Nel novembre 2010 viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale il cosiddetto "Collegato lavoro" (Legge 183 del 24 novembre 2010). Un testo di legge che prevede, tra le altre cose, un tempo limite per impugnare un contratto illegittimo. Un lavoratore che vorrà far vaelere un proprio diritto, dovrà farlo entro 2 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, pena la sua decadenza. Un diritto con codice a barre e data di scadenza, proprio come una merce. Basta così? No, perchè quella stessa legge prevede che all'atto della firma del contratto di lavoro, le parti (delle quali il lavoratore è quella debole, specie in quel momento) scelgano se, in caso di controversia, ci si rivolgerà ad un giudice o un arbitro che dovrà decidere in base a generici e discrezionali principi di equità. Questa legge pare dimenticata, ma è viva e vegeta. La ricattabilità dei lavoratori da parte delle aziende ha trovato piena legittimazione in quella Legge. Perchè tanto le aziende sono aziende ed i lavoratori non sono un cazzo.
A questo contesto legislativo, culturale, economico e sociale, che vede le imprese dominare nei rapporti con i lavoratori, si inserisce ora quello che di fatto è lo smantellamento dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Secondo la versione abbozzata dal governo e sostenuta da Cisl e Uil e politicamente da PDL, UDC ed una grossa fetta di PD (l'altra parte, vedi Bersani, auspica comunque una modifica, seppure meno drastica), il reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato potrà avvenire solo in caso di licenziamento discriminatorio. Sarà invece il giudice a decidere tra il reintegro ed un indennizzo per i licenziamenti per motivi disciplinari; mentre per i licenziamenti di tipo economico non è previsto il reitegro del lavoratore, a cui spetterà solo un indennizzo. Il tribunale, quale luogo per far valere i propri diritti negati è di nuovo considerato un peso, un fastidio da limitare. Infatti, scrive Ichino (PD) in una lettera al Corriere della Sera, che la modifica dell'articolo 18 serve ad "evitare l'alea della controversia in tribunale". E' chiaro che sarà sufficiente avere disponibilità di pagare un indennizzo, per sbattere fuori un lavoratore, adducendo motivi economici. Insomma, i diritti assumono il valore di un "tot" di mensilità di indennizzo, pagato da un'impresa che può permettersi così di negare il diritto al lavoro di un lavoratore. Perchè tanto l'impresa e l'impresa e chi lavora non è un cazzo.
E' evidente che c'è una chiara volontà a trasformare i diritti di chi lavora in una questione privata tra datore di lavoro e lavoratore. Il diritto del lavoro che diventa diritto commerciale, dove c'è uno abbastanza ricco da comprare a basso costo i diritti di un altro troppo povero per poterli rivendicare. Ed i sindacati "complici" dicono che deve essere così; il PDL dice che va benissimo così; una parte del PD dice che dovrebbe andare un po' meno peggio di così, mentre l'altra parte dice che va bene così. Perchè tanto il padrone è il padrone e voi non siete un cazzo. A meno che non si opponga a questo disegno, una lotta ampia e generalizzata.