Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte (Claudio Magris, L’infinito viaggiare). Un viaggio seguendo le parole, per provare a raccontare un libro davvero molto bello.
E’ una curiosa coincidenza, ma da qualche settimana sto leggendo, un pezzetto alla volta, l’Infinito viaggiare, di Claudio Magris, balzato alle cronache negli ultimi giorni perché incluso fra le tracce della maturità. E’ un libro che ho scelto di iniziare mentre prendevo la via di un viaggio nei Balcani occidentali. Una scelta naturale, perché assieme al concittadino Paolo Rumiz è uno dei pochi autori che guarda alla strada che dall’Italia va verso la mitteleuropa e a oriente. Guarda a quei Balcani che Rumiz, scrivendo della guerra degli anni ’90 in Maschere per un massacro, non riesce a trovare. In viaggio verso est si accorge di come il confine venga sempre spostato più in là, in tutti i Paesi, fino a perdersi del tutto. “E allora – scrive – chissà che i Balcani non siano proprio in questa falsa sicurezza, in questa presunzione di diversità”.
Udaipur, India
(foto di Patrick Colgan)
Nel libro Magris raccoglie pagine scritte in molti paesi, dall’Europa alla Cina in una prosa densa di dettagli e paesaggi, sui quali domina e ritorna il mare, ma soprattutto densa di riferimenti letterari e storici. Perché le lettere, la storia, la natura la presenza di altre culture, altre persone, e il nostro sentire sono intimamente connessi, inscindibili dai luoghi fisici, che sono un tutt’uno con essi e se provassimo a raccontarli da soli troveremmo con delusione che non sono altro che muti spettatori, indifferenti alle vicende che ospitano. A Magris non sembra interessare quella che Franco Michieli definisce ‘la scrittura della natura‘, ma quello dell’esploratore è un modo di intendere il viaggio distante solo in apparenza. Osserva dettagli diversi, ma il suo cuore è lo stesso.
Durante i miei viaggi finii per convincermi che i desideri e le aspirazioni degli umani fanno parte della terra come il vento, gli animali solitari e le fulgide distese di pietra e di tundra. E mi convinsi anche che la terra esiste completamente separata da tutto questo. (Barry Lopez, Sogni artici)
Se il viaggio è incontro e conoscenza, scrivere di viaggio è un modo per confrontarsi con la realtà, forse l’unico per non fermarsi ai segni di superficie, scrive Magris nell’introduzione, una splendida lezione sull’argomento.
Il viaggio-scrittura è un’archeologia del paesaggio; il viaggiatore – lo scrittore – scende come un archeologo nei vari strati della realtà, per leggere anche i segni nascosti sotto altri segni, per raccogliere quante più esistenze e storie possibili e salvarle dal fiume del tempo, dall’onda cancellatrice dell’oblio (Magris)
Viaggiare è un’esperienza interiore, un processo di conoscenza che non può mai avere fine. E lo spostarsi incessantemente, rapidamente, vedere i luoghi affastellarsi senza sosta può essere vacuo, inutile. Non è nei chilometri percorsi che si misura il proprio viaggio. L’incontro con l’altro spesso serve a portare alla luce ciò che è latente, che forse avevamo con noi già sulla soglia di casa, senza saperlo.
Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere, l’emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell’attimo ma accolto come proprio. Per vedere un luogo occorre rivederlo. Il noto e il familiare, continuamente riscoperti e arricchiti, sono la premessa dell’incontro, della seduzione e dell’avventura; la ventesima o centesima volta in cui si parla con un amico o si fa all’amore con una persona amata sono infinitamente più intense della prima. Ciò vale pure per i luoghi; il viaggio più affascinante è un ritorno, come l’odissea, e i luoghi del percorso consueto, i microcosmi quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca. “Perché cavalcate per queste terre?” chiede nella famosa ballata di Rilke l’alfiere al marchese che procede al suo fianco. “Per ritornare” risponde l’altro (Magris)
Certo viaggiare non è solo questo e nemmeno il viaggiatore più sensibile può sottrarsi alla sua dimensione ludica o alla tentazione dell’immoralità, quando ci si confronta con situazioni difficili e dolorose.
(Il viaggio è) di ricerca, ma è pur vero che ogni viaggio, anche il più appassionato, è sempre pausa, fuga, irresponsabilità, riposo da ogni vero rischio (Magris, intervista di Franco Marcoaldi).
L’infinito viaggiare (Mondadori)
La scelta di includere Magris in una traccia della maturità ha sorpreso tutti perché lo scrittore triestino non è in alcun programma di studi, e non potrebbe essere altrimenti. Concentrandosi sull’autore – che non è un delitto non conoscere, anche se notissimo (scrittore, editorialista, intervistato in tv, anche da Fazio, per dire) – non si è però parlato del brano proposto, che era davvero molto bello. L’analisi del testo mette soggezione, e affrontare un autore sconosciuto mette ansia, alla maturità.
Ma che peccato non avere avuto una traccia così quando all’Esame di Stato andai io. Il testo proposto è davvero denso di spunti. Riporto tutto in fondo a questo post, ma la mia frase preferita, dove sta forse la chiave di tutto il libro, e del viaggiare, è l’ultima,quando in mezzo al percorso che abbraccia la vita intera, lo scrittore smarrisce il bagaglio di convinzioni che portava con sé.
Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte o in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo. (Magris)
Se c’è un vero punto di arrivo del viaggio, è perdersi su quel ponte. Per poi, subito, ripartire.
Il ponte di Mostar
Il testo completo proposto alla maturità