senso di quiete e rasserenamento che nel volgarizzamento leopardiano (1825), soprattutto nelle pagine introduttive, si perde, sostituito da un latente sentimento di protesta malcelato da un'affermazione poco credibile di totale impotenza. Sappiamo, d'altronde, che l'ultima fase del pensiero del poeta recanatese (dal 1830) è punteggiata da eccezionali slanci di titanismo e di rivolta contro l'esistenza arrendevole e mesta celebrata nelle fasi precedenti.
Ecco come Leopardi si accinge a presentarci il pensiero del filosofo greco:
«Non è altro quella tranquillità dell'animo voluta da Epitteto sopra ogni cosa, e quello stato libero da passione, e quel non darsi pensiero delle cose esterne, se non ciò che noi chiamiamo freddezza d'animo, e noncuranza, o vogliasi indifferenza. Ora la utilità di questa disposizione, e della pratica di essa nell'uso del vivere, nasce solo da questo, che l'uomo non può nella sua vita per modo alcuno né conseguir la beatitudine né schivare una continua infelicità. [...] Non hanno gli uomini finalmente altra via se non questa una, di rinunciare, per così dir, la felicità, ed astenersi quanto è possibile dalla fuga del suo contrario.»[6]Una giusta interpretazione, anche se la scelta terminologica, l'uso della sintassi e altri piccoli accorgimenti (che si notano avendo a disposizione anche una traduzione moderna del testo) segnalano, a mio avviso, un distacco e un bisogno di evasione che nelle pagine di Epitteto non è contemplato: manca, in Leopardi, una vera e sincera adesione al pensiero stoico, o meglio, un coerente perseguimento dell'ideale di Epitteto. È in questi momenti che la natura classica di Leopardi lascia spazio alle infiltrazioni del poeta romantico. Ma questa è un'altra storia, anche se dubito che il buon Giacomo gradirebbe essere accostato, nel giro di poche righe, ai suoi nemici romantici e al duo più famoso della cinematografia disneyana!
«Conducimi, o Zeus, e anche tu, o Destino,
alla meta che da voi mi è stata assegnata:
vi seguirò infatti senza indugio; ma se anche non voglio,
per essere divenuto vile, vi seguirò lo stesso.
Chi si è conciliato nobilmente con la necessità,
è un saggio presso di noi, e conosce le cose divine.» [7]
C.M.
NOTE:
[1] Epitteto, Manuale I, 5 (volgarizzamento di Giacomo Leopardi).
[2] Inteso come cariche pubbliche: meglio precisare, perché qualcuno potrebbe pensare ad una forma di proprietà della magistratura stessa, e di questi tempi è bene essere cauti!
[3] Epitteto, Manuale I, 1,3.
[4] La prima pagina dell'edizione secentesca del manuale.
[5] Epitteto, Manuale XVII, 1.
[6] G. Leopardi, Preambolo del volgarizzatore. [7] Versi che chiudono il Manuale (trad. di Martino Menghi per Rizzoli).