Da questo punto di vista, è un mirabile invito alla profondità di pensiero, tanto da farmi render conto che essermi sottratto per tanto tempo alla sua vista, mi ha privato di strumenti altrimenti preziosi, in ciò mettendo a nudo i miei limiti: di conoscenza e di sensibilità. Plasticamente.
Me ne rammarico (per me). Peccato dunque che non ne abbia avuto memoria nella scuola, anni ormai sfuggiti: non ebbi notizie. Sì, qualche cenno, forse. Niente di grave, per carità, si può vivere senza. Però ho avvertito di colpo, va detto, come un’assenza retrospettiva. Come se la mancata lettura dell’Ulisse avesse creato un vuoto che avrei dovuto, seppur tardivamente, sentirmi in obbligo di colmare.
Compito dello scrittore credo sia quello di usare la parola per un’operazione creativa di rivelazione. Parlo in primo luogo di chi scrive sulla post-realtà o sulla meta-realtà, cioè a dire sulle cose difficilmente controllabili (o del tutto incontrollabili), su quelle variabili non misurabili come la vita, la morte o il dolore, la felicità o il conflitto insolubile eccetera.
Certo, la narrazione è anche illusione e, per citare ancora Calvino, un’illusione di trasparenza intorno a un nodo di rapporti umani che è quanto di più oscuro crudele e perverso. Ma qui entra in campo il lettore consapevole che non si limita a uno sforzo cortese per intrattenere o essere intrattenuto domandandosi cosa dice un libro, ma penetra il suo sguardo per scoprire cosa vuole dirci quel libro. E nel caso dell’Ulisse di Joyce questo lavorio è tanto più necessario tanto vorrà, il nostro lettore, cogliere le sollecitazioni e gli stimoli che allargheranno il suo campo visivo sulle cose, la sua visione delle cose sul mondo, la stessa visione del mondo.
Se decidi di leggere Joyce devi sapere però che avrai a che fare con un’impresa ardimentosa, quasi quanto quella che affrontò Ulisse… Mi sono reso conto quanto sia indispensabile affiancare a una lettura tanto impegnativa un testo-guida che sia di supporto critico e interpretativo. L’edizione che ho in mano ne possiede una, mirabilmente curata e preziosa: è stato il mio Navigatore. Senza di esso non avrei potuto neanche intraprendere la rotta: ti orienta, t’indirizza, ti consiglia, ti fa cambiare direzione se stai per infrangerti sugli scogli. La guida, cioè il mio Navigatore, è strumento necessario, a mio avviso, perché introduce il tradizionale lettore ai principi che hanno informato la stesura dell’opera secondo diversi gradi di lettura, rilevando la complessità dell’opera; allo stesso modo, il lettore più sofisticato ne apprezzerà le analogie e le correlazioni col modello omerico, così come le soluzioni linguistiche e i giochi narrativi escogitati.
Da Omero in poi, lo schema si è evoluto, ma se andiamo a ben vedere dentro noi stessi, la nostra esistenza cos’è, se non un viaggio che cerchiamo di perpetuare all’infinito? Quel posto dove cerchiamo e scegliamo i nostri compagni d’avventura, il luogo dove facciamo i nostri incontri più o meno occasionali per scegliere lo scalo e scendere dal treno alla stazione che ci sembra più giusta o più opportuna. Una strada che condurrà alla stessa ambita meta, quasi sempre casa nostra. Là dove trovare un caminetto acceso, un cuore che ci scalda, un equilibrio interiore, una calma ritrovata, un dio o un santo gral. Eppure. Eppure tornati a casa, e ritrovato quel caminetto acceso, ci accorgiamo che il viaggio non è ancora giunto al suo termine. Anche Ulisse, tornato dalla sua Penelope, la mette sull’avviso dicendole che sta per incamminarsi per un’altra avventura. È l’infinito viaggiare l’istinto di sopravvivenza che ci guida: vivere è come viaggiare. Forse la dimensione del viaggio, che è la vita, è anche una dimensione d’incompiutezza. Sappiamo, anche se facciamo finta di non esserne consapevoli, che tutto alla fine del nostro viaggio si compirà. Sarà per noi come l’arrivo su quella sponda di pietra chiamata morte, un’estasi d’addii. La vera fine.
Ma l’Ulisse di Joyce parla all’uomo moderno. Al piccolo borghese comune, positivo, sensuale e inefficiente della nostra epoca. Parla di ognuno tra noi. Joyce accorcia lo sguardo non sull’intera esistenza di Bloom, ma lo segue attraverso le strade di Dublino per la lunga giornata del 16 di giugno. Niente di clamoroso accade. Se Ulisse è l’epopea, Bloom è la nevrosi; se Ulisse è la quintessenza della fedeltà, Bloom tradisce e viene tradito, tira a campare in una città che non sente sua. Disperata. Come se la normalità, anche quella più insignificante e con i suoi riti quotidiani, entrasse nell’epica. Come se Joyce volesse guardare al microscopio l’infinito che c’è nel finito delle cose.
L’epica di Ulisse-Bloom è un prisma a molte facce. È l’epica del corpo umano, come riferisce un’affermazione dello stesso Joyce, la rivelazione dell’interezza e complessità della figura umana nella quale s’incarnano più tematiche: la ricerca del padre e del figlio, l’esilio, il ritorno, il pensiero della morte. È il viaggio tormentato nella mente dell’uomo e il riferimento a Odisseo appare a tratti pretestuoso, come pure incomprensibile per gli stessi studiosi.
Featured image, James Joyce nel 1915.
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