Come Placido probabilmente meglio di Placido. L’Immortale trasporta sul grande schermo reali cronache di nera, confermando, in parte, quanta breccia abbia fatto nei cuori francesi il prototipo Romanzo Criminale (2004). Rispetto all’apripista tricolore, la quarta fatica dietro la macchina da presa di Richard Berry, adattamento dell’omonimo romanzo di Franz Olivier Giesbert, dimostra di possedere un pregio in più: lo stesso che gli permette, con sorprendente personalità, di smettere gli abiti vintage per ambientare in epoca contemporanea una vicenda temporalmente figlia degli anni ‘70. Intuizione più registica che di scrittura assolutamente da non sottovalutare, in quanto capace di elevare a potenza l’universalità di genere del testo, rendendolo così insensibile rispetto ad un gusto prevedibilmente retrò. Berry non sarà Marchal, ma nella sua formazione di cineasta è evidente quanto peso abbia avuto l’amore per il polar d’annata, filone cinematografico divenuto, negli anni, vero e proprio fiore all’occhiello della produzione d’oltralpe.
La macchina da presa si muove con graziosa aggressività, sorretta com’è da una fotografia celestiale e guidata a distanza da uno dei pochi interpreti al mondo in grado di mangiarsi la scena qualunque sia il ruolo assegnatogli: Jean Renò calza a pennello i panni di un gangster vecchia scuola dall’aura innegabilmente cristologica, interprete benedetto e supplicato, miracolato prima, e trafitto da una corona di spine poi.
L’Immortale rappresenta un piacevole diesel di celluloide, appena sofferente nei confronti di una prima parte ritmicamente altalenante e provata da qualche lungaggine di sceneggiatura: una macchina da cinema che, una volta ingranate le marce più alte della narrazione, cattura e trascina, proiettando chi guarda in un mondo d’onore dimenticato, diviso tra promesse da mantenere e tradimenti da dimenticare come da tempo non se ne vedevano.
Luca Ruocco