scritto da Vanessa Forte.
L’ Hermine è una boccata d’aria fresca. Piccolo, raffinato, divertente, si spoglia dei pretenziosi e spesso manchevoli pseudo-intellettualismi, inevitabili ai Festival, per tornare a quella tradizione che pacifica il pubblico con il buon, anzi ottimo, cinema. L’ Hermine è intelligente nel contenuto e nella realizzazione.
Ai due lati della sbarra giudicato e giudicante, entrambi consapevoli che tre giorni in questo piccolo tribunale-teatro di provincia segneranno per sempre le loro esistenze. Il primo passivamente combatte per non finire dietro le sbarre per infanticidio. Il secondo attivamente tenta di evadere da quel carcere emotivo che proprio l’ermellino sulla sua toga, simbolo di dignità e incorruttibilità, imprigiona. Luchini, misuratissimo, è straordinario nel farci vedere le brecce che man mano si aprono nella toga-gabbia di questo misantropo dallo spirito molièriano e ossessionato dal lavoro, quando inizia il “corteggiamento” della bella e brava Sidse Babett Knudsen. Fa intravedere fragilità, inibizioni e piccole manie, senza mai far cadere totalmente il “sipario”, mantenendo un equilibrio e un incanto che “imprigionano” il pubblico già totalmente affascinato.
Luchini, però, non viene lasciato solo. È efficacemente aiutato e innalzato da dialoghi scintillanti che mitigano gli istanti più cupi attraverso un inatteso sorriso. Ma anche da una serie di comprimari cesellati a tutto tondo che donano al film una dimensione unanime e da una regia dalla mano sicura.
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