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Gerry è Gerardo Sperandini, che ha prestato il suo corpo e la sua vita a D’Alessandria per cavarne fuori la poesia e la verità. non c’è patetismo, né patologia, solo pathos.
I.Gerry: requie per un sogno abortito
Gerry vomita in sala giochi, si fa la doccia col vino e poi gira nudo- in mezzo alla strada; lancia i fazzoletti nel Tevere, sguazza nelle fontane, ruba una Autobianchi e sgomma via; dorme sulle poltrone perché le camere sono finite, va (d)a San Pietro (“beccate ‘sto giaccone!”), cammina, cammina e, ancora, cammina, finché non lo prendono e lo rinchiudono e ora Gerry è legato a un letto, grida aiuto, poi un amico (il Professore) lo libera; “c’hanno provato a farmi fuori ma io sono troppo fico, ammazza quanto so’ fico!”: sbracato sotto il sole, in mezzo al Colosseo silenzioso- l’ago nella vena; poi va a rubare le mutandine alle ragazze, beve la birra dei turisti e ruba il cibo dai tavolini del bar, nasconde la roba sotto i ponti, scrive alla madre di suo figlio, perché ha anche lui il suo Amore tossico; infine, chiude con un assolo roboante: il monologo con un pezzo di ferro trascinato mentre la notte se lo inghiotte.
II.e il veliero va
Gerry è padrone di Roma come non lo è nessun altro. almeno oggi. per questo è il suo imperatore, l’unico che la ama, che ci prova, a tirarla fuori dal degrado, dal roboante frastornare dell’etica (leggi: politica) glitterata che s’andava affermando, dall’indifferenza e dall’alienazione. lui, che “vole morì coperto d’oro come li faraoni”, che si è infilato in tutti i vicoli, che ha fatto dei Fori Imperiali, di via Cavour e del Circo Massimo la culla della sua precarietà, della sua indefinitezza esistenziale, per il quale non esiste commento se non i suoni di We Can’t Imagine (Tan Zero), lui- proprio lui, che stava ricostruendo Roma, er canaro bianco, er mejo killer de New York- finisce con la faccia nella merda per aver rubato un panino. possiamo davvero dirci migliori di lui?
titolo originale: L'imperatore di Romaun film di Nico D'Alessandria1987
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