Si legge col piacere leggero di una girata in bicicletta questo racconto lungo di Michela Murgia, a conferma di uno stile agile e ben calibrato, capace di dipingere con toni ora ironici ora poetici la vita estiva e la maturazione di un gruppo di tre amici in un paese di fantasia, Crabas, che si richiama con un simpatico scambio di lettere al luogo in cui l’autrice stessa è nata e tuttora vive (Cabras, ndr).
La storia si costruisce attorno ai giochi dei tre ragazzini, al senso d’appartenenza della comunità di cui fanno parte e agli eventi che la metteranno in discussione quando, per una sciocca ripicca tra clerici, verrà deciso di creare una seconda parrocchia in un territorio che a memoria d’uomo ne aveva avuta sempre una.
Memoria d’uomo, appunto: perché le componenti dell’oralità e del racconto tramandato e quelle della tradizione e dell’identità date per scontate si scontrano qui con la verifica della storia e del presente, e con l’irruzione dell’inaspettato, ovvero con la scoperta che identità e senso d’appartenenza nascono e si rinnovano solo in virtù della nostra maniera di reagire all’inevitabile avanzata del tempo.
Lo capiscono i tre amici della storia (uno su tutti il protagonista principale, Michele) che nell’arco di un paio d’estati si conoscono, si affiatano, si distaccano e poi si riconciliano, alla maniera dei ragazzini, senza troppi fronzoli né tentativi di spiegazioni.
E lo capiscono a loro spese i membri della comunità di Crabas, dopo che la nascita della nuova parrocchia li aveva fatti precipitare in una faida dai contorni sempre più sorprendenti e dagli esiti sempre più imprevedibili.
Lo scenario, diranno alcuni, non è cosa nuova: un paese d’area non metropolitana, dei ragazzini a un passo dalla perdita dell’innocenza che passano l’estate tra la caccia alle lucertole e il sogno di grandi imprese, una comunità rimasta identica a se stessa nei secoli e nella quale i racconti dei vecchi rubano ancora la scena agli schermi televisivi, gli anni ottanta – mai davvero approfonditi ma sempre presenti – ma soprattutto la scoperta dell’amicizia e del passaggio obbligato e doloroso che porta alla crescita, individuale e di gruppo.
La Murgia offre la sua interpretazione di quella tipologia di racconto (Ammaniti lo aveva fatto con Io non ho paura, Calvino, mai troppo rimpianto, con Il sentiero dei nidi di ragno) dove lo sguardo che i ragazzini posano sul mondo restituisce a chi legge quel senso di bellezza e di magia che alle volte gli adulti finiscono chissà perché per perdere. Ma il tutto raccontato senza troppi proclami, in 102 pagine che scorrono leggere e veloci, e che lasciano alla fine della lettura un’immagine di stridente consapevolezza, come il gioco di bambini-non più bambini con cui si conclude la narrazione.
C’è poco altro da aggiungere. In un periodo di pubblicazioni che (almeno per quel che riguarda le ‘cosiddette’ grandi case editrici) oscillano tra gli estremi di una leggerezza priva di sostanza e di una sostanza priva di leggerezza, questa storia della Murgia offre un bel punto d’equilibrio, una piacevole parentesi di fine anno in cui, alla maniera della comunità di Crabas, possiamo forse ricominciare a riflettere anche noi sulle nostre identità di lettori.
Nella speranza di non scoprire d’averle definitivamente perse.
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