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L’impalpabile leggerezza della sinistra

Creato il 10 novembre 2010 da Mdeconca

sinistraIl governo esce battuto tre volte nelle commissioni; Berlusconi è costretto ad affidarsi a Bossi come mediatore con Fini!; i finiani continuano il loro gioco sporco ai fianchi della maggioranza di cui fino a ieri facevano parte. E la sinistra?
La sinistra (PD) è impalpabile: hanno paura ad appoggiare Di Pietro e una possibile mozione di sfiducia; hanno paura ad appoggiare la manifestazione indetta dalla CGIL per sabato 27 novembre [adesione di Nichi Vendola]; hanno paura a mettersi in gioco.
Ha ragione il sindaco di Firenze, Renzi, a parlare di un partito da ‘rottamare’: quando non si hanno più le ‘banane’ per mettersi in discussione si tirano i remi in barca e si rinuncia ad ogni straccio di politica. Se a destra qualcosa non va, a sinistra c’è davvero tutto da rifare!
La ricerca di un leader vero, al di là di Bersani, ottimo burocrate ma scarso stratega al punto da far rimpiangere Franceschini, è un obiettivo che a breve la sinistra dovrà porsi. Una virata è necessaria, un cambio di direzione olte la palude centro-catto-comunista nella quale si trova invischiata. E’ tempo di muoversi, è tempo di dire finalmente qualcosa di sinistra senza che siano altri a farlo.
Carpe diem ____

Seguono due articoli di Ilvo Diamanti, da Demos e pubblicati su La Repubblica

ALLA SINISTRA DELLA DELUSIONE
[La Repubblica, 4 ottobre 2010]

A sinistra del centrosinistra i consensi crescono. Ormai si aggirano intorno all’ 11%. Più che di una novità, si tratta di un ritorno. Alle elezioni politiche del 2006, infatti, le formazioni a sinistra della sinistra (da qui: Sinistra) avevano, infatti, superato il 10%. In termini assoluti: circa 3 milioni e 900mila voti. Alle consultazioni del 2008, però, quest’ area si riduce al 3%. Tutti compresi: Rc, Comunisti Italiani, Verdi, più le nuove formazioni uscite dai Ds dopo la nascita del (e la confluenza nel) Pd.
Il che significa: 7 punti percentuali e 2 milioni e settecentomila voti meno del 2006. Più che un calo: un tracollo. Le cui ragioni sono diverse e, in parte, note.

1. In primo luogo, la strategia del Pd di Veltroni, che – come Berlusconi – interpreta il bipolarismo in senso bipartitico – o quasi. Da un lato il Pdl insieme alla Lega, dall’ altro il Pd alleato con l’ Idv di Antonio Di Pietro. La legge elettorale, che premia la coalizione vincente, spinge molti elettori della Sinistra – per non “sprecare” il voto – a scegliere il Pd e (in maggior numero) l’ Idv. Ma, soprattutto, ad astenersi.
2. La Sinistra, inoltre, paga la posizione ambigua assunta durante il governo Prodi. Sempre in bilico tra maggioranza e defezione. Rispetto al 2006, il Pd cresce di 2 punti e, in termini assoluti, di neppure 200 mila voti. Mentre l’ Idv supera il 4% e aumenta di 700 mila voti. In sintesi: dal bacino elettorale di centrosinistra scompaiono circa2 milioni di elettori di Sinistra.
Oggi, due anni dopo, la Sinistra sembra ritornata oltre il 10%. Rifondazione e i Comunisti Italiani, in realtà, non vanno oltre il 2%. Ma Sinistra e Libertà (Sel), guidata da Nichi Vendola, raggiunge il 5%. E il Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo, supera il 4%. Si tratta di tendenze rilevate dai principali istituti demoscopici. Parallelamente, i maggiori partiti di centrosinistra appaiono in difficoltà. Il Pd sembra sceso sotto la soglia critica del 26%. Anche l’ Idv, però, ha smesso di crescere e si è attestata intorno al 6-7%.

Il ritorno della Sinistra, trainato da SeL e dal Movimento 5 Stelle, sembra favorito, soprattutto, da due motivi.
a. Hanno, entrambi, una (sola) leadership: fortee personalizzata, anche se espressa da figure molto diverse. Nichi Vendola ha una lunga storia politica e di partito. Viene dalla Figc, ha militato nel Pci e in Rc. È presidente di Regione. Mentre Beppe Grillo è un outsider della politica. Uomo di spettacolo, anch’ egli una lunga esperienza alle spalle. Entrambi figure di “rottura”. Vendola, comunista e omosessuale, ha fatto della sua diversità un elemento “normale”, perché non esibito. Ma per questo più provocatorio, politicamente. Ha ulteriormente legittimato la sua “diversità” sfidando il gruppo dirigente del Pd che non lo voleva candidato alla guida della Puglia. Grillo, da tempo, agisce “in proprio”. Al tempo stesso attore e predicatore, riempie le piazze e i teatri, mettendo in scena la denuncia all’ establishment politico, economico e finanziario. È un grande comunicatore. Come Nichi Vendola, in grado di parlare al “popolo”. Non solo di sinistra.
b. Entrambi dispongono di un’ efficiente comunicazione post-politica (per citare Berselli). Condotta attraverso Internet, accompagnata da mobilitazioni tematiche. Grillo: riferimento di una rete di blog e MeetUp tra le più frequentate al mondo. Promuove manifestazioni affollate e di grande visibilità. Da ultimo, la Woodstock 5 Stelle che si è svolta a Cesena una settimana fa. Vendola: a sua volta, ispiratore di una lunghissima e frequentatissima catena di blog e di pagine su Facebook. La sua Fabbrica (echeggia quella di Prodi) è diffusa sul territorio nazionale.
c. Entrambi interpretano la personalizzazione mediatica della politica, imposta da Berlusconi. In modo, ovviamente, antagonista. Non indulgono alle mediazioni politiche e linguistiche. Non ne hanno bisogno (per ora).
d. Entrambi i partiti dispongono di una base di militantie di elettori molto diversa da quella del Pd e di Idv. Più giovane e istruita, maggiormente addensata nei centri urbani. Quanto a Sel: spostata a Sud.
Peraltro, le differenze tra i due soggetti sono significative. Nichi Vendola considera il centrosinistra la sua “casa”. Il Pd l’ interlocutore naturale. E gli elettori del Pd, peraltro, lo guardano, a loro volta, come un possibile leader della coalizione. Mentre il Movimento 5 Stelle ha, come riferimenti, i comitati del No (Tav, Dal Molin, Global, ecc…). Oltre a settori sociali apertamente anti-politici (ammesso che il termine abbia un significato). Non a caso, quasi un terzo dei suoi simpatizzanti si pone “fuori” dallo spazio Destra/Sinistra. Non a caso, peraltro, alcuni “militanti” di 5 Stelle si sono resi protagonisti di contestazioni clamorose durante la Festa nazionale del Pd, a Torino.

Questo scenario pone, peraltro, significativi problemi: ai principali partiti di Centrosinistra ma anche a quelli della Sinistra.
1. Sel e 5 Stelle appaiono pericolosi concorrenti per l’ Idv. A sua volta, un partito personale – o, almeno, molto personalizzato. Che ha fatto dell’ antagonismo a Berlusconi il distintivo.
2. Al Pd, invece, l’ esempio della Sinistra rammenta ciò che gli manca, in questa fase difficile. Anzitutto, una – “una” – leadership personale forte e condivisa. Poi: temi chiari – “chiari” – intorno a cui comunicare la proposta politica. (Per comunicare in modo efficace, occorre sapere “cosa” comunicare.) Ancora: un’ organizzazione aperta e flessibile. In grado di mobilitare. Perché “personalizzazione” non significa scomparsa delle persone e della società.
3. Quanto alla Sinistra, il problema principale riguarda la “tenuta”. 5 Stelle viaggia sulla rete. Sel è strutturata per esperienze diffuse, ma ancora poco radicate. E presenti soprattutto nel Sud. Per garantirsi stabilità, però, occorre stare sul territorio. Le mobilitazioni fondate sul No (-B) non bastano. Talora (come quella Viola, di sabato) neppure mobilitano troppo.
4. C’ è, infine, la questione delle alleanze. Riguarda tutti: Sinistra e Centrosinistra. Oggi e soprattutto domani. Quando (presto, immaginiamo) si andrà a nuove elezioni. Con quali alleanze? Perché se il Centrodestra è diviso, il resto dello spazio politico rischia di esserlo molto di più. Con questa legge elettorale: premessa di sconfitta sicura. Gli spazi – e i seggi – rischiano di ridursi per tutti. Anzitutto per il Pd. Ma il Centrosinistra e la Sinistra sono disponibili a cercare e a costruire alleanze, tra loro e, se necessario, con i partiti di Centro e la “Cosa” di Fini? La questione, probabilmente, non interessa Grillo e 5 Stelle. Ma avrebbe conseguenze anche per loro. Fare – comunque, apparire – un’ opposizione sterile, come il Pd in questa fase, è frustrante. Ma la tentazione- diffusa nella Sinistra- di fare opposizione “a prescindere”, non per vincere e governare. Alla lunga – e forse anche alla breve – logora. E rischia di fare apparire la Sinistra – ai suoi stessi elettori “inutile”.

VIZI E VIRTÙ DEL PARTITO IMPERSONALE
[La Repubblica, 8 novembre 2010]

È il momento di maggiore debolezza per il Pdl e, in primo luogo, il suo leader. Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Mai come oggi afflitti da un deficit di fiducia, che si traduce, per il Pdl, in stime di voto deludenti. Sotto il 30%. Mai come oggi fragile, il governo. Attraversato da tensioni interne, mentre la crisi economica incombe. Eppure il Pd non ne approfitta. Non solo, secondo i sondaggi delle ultime settimane, è scivolato intorno al 24-25%. A differenza di quel che avviene negli altri Paesi, dove l’opposizione ha approfittato delle difficoltà del governo. In Germania, in Spagna, in Inghilterra, negli Stati Uniti.

La tentazione più facile è leggere in modo speculare le difficoltà dei due maggiori partiti. Pd e Pdl. Nel 2008, insieme, avevano raggiunto il 70%. Oggi, secondo i sondaggi, non arrivano al 55%. Segno del collasso del “bipolarismo bipartitico” su cui aveva scommesso Veltroni – ma anche Berlusconi. Tuttavia, le difficoltà dei due partiti hanno ragioni molto diverse. Nel Pdl tutto si riassume nella figura di Berlusconi. Inventore e artefice del “partito nuovo” del centrodestra. Sorto, più che per fusione, per “confluenza” (di An in Fi). Un percorso interrotto da Fini. Il cui partito, Fli, raccoglie, in buona parte, i consensi – non ancora i voti – degli insoddisfatti di An.

Non è un caso che la misura del calo del Pdl coincida, largamente, con i voti attribuiti a Fli (5-7%). Il declino del Pdl e della coalizione di governo, però, riflette la crisi di legittimità e di autorità “personale” di Berlusconi. Il Pd, invece, non è nato in poche settimane, né per volontà “personale” di un leader. Ma da un percorso complesso, durato fin troppo: 13 anni o giù di lì. Avviato nel 1995 dall’Ulivo di Prodi e sfociato, nel 2007, nel Pd. Soggetto politico a vocazione maggioritaria, in una prospettiva, appunto, bipartitica. È il luogo di incontro fra post-comunisti, post-democristiani (di sinistra) e laici riformisti. Sostenuto da un larghissimo consenso popolare, certificato dalle primarie. Un “rito fondativo” (come lo ha definito Arturo Parisi), ripetuto tre volte, con la partecipazione di milioni di elettori. Se il Pdl ha un’identità chiara e personalizzata, il Pd è rimasto un soggetto largamente “impersonale”, con un’identità incerta. E ha sofferto – ancora soffre – di un deficit di autorità. Almeno dopo l’esito deludente del governo Prodi.

Da allora ad oggi, in tre anni, sono stati eletti 3 segretari. Veltroni, Franceschini e, oggi, Bersani. Segno dell’incapacità di costruire – e imporre – una leadership forte e riconosciuta. Da ciò l’impressione di un “partito provvisorio”. A guida provvisoria. E per questo privo di autorità. Ciò ha spinto molti critici (interni ed esterni) a riassumere la “questione democratica” nell’assenza di ricambio del gruppo dirigente. Matteo Renzi ha invocato, per questo, (in modo provocatorio ma non troppo) la “rottamazione” del gruppo dirigente. La convention convocata a Firenze, nei giorni scorsi, dal sindaco (Renzi) e da Pippo Civati era, non a caso, affollata di militanti e amministratori “giovani”. Specchio palese di un conflitto generazionale che cova da tempo.

Giustificato ma insufficiente a spiegare la “questione democratica”. In fondo, Nichi Vendola e Sergio Chiamparino, altri leader che ambiscono alla guida del centrosinistra, non sono molto più giovani di Bersani, Franceschini e Veltroni, dal punto di vista della generazione politica. La “questione democratica”, a mio avviso, evoca invece e anzitutto l’identità. Perché il Pd non ha ancora deciso – né chiarito – chi sia e cosa voglia. I valori e i progetti con-divisi. Sin qui ha messo in evidenza quelli “divisi”. E le divisioni interne appaiono ispirate da ragioni personali piuttosto che strategiche. Nel rapporto con il governo, anzitutto, dal 2008 ad oggi, ha oscillato fra dialogo e antagonismo. Sui temi economici, bioetici, sulla sicurezza: difficile trovare posizioni comuni. Così si è visto schiacciare tra centro e sinistra. A “centrosinistra”, divenuto un non-luogo, indefinito e scomodo. Ne ha tratto vantaggio, non a caso, l’Idv di Antonio Di Pietro. Partito personalizzato, legalitario e antiberlusconiano. Da ciò la difficoltà di proporsi, fino ad oggi, come alternativa credibile. Perché non riesce ad avanzare una proposta politica chiara. Perché appare un partito oligarchico. Impermeabile alle domande sociali e – per dirla con Pareto – alla “circolazione delle èlites” espresse dal territorio.

Eppure gli avvenimenti degli ultimi mesi, degli ultimi giorni offrono al Pd nuove chance. Nuovi spazi. Intanto, il destino dei “partiti personali” resta appeso ai leader che li guidano. Come dimostra il Pdl, minato dalla perdita di credito di Berlusconi, sua principale, se non unica, ragione sociale. Ma, per citare Mauro Calise (nella nuova edizione de “Il partito personale”, appena pubblicato da Laterza): “Il fenomeno ormai trascende i destini del suo Prometeo”. E potrebbe coinvolgere – domani – altri partiti. L’Idv, Sel (la sua ascesa è legata direttamente a Vendola), lo stesso Fli (a cui Fini ha imposto il suo marchio personale nell’etichetta). Perfino la Lega, personalizzata da Bossi. (Anche se dispone di un ceto politico giovane, espresso da componenti sociali produttive e aggressive.)

Anche l’incertezza strategica, in questa fase, è meno evidente. La crisi del berlusconismo e del suo protagonista traccia, da sola, l’agenda politica. Inoltre, la caduta del governo e della legislatura, più che una minaccia, appare una prospettiva incombente e imminente. Che rende il Pd un’alternativa incerta, ma necessaria. Insostituibile. Senza il Pd la Sinistra è ai margini, il Centro ha uno spazio angusto. D’altra parte, il Pd dispone ancora di consensi potenziali ampi. Se nelle stime di voto è prossima al 25%, la quota di elettori potenziali, che si dicono vicini al Pd, supera il 30%. E l’immagine di Bersani, come leader, è migliorata, nelle ultime settimane.
Solo che molti elettori faticano a riconoscersi in un partito che non si fa riconoscere. Che mobilita la base ma la consulta in modo intermittente. Dove la scelta dei candidati e del leader è affidata alle primarie. Ma il leader viene pre-stabilito dal gruppo dirigente nazionale. Che condiziona anche le nomine locali. Il Pd, quindi, resta un partito incompiuto. Non ha una missione riconoscibile e riconosciuta. E per questo non riesce a imporsi come un’alternativa vera. Ma nessuna alternativa – al governo e di governo – è possibile, senza il Pd. Riuscisse a chiarirlo a se stesso, potrebbe spiegarlo anche agli altri. Anzitutto, ai suoi elettori. Ai fedeli e agli incerti, agli esuli e ai delusi. Ma deve farlo oggi. Domani è già tardi.


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