Diciamo la verità. La notizia non avrebbe dovuto essere quel che ha detto Vittorio Sgarbi (“gli italiani dell’Alto Adige sono come gli ebrei sotto il nazismo”), ma ciò che avrebbe potuto eventualmente affermare il critico d’arte più famoso d’Italia se – almeno per un momento – avesse deciso di “tradire” il suo personaggio. In questo senso egli ci ha involontariamente ricordato quanto sia difficile, anche per chi a torto se ne ritiene un campione, interpretare il tratto distintivo del comportamento intelligente: la capacità di adattarsi a un ambiente mutevole mediante reazioni diversificate. Sgarbi invece reagisce invariabilmente come il pubblico ha ormai imparato ad “apprezzarlo” in anni di pessime e ripetitive apparizioni televisive: le sue intemperanze, le sue invettive sature d’esagerazioni e non raramente condite da epiteti volgari, sempre più prevedibili e scontate. L’unica opposizione ragionevole ai suoi sproloqui dovrebbe essere l’indifferenza.
Detto questo, è chiaro che il vero punto problematico sia un altro. Possibile che un’occasione come i 150 anni dell’Unità d’Italia non serva ad altro che a rinfocolare polemiche stantie e a mettere in vetrina istrioni capaci soltanto di conquistarsi le prime pagine dei giornali non certo grazie al loro contributo di riflessione e ponderatezza, ma perché esclusivamente funzionali a “drogare” il coefficiente d’attenzione su un evento segnato in origine da scarsa partecipazione e comunque da pesanti contraddizioni?
Per contrasto, possiamo citare le iniziative organizzate dal Museo Storico del Trentino e dall’Università degli Studi di Trento coordinate dal professor Gustavo Corni. Un ciclo di conferenze – anzi: di lezioni pubbliche – affidate a storici e intellettuali di primo piano (quindi poco telegenici) e tese a illuminare i diversi spunti di approfondimento che un tema così rilevante può suscitare in un auditorio selezionato dalla qualità dell’offerta (come si è verificato in occasione delle prime due splendide lezioni tenute dagli storici toscani Alberto Mario Banti e Tommaso Detti).
Ma evidentemente quel che è possibile a Trento – terra fieramente autonomistica e orgogliosa delle proprie peculiarità quanto lo è il nostro Südtirol – qui stenta ancora a decollare. Saper smorzare le asperità identitarie in un linguaggio comprensivo delle differenze, mettere a punto un approccio critico rispetto al quale la retorica del discorso unitario non nasconda le intermittenze o il dissenso di voci dissonanti. Soprattutto: una pratica del discorso pubblico che sia fondata sul paziente esame di contenuti calibrati su una proficua visione di lungo periodo e non sull’inconcludente animosità di trascurabili e dozzinali sgarbi quotidiani. È chiedere troppo?
Corriere dell’Alto Adige, 9 marzo 2011