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(L'infinito) viaggiare in Salento

Creato il 27 giugno 2013 da Antonio

Tu non conosci il Sud, le case di calce
da cui uscivamo al sole come numeri
dalla faccia d'un dado.

Vittorio Bodini, Foglie di tabacco (1945-47)

In quel Tu non conosci sento l'eco di Tu non ricordi. In Bodini la casa dei doganieri di Montale diventa il Sud e noi, gente del Sud, diventiamo i numeri dei dadi, che il calcolo più non torna.


Un viaggio al sud è un viaggio metafisico. Quando ti metti in viaggio verso sud, qualunque sud, non ci vai per raggiungere una destinazione geografica, ma paesaggi della memoria, paesaggi che la storia e gli incidenti del tempo possono aver sbiadito, a volte rimosso, ma che si ripresentano ogni volta che guardi a sud.
Ogni sud è memoria rappresa che assume forme diverse e nel Salento quelle forme sono gli alberi di ulivo e i cippi delle viti, la calce che si stacca dai muri, i muretti a secco e le strade di campagna, i visi bruciati dal sole dei vecchi contadini e dei pescatori, le mani nodose e i vestiti neri delle antiche donne in lutto, i suoni duri del mio dialetto a denti stretti e senza tempo futuro, la voce del mare che abbraccia questa terra, il vento che la sferza e la luce che pare di carne cruda, come diceva Bodini, il sole che sanguina e le litanie campestri delle cicale, che pregano ancora perché questa terra si salvi.



Una volta che sei stato al sud, in qualunque sud, te lo porti dietro e lo vedi ovunque, perché il sud non è un posto fisico ma un paesaggio dell'anima.


Sono tanti i posti del Salento di cui potrei parlare ma mi soffermerò solo su alcuni con qualche nota personale, dei suggerimenti per niente esaustivi di quanto si può visitare e soprattutto di quanto si può dire. Il titolo del post del resto, con quell'infinito tra parentesi, ha duplice valenza, di citazione del bellissimo libro di Claudio Magris e di non finito, perché questo post, come ogni viaggio a sud, non potrà mai dirsi finito. In questi appunti seguirò idealmente il percorso di un viaggiatore della seconda metà del 700, salvo abbandonarlo quando l'occasione lo richiede.

""Perché cavalcate per queste terre?" chiede nella famosa ballata di Rilke l'alfiere al marchese che procede al suo fianco. "Per ritornare" risponde l'altro." Claudio Magris, L'infinito viaggiare.

(L'infinito) viaggiare in Salento

Gallipoli, con la città vecchia dall'anima metà genovese e metà napoletana, a metà strada tra le città di mare e le città sul mare, ma per capire la differenza devi aver visitato Genova e Napoli.

Di parere diverso Cesare Brandi, viaggiatore senese, che scriveva "L'acqua non entra in Gallipoli: i bastioni non lo permettono. Resta, Gallipoli, una città di terra, avventurata sul mare, circondata dai suoi bastioni come un bambino nella carriola".
La vecchia Gallipoli è tutta al di là del ponte che la collega alla terra. Non attraversatelo in auto se non volete ricevere multe.

Di questa propaggine di terra in mare Johan Hermann von Riedesel, barone di Eisenbach, nel suo viaggio in Puglia nel 1767 scriveva all'amico J.J. Winckelmann: "E' una piccola città, di 8.000 abitanti, dei quali molti son ricchi; del resto, è molto ben costruita, come Taranto e Siracusa; è distaccata dalla terra, e forma, quasi, un'isola, unita al continente per mezzo di un ponte".

A darvi il benvenuto a Gallipoli troverete il vento perché "se Gallipoli non ha il vento lo prende in prestito", ma è così per tutto il Salento, terra te mare, te sule e te jentu e, come dice il mio amico Ernesto, "da noi per andare al mare ci si sposta in funzione del vento: con lo scirocco Adriatico e si vede l'alba sul mare, con la tramontana meglio lo Ionio e il tramonto sul mare."



(L'infinito) viaggiare in Salento
Sul molo davanti al castello, prima di attraversare il ponte, visitate l'antica fontana. L'amore di campanile la vuole greca, ma molti la attribuiscono al XVI secolo, sebbene la salsedine ne abbia consumato i bassorilievi da farla sembrare molto più antica. Poco più avanti, verso lo sbocco a mare c'è il Santuario di Santa Maria del Canneto che ogni mattina augura il buon rientro ai pescatori che vanno per mare.

Attraversando il ponte fate una passeggiata verso il mercato del pesce, lungo la strada con le baracche che vendono conchiglie e sculture in pietra leccese e carparo. Il mercato del pesce un tempo brulicava di pescialuri che urlavano la freschezza del loro pescato, oggi ne restano pochi, ma se aguzzate le orecchie riuscirete a sentire ancora quei richiami che si levavano dietro i banchi di pesce fresco e frutti di mare e si sovrapponevano l'uno all'altro come antifone in fuga, archi rampanti di voci che sostenevano cattedrali di sapori già immaginati con quello che si sarebbe portato a casa, dopo attenta selezione.

Giorno di mercato

Parole urlate
negli incroci di tempo
roba bella, roba buona.

Scaglie di pesce,
da lontano
sono perle
seccate al sole.

Più tardi
acqua lava le strade,
di scaglie e perle
nemmeno una traccia.

Vale la pena perdersi nei vicoli stretti di Gallipoli e soffermarsi davanti alle facciate dei suoi numerosi palazzi e sotto i loro balconi, ma soprattutto vale la pena soffermarsi sul ciglio delle case botteghe, dove si intrecciano ancora canne, vimini e giunchi di palude e le nasse per la pesca sono fatte a mano, lavoro di paziente artigianato che procede lento, come atto rituale che ripercorre e imita l'ordito del creato. Dèi in esilio, questi ultimi re pescatori fanno sorgere le loro creazioni intorno al nulla, stretti tra le vecchie mura bianche di calce, cantava Pierangelo Bertoli.



Tipico del tessuto urbano di molti paesi del Salento sono le case a corte. Ve ne sono di diversi tipi e anche a Gallipoli se ne possono vedere alcune. Nelle case a corte di Gallipoli gli spazi aperti e chiusi si annodano architettonicamente e la corte diventa piazza, luogo collettivo, fonte di luce e di aria. Nella corte gallipolina spesso i vani a funzione abitativa sono al piano superiore, collegati allo spazio aperto della corte con scale in muratura, mentre nel piano inferiore si trovano vani da destinare al lavoro. Quando si lavora si scende in basso, quando si vive in famiglia si va in alto.

Il barone di Eisenbach fu particolarmente entusiasta di Gallipoli e nella Cattedrale di Sant'Agata restò colpito dai dipinti di Giovanni Andrea Coppola e delle sue tele annota "quello che rappresenta il miracolo di S. Francesco di Assisi è nello stile severo del Guercino; nel martirio di S. Agata si riscontra il fuoco della composizione e tutto l'entusiasmo del Tintoretto...", forse i paragoni sembreranno un filo azzardati, ma non abbiamo motivo di dubitare dell'entusiasmo del Riedesel davanti alle tele del Coppola se quel trasporto gli fece confondere il miracolo di S. Francesco di Paola con quello del poverello di Assisi! Il Barone ravvisò nelle tele del Coppola il tratto di un pittore che operava in Francia ma trovava le tele di Gallipoli di gran lunga più raffinate. Il conte Coppola, discendente del pittore, sicuramente non volle contraddire il suo illustre ospite e gli riferì che il proprio antenato, una volta stabilitosi in Francia, aveva cambiato il nome da Coppola in Coypel (Charles Antoine). Si trattava di una innocua menzogna, ma perché contraddire un ospite così generoso di complimenti? Il Coppola non fu il solo pittore ad accendere il fervore estetico del barone di Eisenbach. Nelle tele del Catalano ravviva "la maniera del Parmigianino".

Riedesel fu davvero felice della sua visita a Gallipoli e alla partenza confessò "Avrei viaggiato, ancora più a lungo con gente così onesta e servizievole, così buona, e, d'altra parte, i migliori marinai, ed i più esperti per i piccoli bastimenti. Per mostrarvi quanto è fondato l'elogio, che ve ne ho fatto, basterà dirvi che, durante tutto il corso del viaggio, non mai vi è stata la più piccola contestazione, la più piccola causa di dispiacenza, tra questa brava gente e me...". Chissà se l'apprezzamento del barone per i marinai gallipolini sarebbe valso anche per la nobiltà locale, qualora avesse scoperto lo scherzo giocatogli dal conte Coppola. "...Mi è sembrato di scorgere, in questi costumi tanto dolci, in quei nasi schiacciati, nelle grosse labbra, nelle folte sopracciglia e nelle barbe, i tratti caratteristici degli Arabi, con i quali hanno comune la fedeltà, che è un vanto di quella nazione". Nelle sue lettere il barone coglie molti tratti della gente di Gallipoli e del Salento, eppure altrettanto gli sfugge e non potrebbe essere altrimenti se per cogliere il carattere della gente di qui non basta un breve viaggio e l'erudizione non è di alcun aiuto. Il barone ravvisa l'accoglienza gallipolina, ma non si avvede dell'altra metà del carattere che è la diffidenza. Nessuna metà può essere separata dall'altra. L'ospite è sacro ma meglio avere prudenza. E' nel carattere del salentino una accogliente diffidenza, oppure una diffidente accoglienza, antinomie, come il dolce-salato della cucina siciliana, tipiche delle isole, non solo geografiche ma culturali, delle terre di conquista, arse dal sole, terre periferiche ad ogni centro, visto sempre come qualcosa di irraggiungibile. E' una visione destinale quella del salentino, come quella del siciliano e del calabrese, visione che nasce dalla storia, ma a fatica vi si attiene perché la storia non può bastare, e poi la storia la fanno sempre altrove. E' una visione destinale quella del salentino e non poteva essere altrimenti in una terra il cui dialetto non dispone del tempo futuro per i verbi, che possono essere tradotti solo con un categorico indicativo del verbo o con l'indicativo del verbo avere usato come il verbo dovere. Domani partirò, diventa crai partu oppure crai aggiu partire, che letteralmente sono domani parto e domani devo partire. Singolare somiglianza con una delle forme del verbo dovere in inglese, perché la traduzione letterale corretta di crai aggiu partire è I have to leave tomorrow, ma gli inglesi dispongono del tempo futuro, noi no. Se è vero che l'uomo abita il proprio linguaggio, allora la casa di noi salentini è senza futuro.

Da queste parti non sono mancate invasioni/colonizzazioni di ogni origine. A partire dalla locale popolazione messapica si sono succeduti greci, romani, bizantini, ostrogoti, normanni, svevi, angioini, aragonesi, i Borboni, e poi i Savoia, fascisti, e alla fine democristiani, forzaitalici e pidiellini! Tutti, da queste parti ci sono passati proprio tutti ed evidentemente non con la stessa capacità di lasciare tracce significative nella cultura locale.

Da Gallipoli vale la pena percorrere circa 18 km lungo la litoranea fino al Parco di Porto Selvaggio e Torre Uluzzo. Può essere faticoso arrivare fino al mare, si parcheggia l'auto sulla strada e poi si scende a piedi attraverso la pineta fino alla caletta, per Torre Uluzzo tocca avere una certa familiarità con gli scogli perché in alcuni tratti la passeggiata può essere impervia ma la scogliera, la macchia e il mare che si possono vedere fanno dimenticare la fatica.



Se verrete da queste parti non dimenticate di rivolgere un pensiero a Renata Fonte che è stata uccisa perché ha difeso questa bellezza dalle speculazioni edilizie. Non tutto è idillio da queste parti, non lo è mai stato e ancor meno lo è oggi. Disastri ambientali, pensate a Taranto, e abusi edilizi se ne contano a iosa, gli alberi di ulivo secolari vengono sradicati o bruciati per lasciare il posto a strade asfaltate e pannelli solari, passeggiando per le campagne capita di vedere rifiuti di ogni tipo accatastati a bordo strada e gli ecomostri non mancano. Un ecomostro è in marina di Alliste, lungo la litoranea tra Gallipoli e Porto San Giovanni. Un bubbone con il nome del mare che bagna queste coste. Ogni volta che passo da quelle parti cerco di guardare altrove e sogno gigantesche ruspe che lo abbattono, ma torniamo a Porto Selvaggio.

Il Parco di Porto Selvaggio ricade nel territori di Nardò che dista meno di 10 km dal parco. Nardò, insieme a Gallipoli, è sempre stata sede diocesiana e questo ne ha fatto uno dei centri architettonicamente più belli del Salento. Fosse solo per vedere Piazza Salandra una visita la merita tutta.


Santa Maria di Leuca. È qui che i salentini dopo morti / fanno ritorno, diceva Vittorio Bodini, cantore di un sud surreale e per questo ancora più vero. Finibusterrae, questo è il nome di questo estremo lembo della Puglia, dove la terra finisce e l'Adriatico incontra lo Ionio.

Finibusterrae

Vorrei essere fieno sul finire del giorno
portato alla deriva
fra campi di tabacco e ulivi, su un carro
che arriva in un paese dopo il tramonto
in un'aria di gomma scura.
Angeli pterodattili sorvolano
quello stretto cunicolo in cui il giorno
vacilla: è un'ora
che è peggio solo morire, e sola luce
è accesa in piazza una sala da barba.
Il fanale d'un camion,
scopa d'apocalisse, va scoprendo
crolli di donne in fuga
nel vano delle porte e tornerà
il bianco per un attimo a brillare
della calce, regina arsa e concreta
in questi umili luoghi dove termini,
meschinamente, Italia, in poca rissa
d'acque ai piedi d'un faro.
È qui che i salentini dopo morti
fanno ritorno
col cappello in testa.

Vittorio Bodini, Dopo la luna (1952-55).

Della Basilica o Santuario di Santa Maria de finibus terrae Francesco Pirreca, canonico di Alessano, scriveva nel 1643 "sita e posta nell'ultimo confine d'Italia, nel Regno di Napoli. Nella Provincia di Otranto; prima chiamata Iapigia, e Messapia, nel Promontorio di Leuca, altrimenti Promontorio Salentino (così detto per li popoli Salentini, che in questa parte habitavano); e come Tito Livio, Promontorio di Minerva; luogo cognito fin dagli antichi tempi; poiché in quello era il famoso, e ricco Tempio dedicato alla Dea Minerva, e al Dio Marte". All'interno della Basilica c'è ancora, subito attraversato il portico interno, un blocco monolitico con un'incisione che ricorda il precedente culto del luogo, i tempi cambiano e anche le divinità si danno il cambio.
Il piazzale della Basilica è incantevole, con la torre del faro, gli archi e la scalinata monumentale di 284 gradini che dalla Basilica porta al tratto terminale dell'Acquedotto Pugliese.

Scendendo dal Santuario non si possono non ammirare le ottocentesche ville di Leuca: villa Episcopio, Mellacqua, Meridiana e tante altre. Ville con elementi spesso arabeggianti, forse espressione di un gusto esotico allora emergente, oppure segno atavico di una cultura che non faceva altro che ritornare in posti che aveva conosciuto un tempo.

Consiglio vivamente di andare al porto turistico e chiedere di fare un giro in barca, troverete chi fa questo continuamente e vi accompagnerà a vedere le coste ioniche e adriatiche costellate di grotte. Molte grotte sono siti paleolitici di notevole importanza, come la grotta del Diavolo.



Ad appena 6 km da Leuca c'è Patù dove, nella zona di Campo Re, trovate il complesso monumentale di Centopietre del IX-X secolo e la Chiesa di S. Giovanni Battista del XII secolo. Se volete addentrarvi ancora di più nel Capo allora ad appena 3 Km da Patù c'è Barbarano con la Leuca piccola, antica stazione di riposo per i pellegrini in cammino verso il finibus terrae per ricevere l'agognata indulgenza plenaria che la visita al santuario assicura ai suoi ospiti fin dal 343, anno della sua consacrazione.

Lasciando Leuca potete percorrere la litoranea adriatica fino a Otranto, tratto di scogliera assolutamente da vedere, anche solo in auto. Incontrerete Castro e Santa Cesarea, con le sue terme sulfuree. Tra Castro e Santa Cesarea c'è la meravigliosa Grotta Zinzulusa. Dalle mie parti i zinzuli sono gli stracci e in questa maniera chiamiamo le stalattiti. La grotta può essere visitata anche dal mare.



Lungo la litoranea vedrete decine di torri costiere di avvistamento, la maggior parte risalenti al XV secolo, testimonianza che questa terra doveva stare molto attenta a chi veniva dal mare.

Ma quello che mi riempie di ammirazione di questa litoranea sono i muretti a secco che fanno da argine alla salsedine marina che rovinerebbe le colture. Alcuni muri sembrano le porte di Magritte. Molti continuano a lottare con la salsedine e sono diventati ragnatele di pietra che si lasciano vedere quasi in trasparenza e che " un prodigio ancora tiene" in piedi, come restava attaccata la foglia di Umberto Saba.

"Il muro si difendeva così dalle scalate; ma, più che dell'irto delle spine, si giovava della sua stessa debolezza, essendo forte come certi uomini, da cui bisogna star lontani, perché rovinano addosso a chi li tocca.", così scriveva Luigi Corvaglia nelle prime pagine di Finibusterre, nel 1936. "La storia di Finibusterre è così poco storia, e tanto cronaca, e la cronaca così poco conosciuta, che non farà a pugni con la fantasia", diceva Luigi Corvaglia nel suo romanzo. Cercatelo quel romanzo, leggetelo, capirete molte cose dell'anima salentina. Ne ho una copia che mi fu regalata molti anni fa dalla figlia del Corvaglia e se qualcuno me la chiedesse sarei disposto a trascriverla pur di non darla in prestito.

Prima di arrivare a Otranto c'è Porto Badisco, dove si dice sia approdato Enea in fuga da Troia. Qui c'è la Grotta dei Cervi con pitture rupestri di epoca neolitica realizzate con guano di pipistrelli, la grotta non è accessibile al pubblico ed è facile capirne il motivo.


Otranto, la Bisanzio d'Italia, porta aperta tra Oriente e Occidente. Da Bisanzio, tra il VI e l' XI secolo ne aveva ricevuto lingua, liturgia, spiritualità e strutture greche. Era capoluogo di provincia ma una volta conquistata dai Normanni nel 1069-70 diventa terra di confine contro la stessa Bisanzio. E' in questo crinale della storia che nasce la Cattedrale, come ponte per greci e normanni.



A Otranto il Riedesel resta colpito dalle splendide colonne della cripta della Cattedrale, non una vera cripta perché riceve luce naturale. Ed aveva ragione a stupirsi ma è altrettanto sorprendente che il barone nelle sue lettere di viaggio non faccia alcuna menzione del mosaico pavimentale della Cattedrale. Viene il sospetto che la sua visita a Otranto sia stata troppo frettolosa, altrimenti verrebbe da pensare che non ci sia mai stato!
Nella cripta ci sono 42 colonne monolitiche diverse per qualità di marmo, stile, tempo e luogo di provenienza, sormontate da altrettanti capitelli differenti. La diversità è una sintesi delle culture che qui dovevano incontrarsi. Vale la pena di soffermarsi sui capitelli, è un viaggio nella storia dell'arte antica del mediterraneo fino all'XI secolo.
Il viaggiatore meno distratto del barone di Eisenbach, entrando nella Cattedrale, resterà colpito dal mosaico che qualcuno teorizza possa aver ispirato la Divina Commedia di Dante e altri leggono in chiave gnostica. Il mosaico si sviluppa lungo le tre navata della cattedrale, il presbiterio e l'abside ad opera del monaco Pantaleone che eseguì anche i mosaici pavimentali di Brindisi e di Taranto. Il mosaico è la storia del mondo noto all'epoca, dove racconti biblici si mescolano con quelli mitici e storici. Le vicende spirituali si alternano a quelle pagane, allegorie e simboli si rincorrono, scene di vita quotidiana e concetti sapienziali si intrecciano. Tutto concorre a stabilire la storia umana che si sviluppa lungo un gigantesco albero della vita.
"Un insieme in cui non sappiamo cosa ammirare di più: se il suo ordine grandioso o la sua prodigiosa diversità", come dice Grazio Gianfreda.



In fondo alla navata destra della Cattedrale c'è la cappella dei martiri di Otranto, è una visione piuttosto forte, ma del resto la storia non si è mai curata di essere troppo tenera da queste parti.

Nel percorso da Otranto a Lecce il barone von Riedesel registrò i resti della via Appia che da Brindisi arrivava fino a Otranto, con tombe ai lati. Oggi quelle testimonianze sono state sepolte dal tempo o sono custodite nei musei di Terra d'Otranto.
Lungo il tragitto si incontra Martano, cuore della Grecìa Salentina, un'isola linguistica di matrice greca. Oggi quell'isola linguistica è di nove comuni ma fino al XIV secolo era estesa da Otranto a Gallipoli. Nella grecìa salentina le case a corte sono una caratteristica distintiva. Se potete visitare almeno un paese consiglio Soleto con la guglia, tra i più significativi esempi del tardo gotico meridionale, e la chiesa di S. Stefano. Una menzione particolare merita Melpignano e la spianata con il complesso della Chiesa e Convento degli Agostiniani, dove ogni anno si conclude la rassegna itinerante di musica salentina " La notte della taranta". Melpignano ha avuto il grande merito di risvegliare la musica salentina, ma è importante ricordare che la taranta non è solo musica per i salentini, è molto di più, ma per il tarantismo rimando al magistrale saggio del mio amico Fabrizio che fa risuonare i ritmi e le memorie delle tarantate sulle sponde del Tamigi.

Passi lenti per strade strette,
fruscio d'erba secca
di lucertole spaventate.

Sole che scalda e morde,
terra rossa di memoria.

Mare che abbraccia e soffoca,
terra azzurra di paura.

Vento che accarezza e sferza,
terra bianca di fatica.

Al ritmo di una taranta,
ninna nanna sfrenata,
la morte s'assopisce,
sogna di secoli fermi.
Artificio di grano
porta pane e liberazione.

Salento, terribile meraviglia,
non so dire se ponte interrotto
o isola mancata.
Una bestemmia sale al cielo
per benedire questa terra.


Riedesel nel suo cammino verso Lecce annota che "il paese è molto ben coltivato, e sembra un giardino continuo."
Quando passeggio per le campagne con mio padre, guardando la campagna incolta lui dice "quando ero giovane la campagna era un giardino continuo, era come se noi contadini si facesse a gara, e oggi, guarda cosa è diventata". Per un contadino la terra è una donna appena sposata, una donna bella e terribile ed è sempre il primo giorno di matrimonio, ma per un contadino i figli nati da quel matrimonio non devono diventare contadini, non più, perché il contadino è un mestiere duro che nessuno riconosce. Mio nonno con i suoi 85 anni cura ancora la sua piccola campagna, quando sono con lui mi dice "guarda che bel giardino è adesso, quando non ci sarò più l'erbaccia arriverà fin sulla strada" e io... io non so cosa dire.


Lecce, città barocca per antonomasia, ma il barocco leccese ha connotati diversi da quelli descritti nei libri di storia dell'arte. Non è solo una questione di canoni artistici, è una faccenda più complessa. Il barocco del sud non è solo teatro, è l'espressione di una rivolta metafisica. In L'uomo in rivolta Albert Camus scriveva che "la rivolta metafisica è il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione e contro l'intera creazione", e scriveva che "la rivolta svolge la stessa funzione del "cogito" nell'ordine del pensiero: è la prima evidenza". Sono passaggi essenziali per capire il barocco delle terre periferiche come il Salento o la Sicilia. Qui le facciate delle chiese urlano "Guarda cosa facciamo per te? E tu? Cosa fai per noi?" Il barocco a Lecce, come a Noto o a Siracusa è una sfida a Dio. Il barocco del sud è la generosità di chi vive ai margini davanti all'indifferenza di Dio, non è mai virtuosistica chiacchierata da salotto, come può accadere per il barocco che potete vedere altrove.



"Lecce è, dopo Napoli, la più bella e la più grande città del reame", così ancora il Riedesel che però ebbe modo di esprimere anche qualche rimostranza nei confronti della città, lo vedremo a suo tempo. Continuava Riedesel "vi si fabbrica un tabacco, la cui foglia si coltiva al capo di S. Maria (Leuca), in un terreno sabbioso. La qualità di questo tabacco non la cede per niente, a quello di Siviglia, ma bisogna lasciarlo invecchiare otto anni prima di usarlo. [...] Ai possessori dei fondi non è permesso, se non di coltivare un numero determinato di piante, sulle quali egli paga un diritto al Re, valutato un tanto, per ciascuna pianta, tutto quello che si coltiva in più è ritenuto contrabbando e sequestrato dall'appaltatore, quando viene a fare la sua visita."
Mi sono soffermato sul tabacco perché dalle mie parti il tabacco è, o è stato, un elemento centrale della nostra cultura che si è sempre intrecciata con le nostre colture. Le coltivazioni di tabacco oggi non ci sono più ma, ancora bambino io le ricordo bene. Un tempo in Salento, oltre all'ulivo e alla vite, si coltivavano cotone, lino, canapa, coltivazioni ormai sparite e di cui si è persa la memoria ma del tabacco tutti hanno un chiaro ricordo, per le lotte operaie che si sono avvicendate intorno a questa coltura, per i fatti di sangue che hanno segnato questa terra e per il ruolo fondamentale delle donne nella coltura e nella preparazione del tabacco. Consiglio la visione di questo straordinario documentario, dove la gente di Fontamara si alterna ai don Circostanza, inclini a vedere l'idillio anche dove c'è l'abuso e la miseria.

Fu abbastanza frettoloso anche a Lecce il Riedesel, riguardo alle chiese si soffermò brevemente sul Duomo, sulla chiesa dei Gesuiti, dei Teatini (più nota oggi come Chiesa di Sant'Irene), delle Carmelitane e dei Celestini, oggi sede degli uffici della Provincia. Accanto all'ex convento dei Celestini Riedesel aveva la Santa Croce, ma non ritenne necessario considerarla. "La facciata della chiesa dei Gesuiti, e quella dei Teatini sono le migliori, le meno cariche di ornati", fu il lapidario commento del barone. Non amava il barocco il Riedesel e per un intellettuale prussiano di gusto neoclassico è comprensibile, non aveva la metafisica necessaria per ascoltare l'urlo del barocco leccese.
Il barone concluse la sua visita a Lecce con un impietoso ritratto della città e dei suoi abitanti. "Non mi rimane a dirvi niente, su quanto Lecce contiene di notevole, né in quanto alle cose né in quanto agli uomini; perocché vi confesso che in tutta la Sicilia ed in tutto il regno di Napoli, io non ho trovato città, e neppure villaggio, in cui io abbia trovato tanta poca gente istruita, e dotata solamente di spirito naturale", l'astio del barone per i leccesi è reso evidente dai dati dell'epoca che presentavano Lecce come una delle città più istruite e vivaci del tempo, ma continuiamo con il resoconto di Riedesel che fornisce simpatiche spiegazioni del suo convincimento, "il che può derivare dal gran numero di nobili oziosi, orgogliosi e poveri, che l'abitano". Secondo me il Riedesel ha avuto modo di rendersi conto dell'inganno del Conte Coppola a Gallipoli, ma ormai era troppo tardi per rettificare la sua lusinghiera considerazione dei gallipolini, per cui si è rifatto in durezza con i nobili leccesi. Continua il Riedesel in un crescendo rossiniano, "questa stupidità dei cittadini di Lecce, non può essere attribuita al clima, poiché a Bari, in cui il clima è lo stesso, e che non dista se non 120 miglia, si trova maggior numero di gente di spirito e di genio. Bisogna confessare tuttavia che, a Lecce, la quale dista 8 miglia dal mare, l'aria è più greve e più spessa che a Bari."

Ma al di là del giudizio del nostro viaggiatore di qualche tempo fa, Lecce merita una visita attenta. Molte cose non le nominerò, ma questo non significa che sono da trascurare.
Prima di entrare nelle viuzze del centro storico di Lecce, una visita particolare merita la Chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo con l'annesso Monastero degli Olivetani, nei pressi del cimitero, entrambi rappresentativi dell'età normanna.

Per la visita del centro si possono percorrere le direttrici dalle porte della città e le eventuali diramazioni. Da Porta Rudiae, lungo via Giuseppe Libertini. Da Porta Napoli, lungo via Giuseppe Palmieri. Da Porta San Biagio, lungo vie dei Perroni, Federico D'Aragona e Francesco Rubichi. Un tempo c'era anche Porta San Martino ma nell'800 fu distrutta. Lungo le tre direttrici potrete fare tre itinerari di visita dove vedrete più chiese che case. Io nominerò solo alcune cose da vedere, starà poi a voi costruire un percorso.

La mia preferita, a pochi metri da Porta San Biagio è la chiesa di San Matteo giudicata da Gregorovius il "pantheon del barocco leccese". L'architetto è Giovann'Andrea Larducci ma, anche se Wikipedia non lo dice, fu completata da Giuseppe Zimbalo. Nella sua facciata il convesso del primo ordine fa da contrappunto al concavo del secondo ordine, squamato e levigato intrattengono un dialogo continuo. Fu dello Zimbalo il movimento contrappuntistico a completamento del discorso cominciato dal Larducci. Come Roma ebbe in Bernini il suo principale scenografo, Lecce trovò nello Zimbalo il principale artefice della sua architettura.

Piazza Duomo con i dottori della chiese che danno il benvenuto in una sorta di ampio cortile dove il Duomo con il suo campanile, il Palazzo Vescovile, il Seminario e le abitazioni civili danno una vertigine di architetture tutte costruite in tempi diversi ma in perfetta armonia tra loro, come se tutti quegli edifici fossero stati progettati per affacciarsi in un immenso chiostro. Nel cortile del seminario, se capita che sia aperto, c'è l'elegantissimo pozzo barocco, in molti libri d'arte usato come simbolo del barocco leccese.

Sebbene non piacesse al Riedesel il trionfo del barocco leccese è sicuramente rappresentato dalla Santa Croce, con il primo ordine cinquecentesco cui succede il secondo ordine barocco sorretto da una serie di cariatidi zoomorfe. Accanto alla Basilica c'è l' ex convento dei Celestini.

A Piazza S. Oronzo, dove c'è la chiesa del Gesù, tra "le meno cariche di ornati", c'è l' anfiteatro romano che insieme al teatro, non molto distante da qui, costituisce una testimonianza di età augustea secondo alcuni, adrianea secondo altri. E poi il Sedile, l'adiacente Chiesetta di San Marco, testimonianza della presenza di una colonia veneta in città, e la colonna di S. Oronzo.
A piazza S. Oronzo c'è anche il bar Alvino, non è un monumento ma fa decisamente parte della tradizione leccese, e non potete andare a Lecce senza andare lì per prendere un rustico caldo (salato, con ripieno di besciamella, pomodoro, mozzarella e pepe) e il pasticciotto (dolce, con ripieno di crema) e dopo pranzo il caffè in ghiaccio con latte di mandorla. Credetemi, queste cose le trovate solo nel Salento, usciti da questa terra se provate a chiedere un semplice caffè in ghiaccio vi guarderanno come animali strani, per non parlare del pasticciotto, che fuori dal Salento è praticamente sconosciuto.



A pochi passi da Piazza S. Oronzo, visitate il Castello di Carlo V, girategli intorno, vedrete la graziosa fontana dell'amore e il maestoso ficus magnolia, una creatura plurisecolare.

Dal 24 a 26 agosto Lecce festeggia S. Oronzo, protettore della città, insieme a S. Irene, precedente Lupiensium Patronae, come è inciso sulla trabeazione della chiesa a lei dedicata.

Una tappa irrinunciabile. Tornando da Lecce, andando verso Gallipoli, fate una deviazione in direzione di Galatina. Lì cercate le indicazioni per la Basilica di Santa Caterina di Alessandria, una autentica perla del romanico e gotico meridionale, all'interno c'è un ciclo di affreschi della prima metà del XV secolo che vi lasceranno a bocca aperta.


Inutile dire che la cucina salentina è parte integrante della cultura salentina. La cucina di un luogo è sempre rivelatrice del carattere della gente, questo accade ovunque.
Da noi piatti tipici sono fainette e foje a Lecce, fave e foje altrove (in entrambi i casi sono fave e cicorie), ciciari e tria (pasta e ceci con pezzi di pasta fritta), pignata te ciciari o pasuli (minestra di ceci o fagioli), maccarruni o sagne 'ncannulate cu lu sucu e ricotta scanta (pasta fatta in casa al sugo e formaggio ricotta), friseddhre e pummitoru (friselle e pomodori), pittule (impasto di farina fritto, tipico natalizio), carne te cavaddru (pezzetti di cavallo al sugo, se sono buoni si sciolgono in bocca), gnommareddhri o turcinieddhri (involtini di interiora di agnello arrostiti), spaghetti alle cozze/granchi/ricci, pesce spada alla gallipolina (trancio di pesce spada panato con mollica di pane e grigliato), purpu alla pignata, scapece (pesci piccoli fritti e marinato in mollica di pane imbevuta di aceto e zafferano, di solito si vende solo nelle feste patronali salentine), puccia leccese, moniceddhre (lumache), formaggi e latticini da recuperare direttamente nelle masserie e poi i dolci, chinuliddhre, pitteddhre, mustazzoli, cupeta, taraddhri scautati o zuccarati, purcidduzzi...
...e poi ci sono prodotti tipici... non commestibili: piatti, vasi e orci in terracotta, pupi di cartapesta e nel centro storico di Lecce potete vedere i maestri al lavoro.


Sono tanti i posti di cui potrei dire. Ugento ad appena 6 km da Melissano, il mio paese. Ci vado spesso, correndo per le strade di campagna, tra masserie, torri colombarie, caseddhri e necropoli messapiche.
I caseddhri sono trulli in pietra disseminati in tutta la campagna salentina. Costruiti con pietre rubate alla terra, come per i muretti a secco, senza malta, pietre rubate alla terra per poterla coltivare.
Ugento dista meno di 7 km da Torre San Giovanni, la sua località marina.
Torre Vado, lungo la litoranea ionica da Torre San Giovanni a Santa Maria di Leuca, con le sue sorgive d'acqua dolce che si tuffano in mare. Nell'acqua limpida potete vedere i pesci che baciano le bolle d'acqua dolce, ricca di ossigeno, ma stando attenti a non entrare nell'acqua dolce.

Non ho parlato delle spiagge bianche di Pescoluse che qualcuno chiama le "maldive del salento", nome che trovo irritante perché non vedo la necessità di fare confronti. Non ho parlato delle spiagge altrettanto belle di Gallipoli con la pineta alle spalle. Non ho parlato della Riserva naturale di Lido Pizzo con la macchia mediterranea a pochi passi dal mare. Non ho parlato dell' isola dei conigli di Porto Cesareo. Non ho parlato di tante cose.
Non ho parlato di Mancaversa, uno dei posti dove si è formata la mia coscienza. Non era solo idillio ma è la mia storia. Qui i miei nonni passavano l'estate. Nelle minuscole calette sabbiose di Mancaversa ho imparato a nuotare, soprattutto a mare dei cavalli, chiamato così perché fino a quando papà era piccolo ci lavavano i cavalli e si può entrare in acqua camminando agevolmente sulla sabbia. Qui passavamo le domeniche con i miei e tra le siepi della villetta di fronte casa, insieme agli altri bambini giocavo a nascondino. Come mi sembravano alte quelle siepi, le guardo oggi e mi chiedo come sia stato possibile nascondersi tra quelle siepi basse.
Basta così, l'ho detto all'inizio che questo post non l'avrei mai considerato finito.


In conclusione alcuni consigli di lettura e altro:

Johan Hermann von Riedesel, Nella Puglia del Settecento, Lettere di J.H. von Riedesel, barone di Eisenbach a J.J. Winckelmann. A cura di Tommaso Pedio, Capone ed., 1979.
Cesare Brandi, Pellegrino di Puglia, Bompiani ed., 2010.
Francesco Pirreca, Historia della Madonna Santissima di Leuche, detta S.M. de Finibus Terrae, 1643.
Grazio Gianfreda, Il mosaico di Otranto. Biblioteca medioevale in immagini. Ed. del Grifo, 1998.

ma più di qualunque altra lettura consiglio questi due autori:
Luigi Corvaglia, Finibusterre. Congedo ed., 1981.
Vittorio Bodini, Tutte le poesie. A cura di Oreste Macrì. Ed. Besa, 2010

Un paio di film girati interamente in Salento: il meraviglioso Sangue vivo, di Edoardo Winspeare, in dialetto ma con sottotitoli e Mine vaganti di Ferzan Özpetek.

Altri siti interessanti, oltre ai link che ho disseminato nel post.
Una rassegna di video del Salento: paesaggi, personaggi, musica e tradizioni.
Un'altra rassegna di video delle località turistiche del Salento.
Breve itinerario a Gallipoli.
Diario di viaggio a Lecce e altri posti della Puglia in un bel blog dedicato a chi ama viaggiare.
Un sito di cultura e artigianato salentino. Utilizzate i tre motori di ricerca, troverete molte cose interessanti.
Lo straordinario blog di Cultura salentina. Un blog di storia, letteratura, poesia, dove è possibile leggere e scaricare materiale utile per conoscere il Salento e la sua gente.
Il sito del Forum Ambiente e Salute, dove leggerete delle devastazioni in corso nel Salento.

E infine i miei post in cui ho parlato del Salento, oltre questo naturalmente.


Un'ultima citazione da un altro Sud, perché il Sud non è un posto geografico, ricordatelo.
"Va bene, gridavano i mezzadri, ma la terra è nostra. L'abbiamo misurata noi, dissodata noi. Siamo nati qui, qui ci hanno ucciso, qui siamo morti. Anche se non è buona, è nostra lo stesso. E' l'esserci nati, l'averla lavorata, l'esserci morti, che la fa nostra. E' questo che ce ne dà il possesso, e non una carta con dei numeri sopra." J. Steinbeck, Furore, (The grapes of wrath, 1939).

Vi lascio salutare dai numi che da secoli governano questa terra straordinaria. Durante le vostre visite in Salento non dimenticate di rendere omaggio a questi Dei.



Un uomo del Sud
come immagina Dio
se non come storto olivo
e perenne rovina?

Vittorio Bodini, Inediti 1949-1960.

Addendum del 2 luglio - La pubblicazione nel sito di Cultura salentina del ritratto di Vittorio Bodini scritto da Augusto Benemeglio non poteva capitare in un momento migliore per chiudere questo post.


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