di Massimiliano Sardina
Giacomo Leopardi è Il giovane favoloso. Di questo titolo (eroico, romantico e insieme onirico) lo insignì Anna Maria Ortese in Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi – “Così ho pensato di andare verso la Grotta, in fondo alla quale, in un paese di luce, dorme da cento anni il giovane favoloso.” – come a volerlo risarcire di quella giovinezza mai fiorita e di quella favola mai vissuta. Con la sola eccezione del titolo (e di una scena ambientata in un lupanare) tutta la sceneggiatura attinge dal corpus autografo leopardiano (dai Canti, dalle Operette morali, dallo Zibaldone, dalle prose sparse e dall’Epistolario); una cernita attenta e strutturata, un prelievo mirato ma cauto, funzionale a una ricostruzione biografica (e bio-letteraria) quanto più fedele e vicina al vero. Ne emerge una figura di prepotente bellezza, fiera pur se fiacca, e gigante, monumentale pur se costretta e prostrata. Martone e di Majo, in ossequio ai versi della Ortese, si adoperano in una coraggiosa rilettura della personalità del poeta marchigiano, riproponendone (rinvigoriti, corroborati) i tratti più ribelli e spregiudicati.
Il poeta capovolto che campeggia in locandina dichiara già in partenza lo spurgo dal Leopardi scolastico, da quella caricatura da “cantore del pessimismo” che per decenni ne ha offuscata e snaturata la disperata vitalità. Va reso merito agli sceneggiatori di aver lasciato parlare quanto più possibile la parola scritta, i pensieri e le azioni del poeta, le confidenze agli amici più stretti, gli sfoghi con i familiari, oltre a tanta documentazione correlata. Giacomo irrompe nella storia bambino, un bambino favoloso, come richiedono i toni di una favola. Corre e gioca con il fratello Carlo e la sorella Paolina nel piccolo giardino di Palazzo Leopardi a Recanati. Indossa una coroncina d’alloro, impugna una spada di legno e solennemente annuncia che presto inscenerà il suo trionfo. La claustrale dimora paterna non tarderà a configurarsi alla stregua di un carcere, ma il prigioniero ne acquisirà consapevolezza solo più in là nell’adolescenza, molto gradualmente (con il picco d’insofferenza intorno ai ventun anni). Del mio nascimento dirò solo che io nacqui di famiglia nobile in una città ignobile dell’Italia. Giacomo nasce a Recanati nel 1798, quindi all’indomani della Rivoluzione Francese, e si troverà a crescere con figure genitoriali per molti versi ancora legate all’ancien régime. È destinato a sbocciare come un fiore di campo trapiantato nel chiuso di una serra, protetto dalle insidie del mondo esterno ma al contempo privato di aria e di luce. Anni di studio matto e disperatissimo lo segneranno nel corpo e nella mente, e lo condanneranno a una trista cagionevolezza per tutti gli anni della sua breve vita. Lacrimazioni da fotofobia, emicranie, fitte posturali, difficoltà digestive… tutte conseguenze di una sedentarietà eccessiva che, su una costituzione gracile e vulnerabile già di suo, non poté che rivelarsi fatale.
Il conte Monaldo, padre del poeta (che per il figlio sognava una carriera in seno alla Chiesa), ricoprì con rigido zelo e morbosa attitudine il ruolo di premuroso carceriere, un padre-padrone che controbilanciava l’affetto con l’obbedienza. Al suo fianco la moglie Adelaide Antici, una donna inquietante, anaffettiva, tarata nell’emotività; una madre fredda e indifferente, talmente bigotta da rallegrarsi della morte dei suoi stessi figli neonati (perché più vicini a Cristo), e talmente insensibile da gioire della deformità e della bruttezza del suo primogenito (ligia al dettame biblico che identifica il bello terreno con la sozzura satanica). Unica consolazione del giovane Giacomo i fratelli minori Carlo e Paolina. Dai ricordi di Carlo Leopardi: “La fanciullezza di Giacomo passò tra giochi e capriole e studi. Mostrò fin da piccolo indole alle azioni grandi, amore di gloria e di libertà ardentissimo.” Il seme della poesia leopardiana risiede nell’infanzia, luogo della perdita e della riappropriazione. “Leopardi – sostiene Maurizio Ferraris (Università di Torino) – è riuscito a cogliere il lacerante che c’è sempre dentro all’infanzia”. La cella – dove ogni sbarra è un libro, e dove ogni libro è un invito alla fuga, all’evasione – è la ricca biblioteca paterna, un susseguirsi di stanze rivestite da scaffalature, con la sola eccezione del lato della finestra; ed è al di là di quest’apertura che guarda il poeta, chino sulla piccola scrivania posizionata proprio lì sotto per catturare più luce possibile. Qui Giacomo si perfeziona nello studio delle lingue: greco, latino, ebraico, francese, spagnolo e inglese (un autentico poliglotta). Per tutta la vita si abbeverò a quel sangue contaminato dei popoli che sono le lingue.La cella della biblioteca di Palazzo Leopardi era a sua volta ingabbiata in una seconda cella, più grande ma ancora più claustrofobica: Recanati […] Tanto cara che mi somministrerebbe le belle idee per un trattato dell’Odio della patria. L’enfant prodige non tarda a surclassare i suoi stessi precettori, e a quindici anni firma persino una Storia dell’Astronomia. Si distinse subito per l’ampiezza degli interessi, sia sul versante linguistico-filologico che su quello scientifico-naturalistico. Mise il naso in ogni branca, goloso di mondo e di umanità. Poeta sì, ma innanzitutto studioso (e indicibilmente curioso). Allo studio e alle traduzioni Giacomo ha sempre affiancato sue composizioni, canti, poesie, pensieri, prose sparse. Il poeta (trattenuto) non le trattiene, le invia mezzo posta e resta in febbricitante attesa di un qualche riscontro. Tra i primi ad accorgersi della portata del suo talento c’è il classicista e illuminista Pietro Giordani, che intreccia col giovane Giacomo una corrispondenza fitta e amorosa. Ed è sempre Giordani a comunicargli la buona notizia: “[…] voi ammirato con tanta venerazione, che a Dante non si potrebbe di più. I vostri canti girano come fuoco elettrico, tutti ne sono invasati. Si esclama di voi come di un miracolo.” In Giordani Monaldo non tarda a intercettare una minaccia concreta ai suoi piani nei confronti del figlio, e così fa di tutto per interrompere l’insana amicizia. Teme che Giacomo, assaggiato il sapore della libertà scelga di cibarsene per sempre, venendo meno alla carriera ecclesiastica e a quella di filologo. La visita di Giordani a Recanati mette letteralmente il conte sul piede di guerra: “[…] Pietro Giordani. È lui che è stato di malaugurio alla nostra famiglia. La sua venuta è stato il momento in cui i miei figli hanno cambiato pensieri e condotta, quello in cui forse li ho persi per sempre. Fino a quel giorno mai, letteralmente mai erano stati un’ora fuori dall’occhio mio e della madre. Quella canaglia ha eccitato in loro sentimenti contrari ai loro doveri […] Giordani ha messo in contatto Giacomo con vari letterati. Fra questi vi sono spiriti pericolosi e inquieti che lo invitano a partecipare delle loro idee e a coadiuvare, anzi, a farsi primario sostenitore dei loro biechi disegni.” Giacomo controbatte, si addossa ogni responsabilità, ma nulla smuove il “tiranno inesorabile”, nessun ragionamento, nessuna lacrima. All’ennesima richiesta d’aiuto lanciata dal figlio, il padre risponde con parole ancora più severe e castranti: “Ho conservato inviolate la fede e la fedeltà nei padri miei, e le lascerò ai miei figli eredità preziosa. Si può esser libero, anzi deve esserlo chi non è vile, ma le basi e i confini della vera libertà sono la Fede in Gesù Cristo e la fedeltà al Sovrano legittimo. Fuori di questi limiti non si vive liberi ma dissoluti.” Il rapporto tra i due si farà sempre più complesso, al limite della sindrome di Stoccolma: […] E trovandomi lontano da lui ho sperimentato frequentissime volte un sensibile, benché non riflettuto, desiderio di tal rifugio. (dallo Zibaldone, 9 dicembre 1826). A Giacomo, sempre più provato dalle pene della prigionia, non resta che architettare un piano di fuga. Particolarmente indicativo a tal riguardo è questo passo di una delle tante lettere a Giordani: Mio amato Giordani, da marzo in qua mi perseguita un’ostinatissima debolezza dei nervi oculari che m’impedisce non solamente ogni lettura, ma anche ogni contenzione di mente. […] Farò mai niente di grande? Neanche adesso che mi vo sbattendo per questa gabbia come un orso, in questo paese di frati, e in questa maledetta casa dove pagherebbero un tesoro perché mi facessi frate anch’io, mentre volere o non volere, a tutti i patti, mi fanno viver da frate, e con questo cuore che io mi trovo, fatevi certo che in brevissimo scapperò, se di frate non mi converto in apostolo e non fuggo di qua mendicando, come la cosa finirà certissimamente. Il primo tentativo di fuga fallisce a un passo dalla porta di casa, Monaldo, rabbioso, coadiuvato da Carlo Antici (zio di Giacomo), inveisce con un linguaggio ancora più duro: “[…] tu hai cambiato natura con la venuta di Giordani. E non mi sorprenderei che quel miserabile apostata ti avesse anche instillato l’incredulità religiosa.” Lo zio, astutamente, lo colpisce sul fronte dell’arte: “[…] Non il pregio delle vostre poesie, ma il loro scopo ha fruttato gli applausi di tanti liberali. Vostro padre è in dovere di aprirvi gli occhi e farvi capire che i talenti che avete ricevuto da Dio devono essere tesi a contrastare l’abbietto materialismo che dilaga da ogni parte, a combattere le idee rivoluzionarie che appestano l’Italia, a passare dalle belle lettere alle buone lettere.”La figura di Pietro Giordani segna il primo slancio di Giacomo verso l’esterno, il primo assaggio di libertà. Fin dall’inizio li lega un legame molto più assimilabile alla passione che all’amicizia (un sentimento che anni dopo Giacomo vedrà rinnovarsi con Antonio Ranieri). Io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo, - scrive a Giordani nel 1818 (riferendosi al periodo 1811-17) – in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione, e mi sono rovinato infelicemente… La prima uscita pubblica di Leopardi come “poeta civile” avviene nel 1818 con le canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante. Al 1819 risale invece il primo fallimentare tentativo di fuga e, nello stesso anno, la composizione de L’infinito. A questa data Leopardi è proiettato già idealmente fuori da Recanati. A questo punto della narrazione, esaurito il dramma strettamente domestico, i riflettori si accendono sull’arrivo di Leopardi a Firenze, che subito troviamo in compagnia del napoletano Antonio Ranieri. Sono trascorsi dieci anni da quel primo maldestro tentativo di fuga, ora Giacomo è un giovane uomo, e nell’ambiente letterario il suo nome già circola da tempo. Il rapporto che lega Giacomo all’aitante e bellissimo Antonio va ben al di là della semplice amicizia, ma quanto al di là le fonti di cui disponiamo non ci consentono di affermare con assoluta certezza. Condivisero per anni lo stesso tetto, prima a Firenze, poi a Roma e a Napoli, fino all’ultimo soggiorno a Torre del Greco. Ad unirli, lo si desume in modo particolare dalle lettere, fu un sentimento tanto esclusivo quanto controverso. Per sottolineare la natura ambigua di questo rapporto, Martone e di Majo si soffermano sulla figura della bella (e spregiudicata) Fanny Targioni Tozzetti, amata sia da Giacomo (che se ne infatuò) che da Ranieri; l’attrazione tra la nobildonna fiorentina e il bell’Antonio sfociò in una relazione vera e propria, e Giacomo quando lo scoprì ne soffrì molto (e di una gelosia doppia). A Firenze Giacomo e Antonio frequentano spesso il salotto di Carlotta Lenzoni, dove abituali erano, tra gli altri, anche Giordani e la Targioni Tozzetti. Proprio nel salotto della Lenzoni gli sceneggiatori fissano una scena che è particolarmente significativa circa il rapporto tra Giacomo e Antonio; ci riferiamo a Giordani che mostra al trio Giacomo-Antonio-Fanny la statua di Psiche del Tenerani. Qui Giacomo sussurra alla dama: Amava a occhi chiusi, senza vedere chi fosse l’amato… Non c’è favola più bella di Amore e Psiche. Il bell’Antonio Ranieri, sano e prestante, fa da contraltare al corpo sgraziato del poeta. È come se, per il mezzo dell’amico, Giacomo vedesse proiettato un riflesso ribaltato della propria svantaggiata condizione. In Antonio Giacomo può illudersi di riconoscere una propria forza, un vigore, una turgida giovinezza. Noi due siamo una cosa sola. Io non potrei vivere senza di te. Sono parole d’amore quelle che Giacomo scrive ad Antonio, parole che ben disegnano il rapporto di simbiosi che li univa. Dall’Epistolario emergono espressioni ancora più intense: […] Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo, e ancora […] Ricordati, Ranieri mio, che tu, sola, unica, e non compensabile cosa al mondo, rendi possibile a’ miei occhi il vivere che naturalmente mi rimane.I rivolgimenti e le vicissitudini della vita, sempre più provata dalla malattia, corrono paralleli a quelli dell’opera. “Tutto Leopardi lo si può pensare – sono parole di Franco D’Intino (La Sapienza, Roma) – come una gigantesca lotta tra corpo e mente”. Certo subì la malattia ma imparò a gestirla e a farne, per usare una nota espressione di Sebastiano Timpanaro “uno strumento prezioso di conoscenza” (conoscere, sperimentare il dolore su se stessi per riconoscere e comprendere quello dell’umanità intera: non pessimismo nichilista dunque, ma infinito e gratuito amore). Nel Gabinetto letterario fiorentino di Giovan Pietro Vieusseux – un circolo a favore dell’Unità d’Italia, dove si discute di poesia, letterature, politica, scienza – Leopardi viene accusato di ostentare nelle sue opere un’eccessiva disperazione. “La medesima, eterna, insopportabile malinconia, – commenta stroncante Pietro Colletta – gli stessi argomenti, nessuna idea, nessun concetto nuovo. Certo lo stile è bello…” Ad andarci giù pesante (il libro su cui si discute sono le Operette morali) è anche Gino Capponi: “Il nostro secolo ci insegna che la condizione umana si può migliorare di gran lunga da quel che ella è, come è già migliorata indicibilmente da quello che fu.” Chiude il cerchio uno sprezzante Niccolò Tommaseo: “Nel Novecento non ne resterà nemmeno la gobba”. Alle critiche che gli sono mosse Leopardi risponde con rinnovata sincerità: […] con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo e tale mi credo. Al logorio della malattia si aggiunga una situazione economica non proprio rosea; Colletta era riuscito a procurargli un piccolo sussidio annuale, ma furono tante le situazioni di bisogno in cui il poeta venne a trovarsi nella sua erranza un po’ bohémien. Il viaggio di Giacomo e Antonio prosegue verso Roma, ma qui la permanenza fu più breve. Nella città eterna il poeta fa visita a suo zio Carlo Antici nel bellissimo palazzo Mattei Antici. Gli sceneggiatori, nel corso di una cena con gli zii, fissano due punti fondamentali: il continuo bisogno di denaro (lo zio lo rimprovera di dipendere ancora dai suoi genitori) e il progressivo deterioramento della salute che gli impedisce finanche una normale alimentazione. Il mio organismo è talmente debole da non riuscire a sviluppare una malattia forte che mi possa ammazzare. E dunque vivo.Un altro salto temporale e la narrazione prosegue a Napoli. Qui Giacomo è ‘o ranavuottolo, perché il suo aspetto tisico e malaticcio incute diffidenza. L’aria salubre di Napoli dovrebbe recargli sollievo e beneficio, ma presto l’infuriare del colera lo spinge a rifugiarsi in una villa a Torre del Greco. Durante il soggiorno campano Giacomo, scortato dall’avvenente scugnizzo Gennaro, si diletta in brevi gite fuori porta; tra le rovine di Pompei (metafora di un’Italia che non c’è più) il poeta stesso si fa rovina in contrapposizione alla giovinezza virile del suo accompagnatore. Di questo rapporto nulla è esplicitato, ma il sottointeso è al contempo evidente. Durante l’esilio ritemprante in quel di Torre del Greco Ranieri è sempre al suo fianco, e lo sarà fino alla fine. È qui che il poeta compone La ginestra, una delle pagine più potenti e vive della sua opera. Sullo sfondo un Vesuvio altrettanto pulsante, attivo, eruttante, rosseggiante. Quale infelicità? Quale nichilismo? Lottò con tutto se stesso, reagì, desiderò, non smise mai di desiderare la felicità.
Massimiliano Sardina
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 21 – Dicembre 2014.
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