di Antonio Scarazzini
La crisi finanziaria propagatasi dalla Grecia al resto dell’eurozona ha portato sotto gli occhi di analisti ed opinione pubblica le storture che il processo di integrazione europea ha contribuito ad ampliare dopo la creazione dell’unione monetaria. L’Unione Europea si è quindi dotata di una moneta unica in maniera atipica, senza sorreggerla con un’adeguata architettura di governance politica. E’ ormai lampante dunque la necessità di tornare ad avanzare nel processo di integrazione per imboccare l’uscita dalla crisi di un’identità europea che sotto le sferzate della recessione rischia di vedersi minacciata dal riemergere di populismi e dimostrazioni di euroscetticismo.
Con il libro “Per l’Europa” Daniel Cohn-Bendit e Guy Verohfstadt hanno lanciato un appello per un’Europa federale, come risposta alla crisi finanziaria ed all’emergere di populismo ed euroscetticismo. Gli Stati europei sono maturi secondo Lei per rilanciare un progetto di così ampia portata per dare un’identità all’Unione Europea?
Al di là della maturità dei singoli Stati, è difficile definire cosa sia l’identità europea. Quantomeno se ne può parlare come processo o, come fece Federico Chabod con la sua “Storia dell’idea di Europa”, come frutto di una storia basata su comunanze culturali e su una definizione esclusiva nei confronti degli altri. Tornando all’attualità, il modello federale è ormai necessario per molti fattori: la moneta unica necessita di una governance politica che non si è avuto il coraggio di creare insieme all’euro. All’epoca mancavano i pilastri per renderla una moneta vera, ma nel momento di euforia e crescita economica si pensava che le istituzioni avrebbero seguito naturalmente l’unione monetaria. Riconosciuta la necessità di dotarsi di istituzioni federali, ci sono poi altri fattori di convenienza che spingono per il rafforzamento del soggetto europeo: se consideriamo infatti che fra vent’anni anche la Germania uscirà dalla top ten dei paesi industrializzati, così come sarà già avvenuto per Italia, Francia e Gran Bretagna, la necessità di un’Europa maggiormente coesa diventa assolutamente ineccepibile se si vuole mantenere il ruolo di attore globale.
Come si è detto, populismo e euroscetticismo sono due tratti salienti del quadro politico scaturito dopo le crisi dei debiti sovrani e sono, in un certo senso, dirette conseguenze dell’assenza di una precisa identità europea e di un’adeguata divulgazione dei temi europei tramite i media. Con quali strumenti si possono affrontare questi fenomeni ?
Naturalmente questi sono tratti negativi che emergono nei momenti di crisi, ma il dato attualmente più preoccupante è quello che vede riemergere gli stereotipi applicati ai vari Stati europei. E’ un esercizio veramente pessimo perché dalla creazione della CECA si presume che siano stati compiuti insieme enormi passi e si siano create istituzioni comuni. In realtà c’è molta più Europa nella nostra vita di quanto possiamo renderci conto, ma a volte forse non la si vuole vedere. Certamente c’è un problema di comunicazione, che in parte è distorta dagli Stati membri. La classe politica rimane nazionale e spesso addita l’Europa come un capro espiatorio lontano, quindi serve veramente un grande progresso per fornire legittimità all’Europa. Alle prossima tornata delle elezioni europee occorrerebbe far sì che si elegga anche il Presidente della Commissione Europea, che esistano collegi transnazionali e che si possa far riferimento a partiti veramente europei. Questo è ciò di cui l’Europa ha bisogno, arretrare ora non avrebbe senso. Ad esempio, anche le nostalgie per il marco in Germania si spengono di fronte ai numeri di un’uscita della Germania dell’euro, che in tal caso vedrebbe apprezzarsi la moneta del 40% ed un calo del PIL del 25% dovuto al crollo delle esportazioni.
Nel pieno della crisi finanziaria, si è affievolita l’attenzione su altri aspetti della vita comunitaria: la politica estera, ad esempio, conferma la tendenza verso un intergovernativismo che indebolisce la proiezione esterna dell’Europa. Come si può tornare ad esprimersi in questo ambito con un’unica voce comunitaria ?
In effetti è ciò che anche tanti cittadini si chiedono: come può un soggetto come l’Unione Europea, in situazioni come quelle della Libia e della Siria, non essere in grado di rispondere con un’unica voce? Per dare una fotografia della situazione basta pensare al fatto che in Europa manteniamo ancora ventisette eserciti nazionali che, nella maggior parte dei casi, utilizzano sistemi d’arma e di comunicazione incompatibili. Ci sono dati che indicano come potremmo risparmiare il 70% se integrassimo gli eserciti in corpi unici di 50000 uomini, dispiegabili in una settimana anche in territori lontani. La ragione dell’inefficienza risiede comunque nell’assenza di una struttura federale o semi-federale, che assicuri adeguata governance: se si vuole essere un attore globale bisogna unire la forza economica con un minimo di forza di dissuasione, di capacità di difendersi da minacce internazionali anche in territorio non europeo. La dimostrazione di incapacità nel Mediterraneo è stata plateale: sulla nostra porta di casa non siamo stati in grado di fornire strumenti operativi in tempi brevi ai nostri vicini dell’Africa del Nord. Si sono offerti accordi ma non sono state mobilitate risorse che segnalassero l’importanza che l’Europa tributa a quell’area. Questo fa parte di una generale incongruenza di strumenti e obiettivi testimoniata dal ruolo dell’Alto Rappresentante per la politica estera, che è sì Vice-Presidente della Commissione ma che non dispone di reali poteri.
In questo senso, dunque, l’Europa si confronta anche con un antico elemento del suo processo di costruzione d’identità, ossia la fedeltà atlantica. Qual è il peso attuale di quest’influenza nelle politiche europee?
Il problema, se così si può chiamarlo, effettivamente esiste perché l’appoggio degli Stati Uniti fu essenziale per dare il via al processo di integrazione europea in un momento in cui loro stessi necessitavano di un attore forte e credibile che potesse contenere un eventuale espansionismo sovietico. Il ruolo dell’URSS di allora, in qualità di attore globale, è oggi occupato dalla Cina e la ridiscussione degli equilibri di un sistema multipolare comportano anche la revisione dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa così come la necessità per l’Europa di mantenere e consolidare la propria unione. In questo senso, sarebbe utile analizzare da una prospettiva europea anche tematiche trattate prettamente in ambito nazionale: tornando all’ambito della politica estera e di sicurezza, ad esempio, il caso degli F-35 tanto criticati in Italia rappresenta un esempio di mancato coordinamento tra i Paesi europei per garantirsi collettivamente una force de frappe all’avanguardia, riducendo le quote nazionali di acquisto di sistemi d’arma o proseguendo con progetti alternativi a guida europea. Di solito si ha paura di parlare di guerra ed eserciti, con il rischio di continuare a spendere in maniera inadeguata e inefficace. Ragionando in termini di influenza, la salvaguardia della nostra libertà dipende dalla capacità di difenderla e quindi di disporre di mezzi di dissuasione, per i quali è tuttavia possibile aumentare l’efficienza riducendo contemporaneamente i costi.
* Antonio Scarazzini è Dottore in Studi Internazionali (Università di Torino)