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L’importanza di controllare i movimenti di capitali e la timidezza del FMI

Creato il 20 dicembre 2012 da Keynesblog @keynesblog

Dani Rodrikdi Dani Rodrik

E’ ufficiale. Il Fondo Monetario Internazionale ha approvato il controllo sui capitali legittimando l’utilizzo delle imposte e di altre misure di restrizione sui flussi finanziari transnazionali.

Fino a poco tempo fa, l’FMI aveva spinto i paesi, ricchi e  poveri, ad aprirsi ai finanziamenti stranieri. Ora ha riconosciuto la realtà dei fatti, ovvero che la globalizzazione finanziaria può essere distruttiva e indurre a crisi finanziarie e a movimenti valutari economicamente sfavorevoli.

Quindi eccoci di fronte all’ennesima svolta nell’infinita saga della relazione di odio e amore con il controllo dei capitali.

Con il sistema dello standard, prevalente fino al 1914, la mobilità del capital libero era sacrosanta. Tuttavia, la turbolenza del periodo tra le due guerre convinse molti (e notoriamente anche John Manyard Keynes) del fatto che un conto capitale aperto fosse incompatibile con la stabilità macroeconomica. Il nuovo consenso venne rispecchiato nell’accordo di Bretton Woods del 1944 che comprendeva il controllo del capitale negli articoli sull’accordo dell’FMI. Come disse Keynes al tempo, “ciò che veniva considerata un’eresia è ora diventata ortodossia”.

Tuttavia, entro la fine degli anni ’80, i policy maker si erano invaghiti nuovamente della mobilità del capitale. Nel 1992, l’Unione europea rese illegale il controllo sul capitale mentre l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica applicò un sistema di finanziamento libero sui membri nuovi aprendo la strada alla crisi finanziaria del Messico e della Corea del Sud rispettivamente nel 1994 e nel 1997. L’FMI adottò l’agenda con entusiasmo e la sua leadership tentò (senza successo) di modificare gli articoli dell’accordo al fine di dare al fondo un potere formale sulle politiche relative al conto capitale dei suoi paesi membri.

Finché sono stati i paesi in via di sviluppo ad essere continuamente tra l’incudine e il martello a causa della finanza globale, è stato di moda colpevolizzare la vittima. L’FMI e gli economisti occidentali sostenevano che i governi del Messico, della Corea del Sud, del Brasile, della Turchia e di altri paesi non avevano adottato le politiche (regolamenti cauti, restrizioni fiscali e controlli monetari) necessarie per trarre vantaggio dai flussi di capitale ed evitare la crisi. Il problema dipendeva quindi dalle politiche interne e non dalla globalizzazione finanziaria, pertanto la soluzione si doveva trovare attraverso riforme interne e non tramite il controllo dei flussi di capitale transnazionale.

Quando, nel 2008, anche le economie avanzate sono diventate vittime della globalizzazione finanziaria, non è più stato così facile mantenere quest’argomentazione. È’ diventato più chiaro che il problema dipende in realtà dall’instabilità dello stesso sistema finanziario globale (gli attacchi di euforia seguiti da improvvise battute d’arresto e cambi di tendenza che sono insiti nei mercati finanziari non monitorati e non regolamentati. Pertanto il riconoscimento da parte dell’FMI che è giusto da parte dei paesi tentare di proteggersi da questi modelli è ben accetto e giunge appena in tempo.

Non dovremmo tuttavia esagerare l’entità del cambio di rotta dell’FMI. Il Fondo continua infatti a considerare la mobilità del capitale libero come un ideale verso cui tutti i paesi dovrebbero convergere e che ha come unico requisito il raggiungimento da parte dei paesi delle condizioni limite di uno “sviluppo istituzionale e finanziario” adeguato.

L’FMI considera il controllo del capitale come l’ultima risorsa da implementare in circostanze molto ristrette, ovvero quando altre misure macro, finanziarie o caute non siano in grado di contenere gli afflussi di capitale, nel caso di una sovravalutazione del tasso di cambio, di un’economia surriscaldata con una riserva straniera già adeguata. Pertanto, mentre il Fondo delinea un “approccio integrato alla liberalizzazione del capitale”, e individua in dettaglio una serie di riforme da implementare, non ci sono misure lontanamente comparabili sul controllo di capitale e su come renderlo più efficace.

Ciò rispecchia un ottimismo esagerato su due fronti: innanzitutto sulla capacità della politica di gestire in modo diretto le carenze soggiacenti che rendono la finanza pericolosa, e, in secondo luogo, sulla misura in cui la convergenza della regolamentazione finanziaria interna riuscirà ad attenuare la necessità di una gestione transnazionale dei flussi.

E’ possibile comprendere meglio il primo punto con un paragone con il controllo delle armi da fuoco. Le armi da fuoco, proprio come i flussi di capitale, hanno degli usi legittimi, ma possono anche creare delle conseguenze catastrofiche se utilizzate accidentalmente o messe nelle mani sbagliate. La riluttanza da parte dell’FMI di sostenere il controllo di capitale è molto simile all’atteggiamento di chi si oppone al controllo delle armi da fuoco: i policy maker dovrebbero puntare a contenere i comportamenti dannosi invece di limitare bruscamente le libertà individuali.  Come sostengono le lobby americane a favore delle armi da fuoco “non sono le armi da fuoco ad uccidere le persone, ma le persone stesse”. Ciò implica che dovremmo punire i colpevoli e non limitare la circolazione delle armi. Allo stesso modo, i policymaker dovrebbero assicurare che gli azionisti dei mercati finanziari interiorizzino i rischi che assumono invece di imporre una tassa o limitare alcuni tipi di transazioni.

Ma come dice spesso Avinash Dixit, economista di Princeton, nel migliore dei casi il mondo è sempre secondo. Un approccio che implica la capacità di individuare e regolamentare direttamente i comportamenti problematici non è realistico. Gran parte delle società controllano le armi da fuoco direttamente in quanto non è possibile monitorare e regolamentare i comportamenti senza limiti di errore e inoltre i costi sociali di un eventuale fallimento sono elevati. Allo stesso modo, la cautela ci impone di istituire una regolamentazione diretta sui flussi transnazionali. In entrambi i casi, regolamentare o proibire alcune transazioni è una strategia i ripiego in un mondo in cui l’ideale potrebbe essere irraggiungibile.

La seconda complicazione è data dal fatto che, invece di convergere, i modelli nazionali di regolamentazione finanziaria si stanno moltiplicando anche tra le economie avanzate con istituzioni ben sviluppate. Nel contesto della regolamentazione finanziaria bisogna considerare il compromesso tra l’innovazione e la stabilità finanziaria. Più vogliamo uno dei due elementi, meno possiamo avere l’elemento rimanente. Alcuni paesi opteranno per una maggiore stabilità imponendo dei requisiti severi sulle proprie banche in termini di capitale e liquidità, mentre altri potrebbero favorire una maggiore innovazione e adottare una regolamentazione più lieve.

La mobilità del capitale libero pone una difficoltà importante. Sia chi prende e chi elargisce prestiti possono fare riferimento ai flussi finanziari transnazionali per evadere i controlli nazionali e compromettere l’integrità degli standard normativi nazionali. Per evitare quest’arbitraggio normativo, i regolamentatori nazionali potrebbero essere obbligati a prendere delle misure nei confronti delle transazioni finanziarie provenienti da giurisdizioni con norme più blande.

Un mondo in cui diverse sovranità nazionali regolano la finanza in modi diversi ha bisogno di norme di traffico per gestire l’intersezione di politiche nazionali separate. Il presupposto secondo cui tutti i paesi convergeranno sull’ideale della mobilità del capitale libero ci distrae dalla formulazione di queste norme.

da Project Syndicate


Filed under: Economia, Global Tagged: Dani Rodrik, fondo monetario internazionale, globalizzazione

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