di Roberto Renzetti. A partire dal IV secolo d.C. la Chiesa cristiana aveva avuto ampi riconoscimenti dal potere di Roma. L’imperatore Costantino aveva addirittura diretto la Chiesa nei primi Concili di Vescovi che, dopo molteplici confronti e scontri su questioni di fede (come la Trinità, la divinità di Cristo, …) che discendevano dalle Scritture, avevano definito scelte fondamentali che ne stabilirono i primi dogmi e quindi l’ortodossia da difendere. Detta così sembrerebbe una civile assemblea in cui, dopo un confronto di idee, si sceglie la via da seguire. Le cose sono ben diverse e per capirlo riporto un brano di un grande teologo che ha dedicato a questi temi molti anni della sua vita, Karlheinz Deschener (1998). Si tratta di qualche cenno da cui si può iniziare a cogliere lo spirito con cui doveva essere abbracciata la fede o meglio l’ortodossia.
La battaglia di cristiani contro altri cristiani ebbe inizio già con la polemica di Paolo con la comunità primitiva, i cui rappresentanti definì «cani», «storpi» e «apostoli di menzogne». Ma anche in altri passi del Nuovo Testamento (N.T.) cristiani affibbiarono ad altri cristiani l’appellativo di «sozzura e vituperio», «figli della maledizione», «bestie prive di intelletto, che conformemente alla loro natura sono state create solo perché siano afferrate e ammazzate» (!) [...]
Finché la Chiesa fu senza potere, i suoi capi assicuravano di continuo che la privazione della libertà religiosa andava a finire nell’empietà; solo il Signore poteva condurre al pascolo con una verga di ferro e nessun cristiano poteva presumere «di usare nemmeno la pala per la purificazione e la pulitura dell’aia»; nessun cristiano poteva «uccidere i nemici e condannare i violatori della legge alla morte sul rogo o alla lapidazione». Un Dottore della Chiesa del IV secolo scrive: «Non è consentito uccidere un eretico, perché altrimenti scoppierebbe nel mondo una guerra implacabile».
Già il primo imperatore cristiano, che a Milano aveva proclamato la libertà religiosa, favorì ben presto solo la Chiesa ufficiale, e agì contro i numerosi eretici e scismatici nell’interesse dell’unità dell’impero, naturalmente non senza la relativa collaborazione dei cattolici.
Nel 331 per la prima volta Costantino si rivolse contro i seguaci di Valentino, Novaziano, Marcione, Montano e Paolo di Samosata; l’imperatore proibì i loro convegni e le cerimonie religiose, confiscò i loro appezzamenti di terra e i loro libri, e fece addirittura distruggere i loro luoghi di riunione.
Provvedimenti quasi identici avevano dato inizio solo vent’anni prima alla persecuzione di Diocleziano. Ma le ordinanze di Costantino contro gli «eretici» vennero attuate piuttosto raramente, e nemmeno nei decenni seguenti si giunse a una vera e propria lotta dello Stato contro gli eretici. In generale si può dire che ebbe inizio una blanda applicazione dei decreti con Valentiniano I e con Valente; ma le disposizioni penali vennero straordinariamente inasprite ai tempi di Graziano, Valentiniano II e Teodosio I.
Il 27 febbraio del 380 Teodosio emanò il celebre e famigerato editto religioso di Tessalonica, che inflisse alla tolleranza pagana il colpo di grazia, dal momento che rese obbligatoria per ogni cittadino romano l’assunzione della fede cattolica con la minaccia di punizioni terrene e celesti. Nel decreto, che fu sottoscritto anche dai Cesari d’Occidente Graziano e Valentiniano II, si diceva fra l’altro:«Noi ordiniamo che coloro che obbediscono a questa legge assumeranno il nome di “cristiano-cattolici”; gli altri, invece, che dichiariamo stolti e folli, devono sopportare l’onta di chiamarsi eretici. I loro raduni non possono essere definiti chiese; essi devono prima di tutto essere colti dalla vendetta divina, e poi anche dalla punizione della nostra collera, per la qual cosa noi ci assumiamo il potere del giudizio divino».
Con l’editto, rivolto soprattutto contro gli Ariani, venne proclamato il principio dell’obbligo religioso regolato dallo Stato. Gli imperatori Teodosio II e Valentiniano III nel 425 si richiamarono nuovamente a tale obbligo; infatti, così fu dichiarato, se gli «eretici» non possono essere convinti con la ragione, li si deve ricondurre alla fede coi mezzi propri del terrore.
Il Codex Theodosianus, codice imperiale messo insieme nel 438, indica fra il 380 e il 438 all’incirca ottanta leggi contro gli «eretici», che prescrivevano l’alienazione delle loro chiese, proibivano loro di edificarne delle altre, nonché di servirsi di case private a fini ecclesiali; ai non cattolici interdicevano qualsiasi servizio divino, tutte le riunioni, qualsiasi forma di attività didattica, l’ordinazione di preti e imponevano la distruzione dei loro scritti.
Su di essi pendeva la minaccia dell’esilio, del bando e della confisca del patrimonio; veniva loro disconosciuto il diritto di chiamarsi cristiani, di fare testamento o di ereditare sulla base di testamenti già redatti; qualche volta erano dichiarati persino incapaci di compiere qualsiasi atto giuridicamente valido. E infine era anche prevista per tutti gli «apostati» la pena di morte, prima riservata solo ai seguaci delle sette manichee. [...]
Nel 385 i vescovi cattolici a Treviri fecero giustiziare con la spada il dotto spagnolo Priscilliano e sei dei suoi seguaci, fra i quali una donna, accusandoli di «arti magiche» (maleficium). Priscilliano aveva esortato la cristianità a dedicarsi completamente a Dio, aveva condannato la carne come cibo, si era servito di scritti apocrifi e, come oggi ogni teologo critico, aveva rifiutato la trinità e la resurrezione. Quando la sua comunità, di cui entrarono a far parte anche dei vescovi, si diffuse rapidamente in Spagna e cominciò a espandersi in Aquitania, egli venne ucciso, e per 1500 anni fu accusato di una sorta di eresia manichea; tale accusa calunniosa venne meno solo nel 1866, allorché vennero ritrovati i suoi scritti.
Non c’é bisogno di aggiungere che la Chiesa favorì energicamente la legislazione antiereticale degli imperatori. Il papa Leone I (440-461), santo e Dottore della Chiesa, aizzò alla distruzione dei Priscillianisti in Spagna e dei Manichei in tutto l’impero. [...]
E’ solo un piccolo assaggio degli inizi del potere della Chiesa o diretto, come a Roma dove l’autorità imperiale da un certo punto non vi fu più e l’ortodossia doveva essere garantita direttamente dalla Chiesa, o indiretto, come nell’Impero d’Oriente dove era lo Stato a garantire quella stessa ortodossia per conto della Chiesa.
La teoria ma anche la richiesta secondo cui dovevano essere sovrani e principi ad occuparsi di salvaguardare l’ortodossia, per altro decisa da vari sinodi di vescovi, fu avanzata da Sant’Agostino e Isidoro di Siviglia tra il VI e VII secolo. E poiché nelle terre dove i cristiani avevano il potere valeva lo ius romanus, chi si opponeva alle massime autorità rischiava pene che prevedevano, a seconda della gravità, esilio, prigione, confische, privazione di diritti, morte. Con i cristiani al potere, la massima autorità risultava Dio, la fons iuris, e quindi chi non era ortodosso era un oppositore di Dio, un traditore della volontà divina, e quindi soggetto alle pene che dicevo. Il primo sovrano che operò in tal modo fu il francese Roberto II, figlio di Ugo Capeto, nell’XI secolo.
In parallelo con il diritto, i vescovi, spesso guidati dai sovrani, in appositi concili e sinodi, affinavano ed affilavano la dottrina e l’ortodossia. Questa operazione non è mai terminata ma fu praticata incessantemente tra il IV e XII secolo epoca in cui furono trovate una gran quantità di eresie che, per la sopravvivenza del filone principale, dovevano essere sterminate.
LE ERESIE
Intanto il termine eresia non aveva fino a San Paolo un significato negativo La parola voleva dire scelta tra differenti opzioni e chi sceglie non è persona disprezzabile e tanto meno condannabile. La parola non compare nei Vangeli canonici ma inizia ad essere utilizzata negli Atti degli apostoli non in senso dispregiativo ma in una versione del suo significato originale e cioè per indicare differenti sette come i sadducei, i farisei, i cristiani, … Nelle Lettere di San Paolo il termine eresia inizia ad assumere il significato dispregiativo che oggi gli viene attribuito e cioè: dottrina o affermazione contraria ai dogmi e ai principi della Chiesa cattolica.
Le eresie che i vescovi giudicarono tali, nella continua manipolazione e falsificazione dei testi sacri e non solo, furono davvero moltissime(1). Mi occuperò solo delle eresie principali(2) che, nate nei primi anni del secondo millennio, si svilupparono e diffusero per l’Europa a partire dal XIII secolo medioevale, diventando dei veri e propri grandi movimenti ereticali.
I principali movimenti ereticali furono i Catari ed i Valdesi che, al loro interno avevano ulteriori suddivisioni. Erano chiamati catari(3) o albigesi (dal nome della città di Albi della Francia meridionale, vicino Tolosa, che era il loro centro) anche i manichei che derivavano dall’antica eresia dualista del manicheismo ed i patarini (dalla parola dialettale milanese patee che vuol dire stracci), un movimento nato nell’XI secolo a Milano e costituito appunto dal clero di base povero e da ceti popolari miserabili contro le vergognose simonia e ricchezza delle gerarchie ecclesiastiche. Il movimento valdese nacque nel XII secolo da poveri che anticiparono Francesco d’Assisi. Il nome deriva dal suo supposto fondatore, Pietro Valdes o Valdo di Lione, che ebbe una vita simile a quella di Francesco. Il movimento fu dapprima accettato dalla Chiesa che però non permise agli adepti la predicazione. I valdesi continuarono diffondendosi rapidamente in Francia, in Italia settentrionale, Germania, Svizzera ed in vari altri Paesi dell’Est Europa.
Non è qui il caso di entrare in dettagli ed in differenze tra i vari movimenti ma solo indicare le linee generali su cui si muovevano. Tutti i movimenti predicavano la povertà contro la smodata lussuria e la ricchezza dominante nella Chiesa dei gerarchi. Osservo tra parentesi che il movimento francescano fu accettato dalle gerarchie della Chiesa come movimento pauperista con una doppia finalità: avere tra le sue fila chi richiedeva la povertà solo per sé e chiudere la bocca a quelli che invocavano la povertà non solo per sé ma per tutta la Chiesa.
Oltre alla comune richiesta di povertà di catari e valdesi, vi sono delle caratteristiche peculiari dei due movimenti che meritano una citazione.
I catari predicano un rinnovamento morale della Chiesa; sostengono che la Terra è un campo in cui si affrontano in lotta aperta Dio (lo spirito) e Satana (la materia); rifiutano il Vecchio Testamento poiché in esso Dio crea la materia; il rifiuto si estende anche al Purgatorio; praticano un ascetismo esasperato (condanna del matrimonio e della procreazione; sono esclusivamente vegetariani; condanna della proprietà privata e della guerra; ricerca della morte per fame); predicano, come detto, la povertà.
I valdesi, movimento laico e popolare, predicano la povertà; affermano il diritto alla predicazione per i laici; affermano l’uguaglianza di tutti i fedeli incluse le donne; sostengono che il sacerdozio si conquista per meriti individuali (anche per le donne) e non per investiture esterne (questo è un durissimo colpo alla Chiesa di Roma); negano la transustanzazione (non è vero, nella messa, che il pane ed il vino si trasformino nella carne e sangue di Gesù); conseguentemente negano anche la stessa messa ed il culto dei santi e dei morti.
LA VIOLENZA DELLA CHIESA
Dopo la scomunica dei catari nel concilio di Tolosa del 1119, già vi erano stati tentativi di fermare l’eresia catara in Linguadoca e Provenza con l’invio nel 1145, da parte di Papa Eugenio III, del cistercense Bernardo di Chiaravalle (futuro santo). Questo tentativo insieme ad altri concili (Lione 1163, Verona 1184) che si sommavano a richieste del Re di Francia (Luigi VII) al Papa (Alessandro III) di fermare l’espandersi dell’eresia, non portarono a risultati. Restò il fatto che dal 1184 dovevano essere i vescovi ad individuare gli eretici per portarli a giudizio presso le autorità civili (nasceva l’inquisizione vescovile). Nel 1198 fu eletto Papa Innocenzo III ed egli nel 1204 affidò ai frati cistercensi guidati da Pietro di Castelnau il compito di combattere l’eresia in Francia ed in Italia. La zona di maggior diffusione dell’eresia era il Sud della Francia, la Linguadoca, che era anche una zona indipendente ma contesa dai regni di Francia, Inghilterra ed Aragon. Ed era proprio l’indipendenza da potenze politiche cristiane che alimentava l’indipendenza religiosa. Furono fatti tentativi di missioni che tentassero di sistemare le cose con i dissidenti religiosi ma su questa strada non si ottenne nulla e furono esercitate pressioni sui conti di Tolosa che gestivano quelle terre riuscendo a convincere qualche signorotto ad espellere i religiosi sospetti (1204-1206). Domingo Guzmán de Calaruega (poi divenuto San Domenico), facente parte di una missione diplomatica spagnola che passava di lì nel 1203, fu colpito dalla profonda intensità di fede e di decisione degli eretici e chiese di poter restare lì perché riteneva di saperli combattere meglio dei cistercensi. Si convinse presto che per combattere gli eretici si doveva mettere al loro livello di povertà ma, anche con questo non riuscì a risolvere nulla(4). E mentre l’eresia si rafforzava in quelle terre e si estendeva, iniziarono varie scomuniche, assassini, intimidazioni, … finché il Papa nel 1204 e poi nel 1205 non chiese al Re di Francia Filippo Augusto di sostenere la lotta per estirpare l’eresia nella Linguadoca ed in Provenza. Ma il Re non aderiva a questa richiesta anche perché impegnato nella guerra contro l’Inghilterra. Fu allora che il Papa nel novembre del 1207, propose al Re di fare una Crociata contro gli eretici in modo da potergli concedere le stesse indulgenze che erano state concesse ai crociati che erano andati in Terra Santa. E, per vie contorte, che davano prima libertà ai vassalli della corona di partecipare e poi con il comando dato al figlio Luigi, il Re diede il via alla Crociata contro gli albigesi inviando tra i 10 mila ed i 50 mila uomini armati. Da più parti si marciò contro le città degli eretici e la prima ad essere assaltata (luglio 1209) fu Béziers che, a fronte di circa 500 catari, vide il massacro dei 20 mila abitanti. Si passò poi (agosto) a Carcassonne i cui abitanti furono cacciati dalla città nudi. Dopo Carcassonne il comando dei crociati passò da Arnaud de Amaury a Simone di Montfort. Via via molte città caddero ed i crociati avanzavano mentre alcune delle città precedentemente arrese, si ribellarono di nuovo. Quando le città venivano prese ai catari veniva data possibilità di conversione. Quelli che non accettavano, ed erano molti, venivano bruciati. Nel 1212 intervenne la corona di Aragon alleandosi con il conte Raimondo VI che da Tolosa resisteva contro i crociati(5). La richiesta fatta al Papa e non accettata era che quell’esercito fosse dirottato contro i mori di Al Andalus (più o meno l’odierna Andalusia) per liberare la Spagna. Lo scontro (12 settembre 1213 a Muret) vide la sconfitta della corona di Aragon ed anche ogni speranza di poter estendere il potere su quelle terre che da allora passarono sotto influenza francese. Con il 1214 la prima parte di questa Crociata si concluse. E’ utile ricordare che alla lotta implacabile contro l’eresia si era aggiunto Federico II (1194-1250), chiamato Stupor Mundi e Puer Apuliae, nipote di Barbarossa, Imperatore del Sacro Romano Impero, re di Sicilia, re di Gerusalemme, imperatore dei Romani, re d’Italia e re di Germania che già al momento della sua incoronazione in Roma (1220) emanò un documento (poi formalizzato con decreti del 1220 e del 1227) con il quale si affermava che quando si fosse individuato un eretico nei territori sotto la sua sovranità doveva essere espropriato e consegnato alle autorità civili per essere messo immediatamente al rogo. Per altri motivi il nipote di Barbarossa fu poi scomunicato (1228: perché non era riuscito a portare i suoi armati alla sesta crociata in quanto ammazzati da una pestilenza) da Papa Gregorio IX ma aveva creato un problema nella legislazione dei territori sottomessi alla sua sovranità, l’introduzione di parti del diritto canonico in una legislazione civile.
Nel 1215 si aprì a Roma il quarto concilio laterano che discusse in modo approfondito i problemi connessi con l’eresia. Si decise che la fede che doveva essere accettata (attenzione si dice che si doveva accettare) era quella definita da quel concilio e che chi rifiutava doveva essere scomunicato dalla Chiesa e consegnato alle autorità civili o secolari per essere punito, con confisca dei beni. Si iniziò a porre un problema che assumerà valenza legale. Non era credibile chi negava di essere eretico davanti al potere dell’autorità e quindi occorreva trovare un qualche sistema. Il primo fu quello delle testimonianze di amici o conoscenti a discarico che dovevano essere date entro un anno, altrimenti il sospetto diventava un eretico in piena regola. Poiché poi le norme stabilite dovevano essere fatte rispettare dall’autorità civile, si obbligarono i sovrani a giurare in tal senso.
Intanto Simone di Montfort continuava la repressione di catari in Linguadoca accendendo migliaia di roghi. Nel 1222 alla morte di Raimondo VI di Tolosa, il potere (il poco potere restante) passò al figlio Raimondo VII che nel 1229 firmò un trattato con il Re di Francia Luigi IX con il quale il primo s’impegnava a cedere la sua autonomia alla Francia, a difendere gli interessi della Chiesa in quelle terre e a combattere l’eresia. In quello stesso anno con il Sinodo di Tolosa, su una decisione del concilio di Avignone del 1200, la Chiesa organizzò in ogni parrocchia una commissione costituita da un prete e da due o tre laici che doveva scoprire gli eretici. Nel Sinodo si stabilì che la casa abitata dall’eretico doveva essere rasa al suolo; che il padrone di quella casa doveva essere espropriato di ogni bene e sottoposto a pene corporali; che l’eretico pentito doveva avere due croci cucite sull’abito senza potere assumere nessun incarico pubblico e senza aver diritto di ricorrere alla giustizia. Infine vi è il seguente straordinario divieto: I laici non possono possedere i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento; possono avere solo il Salterio ed il breviario o anche i calendari mariani, e nemmeno questi libri, per altro, devono essere tradotti nella lingua nazionale [citato da Deschner 2000]. Quindi la Bibbia non si poteva avere né in latino né nelle lingue nazionali. In pratica questa procedura risultò complessa e non produsse ciò che si voleva, anche perché serviva un minimo di preparazione teologica che né preti né laici, nella loro generalità, avevano.
Quel 1229 segnò una breve pausa nella Crociata che proseguì, guidata da Amalrico, figlio di Simone di Montfort, con ferocia per molti anni fino alla caduta dell’ultima fortezza, quella di Montsegur, il 16 marzo 1244, con un rogo sotto le mura di 200 catari. Da questo momento terminò la Crociata ed iniziò la repressione casa per casa che durò fino a che la Chiesa non decise che l’eresia era estirpata, agli inizi del XIV secolo. Naturalmente l’odio verso la Chiesa, anche da chi cataro non era, ma era convissuto amabilmente con loro, crebbe in quei territori e dette vita a risentimenti duraturi che aprirono a culti pagani e superstizioni che, successivamente vedranno l’altra ondata di massacri in nome di Dio denominati caccia alle streghe.
NASCE L’INQUISIZIONE
Fu Papa Gregorio IX (Papa dal 1227 al 1241) ad avviare le pratiche che fondarono l’Inquisizione. Nel 1231 furono emanati una costituzione ed uno statuto antiereticale noti come Statuti della Santa Sede. In tali statuti vi erano delle Regole poi pubblicate dal senatore Annibaldo degli Annibaldi e sarà proprio nei Capitula Anibaldo Senatoris che sarà codificato il termine Inquisitore. Le regole prevedevano che il medesimo senatore gettasse in prigione chiunque fosse denunciato come eretico da un inquisitore o da un buon cattolico (la sentenza doveva essere esecutiva in 8 giorni). In tal modo il senatore diventava un inquisitore delegato pontificio che serviva da contrapporre ai giudici laici (lo scontro era con Federico II). La casa che avesse dato ospitalità ad un blasfemo doveva essere rasa al suolo ed il terreno doveva essere trasformato in un letamaio. I beni dell’eretico venivano confiscati e così ripartiti: un terzo a chi denunciava, un terzo ad Annibaldo, un terzo per la manutenzione delle muta della città. Ogni persona che non denunziasse un eretico subiva una multa enorme di 20 lire ed il senatore che non procedesse contro persona eretica subiva una multa di duecento marchi e non poteva più avere cariche pubbliche. Le Regole sommariamente descritte furono inviate a tutti i principi e gli arcivescovi affinché fossero rigorosamente applicate.
Nello stesso periodo vi era stato il conte di Tolosa, Raimondo VII, quello che era addivenuto a vergognosi patti con la Chiesa, che nel 1232 fece diventare legge le delibere del Sinodo di Tolosa del 1229 con ogni felicitazione di Gregorio IX.
Il 20 aprile del 1233 Gregorio IX emanò una Bolla che affidava ai domenicani lo sradicamento dell’eresia. Era la fondazione del Tribunale dell’Inquisizione. In questa lettera, Illae humani generis, del 20 aprile diretta ai domenicani Gregorio IX diceva:
Perciò voi [...] avete il potere [...] di privare i clerici dei loro benefici per sempre, e di procedere contro di loro e contro tutti gli altri, senza appello, chiedendo l’aiuto del braccio secolare, ove necessario. [citato da Baigent e Leigh]
In questa lettera, che assegnava ai domenicani il privilegio dell’Inquisizione (negotium fidei), si ordinava a quei frati di designare i religiosi che avrebbero predicato contro l’eresia ed ai quali sarebbe stata affidata la causa della fede. Quindi il potere inquisitorio era sia dei vescovi che dei domenicani con una sorta di ruolo superiore ai vescovi. Pochissimo tempo dopo, lo stesso Papa associò ai domenicani i frati Minori (gli utili francescani di Francesco, vero giullare di Dio. Quale miglior alibi per la Chiesa di Roma quello di affidare l’Inquisizione ai seguaci di un poverello che predica la povertà per sé e non per tutta la Chiesa!) e queste missioni erano estese a tutta la cristianità. La cosa fu ufficializzata con una Bolla del 1246 di Papa Innocenzo IV.
Nello stesso anno Gregorio IX avviò la santificazione di Domingo che era morto nel 1222, santificazione che ottenne in tempi per l’epoca record. Domingo divenne San Domenico nel 1234. In una lettera del medesimo 20 aprile diretta ai vescovi, così scriveva Gregorio IX:
Noi, vedendovi presi dal vortice delle preoccupazioni e quasi soffocati sotto la pressione delle sempre maggiori ansietà, pensiamo bene di suddividere il vostro carico in modo che possiate sopportarlo meglio. Abbiamo perciò determinato di mandare dei frati a predicare contro gli eretici di Francia e delle province vicine, e vi preghiamo, vi mettiamo in guardia, vi esortiamo, ordinandovi [...] di riceverli gentilmente e di trattarli bene, dando loro [...] appoggio, affinché possano assolvere i loro compiti. [citato da Baigent e Leigh]
Papa Innocenzo IV, con la sua bolla Ad extirpanda del 15 maggio 1252, ufficializzò l’uso della tortura, una pratica in uso fin dal 1234. Erano esonerati da questa pratica solo coloro che rischiavano di morire o che fosse loro causata una qualche amputazione. La tortura fu confermata il 27 aprile 1260 da Papa Alessandro IV, che tolse la limitazione di Innocenzo IV, e riaffermata prima da Papa Urbano IV il 4 agosto 1262 e poi da Papa Clemente IV nel 1265. Rimase sempre il feroce, sciocco, ipocrita ed offensivo senza spargimento di sangue che faceva evitare strumenti appuntiti o con lame; andavano invece bene, ad esempio, la ruota e lo schiacciapollici (sui metodi di tortura entrerò in dettagli più oltre) che se facevano uscire sangue era considerato incidentale. In teoria le tenaglie per strappare unghie o carne non erano ammesse per quella ipocrisia dello spargimento di sangue. Ma se si arroventavano fino al rosso o bianco, lo strappare era simultaneo al cauterizzare e quindi erano ammesse anche quelle. Anche i tempi erano aggirati. Non era possibile torturare più di trenta minuti una sola volta. Poi i successivi trenta minuti erano una nuova sola volta e così via. Se poi le accuse erano più di una, per ognuna si torturava quei 30 minuti. E’ interessante osservare il ruolo democratizzatore delle leggi ecclesiastiche rispetto a quelle civili. Queste ultime infatti esoneravano dalla tortura medici, cavalieri, soldati e nobili. La Chiesa rese il dolore un bene per tutti, indipendentemente da sesso, età, stato sociale. La pena di morte mediante il rogo (pena nuova e purificatrice di fronte all’idra eretica e sacrilega) era stata ufficialmente introdotta in Spagna nel 1194, quindi in Italia, Germania, Francia ed Inghilterra (1401). Ed era ben accetta anche da supposti pensatori e santi, anche per questo, della Chiesa come Tommaso d’Aquino, il doctor angelicus, il dottore della Chiesa, l’ispiratore di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che nella Summa Theologica, un’opera ispirata dallo Spirito Santo e considerata come una Bibbia durante il Concilio di Trento, sosteneva:
«Per quanto riguarda gli eretici, essi si sono resi colpevoli di un peccato che giustifica che non solo siano espulsi dalla Chiesa con l’interdetto. ma anche che vengano allontanati da questo mondo con la pena di morte. E’ davvero un delitto molto più grave falsificare la fede, che è la vita dell’anima, che falsificare il denaro, che serve alla vita mondana. Se dunque falsari e altri malfattori vengono subito portati dalla vita alla morte legalmente ad opera dei prìncipi laici, con quanto maggior diritto gli eretici, immediatamente dopo la loro incriminazione per eresia, non soltanto possono essere cacciati dalla comunità ecclesiale, ma anche a buon diritto giustiziati!» [citato da Deschener 1998].
A partire dal 1235 furono i vescovi che in concili provinciali ristretti iniziarono piano piano a stabilire le procedure che i tribunali dell’inquisizione dovevano avere e la giurisprudenza. Ciò comportò disparità importanti da Tribunale a Tribunale. C’è da osservare che da una parte i vescovi venivano mantenuti nei loro compiti di sradicamento dell’eresia e dall’altra compiti superiori venivano assegnati ai frati sia domenicani che francescani. I vescovi mal digerivano l’ingerenza di Roma sulla loro autonomia e non condividevano l’intromissione di estranei in zone e territori con abitanti che loro conoscevano bene. L’intervento dei frati era del tutto spropositato e non era in grado di fare giustizia ma solo enormi ingiustizie. Questo era il motivo della sfiducia che il Papa aveva verso i vescovi: secondo Roma la tendenza era a soprassedere e perdonare. Più affidabili i laici che, per arricchirsi con le regalie che spettavano loro, erano ubbidienti esecutori, ma solo esecutori perché loro non potevano decidere sull’eresia di una persona. Per ovviare alle disparità di giudizio tra differenti tribunali, iniziarono a veder la luce dei manuali redatti da chierici che raccontavano come combattere l’eresia ed avevano indicata l’intera procedura con formule per le lettere di citazioni, con le domande da fare, con le abiure, le penitenze, le sentenze, con i formulari, le possibili risposte e le possibili obiezioni. Tra i manuali il più noto, Practica Inquisitionis haereticae praviatis, è quello di un notissimo ed altrettanto feroce inquisitore (dal 1307 fino alla morte nel 1331), il domenicano Bernard Gui nel primo quarto del XIV secolo. L’abate Mollat che ripubblicò la Practica di Gui, così la descrive:
«E’ divisa in cinque parti. La prima contiene 38 formule riguardanti la citazione e la cattura degli eretici, la comparizione di tutte le persone che potevano intervenire, qualunque ne fosse la veste, ad un processo di inquisizione.
«Nella seconda parte figurano 56 atti di grazia, o di commutazione di pena fatti durante e all’infuori dei sermoni generali pronunziati dagli inquisitori.
«La terza parte raccoglie 47 formule di sentenze fatte, in occasione o alI’infuori di questi stessi sermoni.
«La quarta consiste in una «breve ed utile istruzione» concernente i poteri degli inquisitori, la loro entità, il loro esercizio, e i loro fondamenti. Questo piccolo trattato venne compilato su modello degli scritti scolastici e giuridici del tempo, e cioè, è arruffato di divisioni e suddivisioni, ed il testo affoga in una massa di riassunti di editti imperiali, di consultazioni di giuristi, di costituzioni apostoliche passate o no nel Corpus juris canonici.
«La quinta parte costituisce il caposaldo dell’opera di Bernard Gui. E’ intitolata «Metodo, arte, e procedura per la ricerca e l’interrogatorio degli eretici, dei Credenti e dei complici loro». Vi si trova un esposto metodico delle dottrine e dei riti in voga presso i Catari, i Valdesi, i Pseudo-Apostoli, i Beghini e le Beghine ed esempi di interrogatori. L’autore non dedica che brevi pagine agli Ebrei convertiti che ritornano alla loro religione, agli stregoni, agli invocatori di demoni, agli indovini. Dà pure copia degli atti di procedura relativi a queste diverse specie di eretici».
L’altro famoso manuale, il più metodico e meglio composto, è il Directorium inquisitorum (1376) dell’altro domenicano Nicolau Eimeric (arricchito ed ampliato nel 1578 da commenti e note di Francisco Peña) inquisitore tra il 1357 ed il 1397 nel nord della Spagna e malvisto dai sovrani del luogo per il suo essere tropo zelante e quindi passato al seguito del Papa Gregorio XI come cappellano e del Papa Clemente VII prima ad Avignone poi a Roma. Il manuale è diviso in tre parti: la prima espone cosa sia la fede cattolica; la seconda è conseguenza della prima perché descrive le differenti eresie in relazione ai doveri dell’Inquisizione; la terza parte è quella operativa dove si enumerano le istruzioni per gli inquisitori, le regole, le procedure, le pene. Da questi manuali, da bolle, da atti di concili, da regole e decreti è possibile ricostruire un processo dell’Inquisizione.
LE INDAGINI DELL’INQUISIZIONE
E’ difficile tracciare un quadro uniforme dell’organizzazione anche logistica dell’Inquisizione e della procedura inquisitoriale. Si possono rintracciare alcuni caratteri schematici comuni ma questi non cancellano i moltissimi e diversissimi abusi e deviazioni che da questo quadro furono fatti.
Scrive Lea che
Semplice, ma efficace, era l’organizzazione dell’Inquisizione. Non si curava affatto di sbalordire gli spiriti colla magnificenza, cercava piuttosto di paralizzarli col terrore. La ricchezza delle vesti e gli splendori del culto, la solennità delle pittoresche processioni ed il lungo codazzo degli inservienti, erano cose che lasciava completamente ai prelati del clero secolare. L’inquisitore era rivestito dell’abito semplice del proprio Ordine. Quando faceva la sua comparsa in una città, era accompagnato, al massimo, da un piccolo gruppo di familiari armati, una parte dei quali gli serviva di scorta per la sua personale sicurezza, e l’altra doveva eseguire i suoi ordini. Il principale teatro della sua attività si trovava costituito all’interno del Sant’Uffizio, da dove lanciava i suoi ordini e disponeva della sorte di intere popolazioni, avvolgendosi in un silenzio ed in un’aria di mistero che impressionavano la fantasia popolare ben più della magnificenza esteriore dei vescovi. In seno all’Inquisizione, tutto quanto si operava veniva fatto in vista di un’utilità e non per apparenza. Era un edificio elevato da uomini seri, risoluti, completamente dediti ad un’idea, da uomini che sapevano ciò che volevano, e tutto facevano convergere ad un solo fine, rigettando implacabilmente da sé tutto ciò che potesse in qualunque modo imbarazzare la loro attività, il raggiungimento di quell’ideale di giustizia nel quale consisteva tutta la loro missione. [...] I distretti affidati all’azione dei frati, in linea generale, erano regolati come le province degli Ordini mendicanti, di cui i provinciali dovevano eleggere gli inquisitori, ed ogni provincia comprendeva non pochi vescovadi. Sebbene il capoluogo di ciascuna provincia colla propria casa dell’Ordine e le proprie prigioni venisse considerato come sede dell’Inquisizione, l’inquisitore aveva anche il dovere di viaggiare continuamente alla ricerca degli eretici, di visitare continuamente quelle località in cui si sospettasse celata l’eresia, di visitare il popolo, di raccoglierlo in vari luoghi, come in altri tempi facevano i vescovi durante i loro giri pastorali, e di promettere, inoltre, un’indulgenza variante dai venti ai quaranta giorni a tutti quelli che rispondessero al suo appello. [...]
Gli inquisitori organizzarono anche una sede in ogni città dove convocavano chiunque avessero ritenuto opportuno. Ma questo sollevò molte proteste. Iniziarono a far visite in differenti città ma qui la gente si accordava per non denunciare nessuno. Iniziarono allora delle visite a sorpresa a singole persone sospette e la pratica fu riconosciuta da successive bolle Ad extirpanda che iniziarono in Italia. Prosegue Lea:
Non si potrebbe immaginare nulla di più efficace di tali visite, e sebbene, col passar del tempo, quando si perfezionò ed occupò un’importanza maggiore il sistema delle spie e dei familiari, o quando gli eretici erano stati quasi sterminati, esse venissero quasi a cedere in disuso, pure, per tutto il tempo in cui l’Inquisizione dovette lavorare molto, costituirono una parte importante delle sue funzioni. Alcuni giorni prima del suo arrivo, l’inquisitore avvisava le autorità ecclesiastiche perché ad una data ora dovessero radunare il popolo, annunziando le indulgenze che verrebbero concesse a coloro che si fossero presentati. Non di rado, a quest’ordine di convocazione gli inquisitori facevano seguire una sentenza di scomunica contro coloro che non si presentassero, ma ci viene detto che questo era un abuso di potere, e le scomuniche cosi lanciate non erano riconosciute come valide. Alla popolazione radunata, l’inquisitore teneva un sermone sulla purezza della fede, servendosi di tutta la sua eloquenza per eccitarli a difenderla; poi ordinava a tutti gli abitanti di un certo raggio della località di presentarsi entro il termine di sei o dieci giorni e di rivelargli quanto potessero sapere intorno alle persone colpevoli di eresia, oppure sospettate di eresia o che avessero parlato contro un articolo della fede, o che tenessero un genere di vita diverso da quello della grande maggioranza dei fedeli. Chi trascurasse di obbedire a questo comando era inesorabilmente colpito da scomunica, dalla quale poteva esser assolto dal solo inquisitore: chi ubbidiva, invece, era ricompensato con un’indulgenza di tre anni. Contemporaneamente, l’inquisitore proclamava un tempo di grazia, che doveva variare tra i quindici e i trenta giorni, durante i quali ogni eretico che venisse a presentarsi spontaneamente, confessando i suoi errori, abiurandoli e dando le informazioni più complete che potesse riguardo ai suoi correligionari, era assicurato dall’immunità. Tale immunità spesso variava, talvolta era senza riserva, tal’altra non si estendeva se non all’esenzione dalle pene più severe, come la morte, la prigione, la confisca o l’esilio. [...] Spirato il tempo di grazia, rimaneva sottinteso che non si sarebbe più perdonato a nessuno; durante questo tempo, l’inquisitore doveva rimanersene in casa, per essere pronto a ricevere le denunzie e le confessioni; e, per rendergli più facile e spedito l’esame di coloro che si presentassero, furono redatte preliminarmente delle lunghe serie di interrogatori. Non più tardi del 1387, fra Antonio Secco, quando attaccò gli eretici delle vallate valdesi, incominciò col pubblicare nella chiesa di Pinerolo una dichiarazione, secondo la quale chiunque fosse venuto a denunziarsi od a denunziare altri durante gli otto giorni del tempo di grazia, sarebbe sfuggito ad ogni pubblico castigo, eccettuato quello annesso al delitto di spergiuro commesso dinnanzi all’Inquisizione, e tutti coloro che non si fossero presentati sarebbero stati denunziati come scomunicati.
Bernardo Gui ci assicura che tal modo di agire era utilissimo, non solo perché provocava molte felici conversioni, ma anche perché forniva informazioni su eretici che altrimenti sarebbero rimasti ignoti, poiché chi si convertiva era obbligato a denunziare tutti quegli eretici che conosceva o che sospettava fossero eretici, ed insiste con compiacenza particolare sull’efficacia di questo sistema per riuscire a catturare i perfetti catari, i quali avevano l’abitudine di starsene nascosti ed era assai difficile venissero traditi, a meno che ciò non accadesse da parte di persone nelle quali essi avessero riposta la loro fiducia. Cosi, è facile immaginarsi il terrore che invadeva una comunità appena l’inquisitore vi faceva la sua improvvisa comparsa e pubblicava il proprio manifesto. Non c’era nessuno che fosse in grado di sapere con esattezza quali chiacchiere circolassero sul proprio conto, chiacchiere che potevano facilmente venir esagerate dallo zelo fanatico di qualcuno o da qualche suo nemico personale, il quale poteva servirsene per comprometterlo nell’opinione dell’inquisitore; in tal modo ne soffriva tanto l’ortodosso quanto l’eretico. Tutti gli scandali che avessero fatto il giro del paese, passando di bocca in bocca, era facilissimo venissero in luce. L’uomo cessava dall’aver confidenza nell’uomo. Rancori a lungo covati sotto la cenere potevano essere appagati con tutta sicurezza. Chi avesse nutrito qualche propensione per l’eresia, con ragione poteva tremare: egli non aveva più un momento di riposo poiché era obbligato a pensare che una sola parola proferita a caso poteva esser riportata dai suoi vicini e dagli amici suoi più cari; preso da questa ossessione, egli finiva per cedere alla paura e tradiva gli altri temendo di essere tradito. Gregorio IX si compiaceva di citare casi in cui i genitori denunziarono i loro figli, i mariti le loro donne e le mogli i loro mariti. Possiamo prestar fede a Bernardo di Gui, quando ci dice che ogni rivelazione ne portava con sé altre, fino a che l’invisibile rete si stendeva in lungo ed in largo per tutto il paese, aggiungendo che le numerose confische alle quali questo sistema dava l’avvio non rappresentavano l’interesse minore che se ne traeva. [...]
Queste operazioni preliminari si compivano, in linea generale, dentro le mura del convento dell’Ordine al quale apparteneva l’inquisitore, se qualche convento di quell’Ordine si trovava in quella regione; in caso contrario, si compivano nel palazzo vescovile. Altre volte si requisivano a questo scopo la chiesa oppure gli edifici comunali, poiché le autorità civili ed ecclesiastiche erano tenute ad aiutare con tutti quei mezzi che avevano disponibili. Tuttavia, ogni inquisitore aveva necessariamente il suo quartiere generale, dove depositare – per essere poi riposte in luogo sicuro – le deposizioni degli accusatori e le confessioni degli accusati, conducendo con sé quei prigionieri che aveva creduto doversi assicurare, portandoseli dietro con una scorta che le autorità civili erano obbligate a fornirgli. Quanto agli altri, purché deponessero una cauzione sufficiente ad assicurarlo della loro puntualità, li lasciava a piede libero, citandoli a comparire davanti al suo tribunale per un dato tempo. Anticamente, la sede del tribunale dell’inquisitore era il convento dei Mendicanti, e le prigioni pubbliche o vescovili erano a sua disposizione per custodire al sicuro i prigionieri; in seguito furono innalzati edifici speciali, provvisti di celle e delle necessarie prigioni, in cui quei poveri infelici si trovavano continuamente sotto la sorveglianza dei loro futuri giudici; codeste celle erano costruite lungo il muro e si chiamavano murus, per distinguerle dalle prigioni propriamente dette, che si chiamavano carcere. È qui che, in generale, si istruiva la procedura giudiziaria, anche se si fa spesso parola del palazzo vescovile, soprattutto in quei casi in cui il vescovo si dimostrasse zelante e cooperasse coll’inquisitore. [...]
Generalmente, il processo veniva fatto da un solo inquisitore, ma qualche volta anche da due insieme. Tuttavia uno solo bastava; in generale aveva degli aiutanti, che gli preparavano i casi, e procedevano alle prime interrogazioni. Aveva il diritto di chiedere al provinciale quel dato numero di assistenti che reputasse necessari; non aveva però il diritto di sceglierli da sé. In certi casi, quando un vescovo era animato da zelo persecutivo, accettava egli stesso di adempiere la funzione di assistente, ed ancor più frequente era il caso in cui tale funzione era esercitata dal priore domenicano del convento locale. Quando lo Stato sopperiva alle spese dell’Inquisizione, sembra avesse avuto un certo diritto di revisione sul numero degli assistenti. [...] Data la grande estensione del territorio abbracciato da ogni distretto inquisitoriale, la divisione di lavoro si imponeva assolutamente, soprattutto durante il periodo primitivo, poiché gli eretici erano numerosissimi ed era necessario un gran numero di inquisitori. Tuttavia, il diritto formale di designare dei commissari forniti di pieni poteri sembra non sia stato concesso agli inquisitori prima di Urbano IV (1262), e questo privilegio, verso la fine di quel secolo, dovette esser riconfermato da Bonifacio VIII. [...] Gli inquisitori, in generale, erano persone totalmente digiune in fatto di diritto. Nella maggior parte dei casi, ciò importava ben poco poiché la procedura era estremamente arbitraria e ben di rado un accusato osava lagnarsene, ma qualche volta si imbattevano in vittime che non amavano lasciarsi sgozzare senza opporre resistenza, ed allora era necessario interpellare una persona che si intendesse di legge e delle responsabilità che vi erano inerenti. Infatti, Eymeric raccomanda a ciascun commissario di assicurarsi l’aiuto di qualche discreto avvocato, per evitare errori che potrebbero recare danno al buon nome dell’Inquisizione, provocare l’ingerenza del papa e forse anche costargli il posto che occupava.
Siccome il segreto assoluto divenne il carattere essenziale di tutti i processi dell’Inquisizione appena passato il primo periodo di incertezza e di incubazione, fu regola universale che le testimonianze carpite, tanto ai testimoni quanto agli accusati, non dovessero esser raccolte se non alla presenza di due testimoni imparziali, estranei all’Inquisizione, dopo aver giurato di mantenere il segreto. L’inquisitore poteva costringere chi voleva per compiere quest’atto. Codesti rappresentanti del pubblico erano di preferenza dei membri del clero, generalmente domenicani, “uomini prudenti e religiosi”, i quali dovevano firmare, insieme al notaio, il processo verbale delle deposizioni per attestarne l’esattezza. [...] Però, in questa, come in tutte le altre cose, l’inquisitore faceva legge, e si prendeva gioco come meglio credeva delle leggere restrizioni che i papi avevano posto al suo potere. [...] Poco tempo dopo, Eymeric s’incaricò di mostrare come fosse possibile farla in barba a questa regola, quando fosse d’impaccio; ciò si poteva effettuare assicurandosi la presenza di due persone oneste alla fine dell’interrogatorio, dopo che la testimonianza fosse stata letta al suo autore. Nessun altro poteva assistere al processo, e per alcuni anni, verso la metà del secolo XIII, non si fecero eccezioni se non ad Avignone, dove i magistrati ottennero momentaneamente per loro e per alcuni signori il diritto di assistere ai dibattiti. In tutti gli altri paesi quei poveri infelici che difendevano la vita loro contro i loro carnefici in veste da giudici, si trovavano alla mercé dell’inquisitore e delle sue creature.
Il personale del tribunale dell’inquisitore era al completo colla persona del notaio, il quale, nel Medioevo, era un funzionario di considerevole importanza e stimatissimo. Tutto il procedimento dell’Inquisizione, tutte le domande e le risposte venivano consegnate allo scritto; ogni testimonio ed ogni accusato era obbligato a certificare la propria deposizione dopo esser stata letta alla loro presenza alla fine dell’interrogatorio, e allora il giudice pronunziava la sua sentenza in base alle testimonianze cosi raccolte. [...] Nei tempi più antichi si potevano esigere servigi da qualunque notaio, dando la preferenza ad un domenicano il quale al secolo fosse stato notaio, ma se non si trovava disponibile alcun notaio, l’inquisitore aveva facoltà di designare due persone discrete che sostituissero l’opera del notaio mancante.
Compito degli inquisitori era quello di ricercare: gli eretici in senso stretto, quelli che avevano professato l’eresia come adepti ed avevano accettato tutte le regole dell’eresia; i credenti, ovvero quelli che avevano aderito ad una eresia senza sottomissione ad ogni sua legge; i sospetti e cioè quelli che seguivano le prediche degli eretici e si poteva essere sospetti in tre modi di crescente gravità, simpliciter, vehementer, vehementissime; i celatores, coloro che non denunciavano e non avrebbero denunciato gli eretici; i receptatores, coloro che avevano dato asilo con vitto ed alloggio, almeno due volte, agli eretici; i defensores, coloro che avevano quovismodo difeso gli eretici; i recidivi, coloro che dopo il giuramento erano ricaduti in un errore precedente. Per essere comunque punibili era necessario un qualunque atto materiale e ciò mostra che non era l’errore in sé ad essere perseguito ma il fatto che esso si diffondesse attraverso appunto azioni materiali. In linea teorica gli inquisitori dovevano essere integri e su di loro erano inviate relazioni alla Santa Sede. Ognuno di essi aveva l’obbligo di denunciare il collega che commettesse qualche irregolarità. Bernard Gui ne fornisce la seguente immagine:
«L’Inquisitore deve esser diligente e fervido nello zelo per la verità religiosa, la salute delle anime e l’estirpazione dell’eresia … Fra difficoltà, e incidenti avversi, deve mantenersi calmo, non lasciarsi trasportare dalla collera, né dall’indignazione. Deve essere intrepido, affrontare il pericolo fino alla morte; ma, pur non indietreggiando dinnanzi a questo non deve lasciarsi trasportare da irriflessiva audacia. Deve esser insensibile alle preghiere, alle pressioni di chi tenta di conquistarla; ciononostante non deve essere inflessibile al punta di rifiutar tregue, a mitigazioni di pene, secondo le circostanze ed il luogo.
«Nelle questioni dubbie, deve esser circospetto, e non credere facilmente a quanto sembra probabile, che spesso inganna, poiché, quanto sembra improbabile finisce spesso per costituire la verità. Deve ascoltare, discutere, ed esaminare con tutto il suo zelo, onde poter pazientemente giungere alla verità. Che l’amore della verità e della pietà indivisibili compagne nel cuore di un giudice, splendano nei suoi occhi affinché le sue decisioni possano sempre apparire probe e non dettate dalla cupidigia e dalla crudeltà». [citato da Guiraud]
Altre richieste ripetute da successivi papi alle caratteristiche di un inquisitore furono: un’età di almeno quarant’anni, qualità di spirito, purezza di costumi, scrupolosa onestà, cultura, conoscenza della teologia e del diritto canonico. La mancanza di questi requisiti, che evidentemente erano autocertificati, comportava la punizione degli inquisitori. A volte venivano cacciati, altre scomunicati, altre ancora imprigionati. Naturalmente le stesse pene erano comminate ai collaboratori dell’inquisitore, ai commissari, ai notai, agli scrivani, agli impiegati.
LA PROCEDURA INQUISITORIALE
Una volta che era costituito il Tribunale, l’inquisitore, con l’aiuto di commissari e scrivani faceva la lista degli eretici e dei sospetti. Costoro venivano citati ad apparire davanti al tribunale da un avviso a domicilio del parroco (che al massimo veniva ripetuto tre volte) e da avviso domenicale letto in Chiesa. Se l’imputato non si presentava veniva scomunicato, il processo era sospeso per un anno alla fine del quale la scomunica era definitiva. Quando l’eretico o il sospetto era persona importante o potenzialmente pericolosa si procedeva ad arresto preventivo da parte di guardie del tribunale. Ma poiché tutti coloro che non collaboravano con il tribunale, fino al medesimo principe, erano accusati di eresia, quasi sempre le volontà del tribunale erano eseguite da parte dell’autorità civile. Agli accusati che arrivavano davanti al tribunale venivano letti i capi di imputazione. Quasi sempre gli accusati chiedevano chi era l’accusatore ed era nella discrezione dell’inquisitore dare questa informazione, che molto spesso si rifiutava di farlo. Ciò, a giudizio quasi generale, era una violenza assurda che non permetteva alcuna difesa da denunce non viste e da vari testimoni non conosciuti. Il quasiusato è relativo a qualcuno (come lo storico cattolico dell’inquisizione, ma esegeta della Chiesa, Thomas de Cauzons) che candidamente e vergognosamente dice che coloro che denunciavano dovevano essere protetti da ritorsioni degli accusati e senza tale protezione nessuno avrebbe denunciato. Anche quell’anima nera di Bonifacio VIII riuscì ad ammettere che qualche nome di denunciante andava fornito all’accusato. In realtà lo fece su sollecitazione degli ebrei di Roma che gli chiesero espressamente di non essere indifesi di fronte a varie accuse. Bonifacio si convinse … dietro pagamento di una grossa somma. Vi era comunque un minimo di garanzia per l’accusato perché veniva invitato, prima dell’inizio del processo, ad elencare i suoi mortali nemici e per quale ragione lo fossero. L’inquisitore se trovava quei nomi tra gli accusatori doveva toglierli. Inoltre se per qualche motivo saltava fuori un falso testimone, veniva trattato come eretico. In genere dopo il giudizio la pena era la prigione a vita, incatenati mani e piedi (a volte con collare), alimentati a pane ed acqua.Lo svolgimento del processo, secondo Gui che si rifaceva a norme approvate nel concilio di Albi del 1254, non doveva essere come quelli civili ordinari. L’inquisitore doveva arrivare subito alle conclusioni senza perdere tempo con avvocati, eccezioni di diritto, procedimenti dilatori, giurisdizioni. Varie volte però alcuni tribunali ammisero avvocati e l’ammissione di ciò fu anche dell’inquisitore Eimeric che lo scrisse nel suo manuale.L’accusato di eresia veniva invitato a discolparsi da sé sia rispondendo alle domande sia presentando documenti e/o memoriali sia invocando il diritto (cioè un avvocato). L’imputato poteva richiedere che a suo discarico fossero sentiti dei testimoni e poteva infine rifiutare certi giudici per i più svariati motivi. In tal ultimo caso decideva l’inquisitore e, in casi estremi, lo stesso Papa. L’interrogatorio doveva fornire delle garanzie all’imputato e per questo doveva avvenire davanti a dei probiviri (inizialmente 2, poi diventati anche 20) che prima della sentenza davano il parere sullo svolgimento del processo. I probiviri erano generalmente laici appartenenti alla borghesia di giureconsulti e comunque appartenenti a famiglie con cariche municipali che sapevano di diritto e che in taluni casi intervenivano per riportare sulla retta via un processo che andava verso un palese arbitrio. Queste persone erano le stesse che negli anni avevano maturato un forte senso di anticlericalismo (non antireligione) per gli abusi a cui avevano assistito e quindi erano tendenzialmente a favore degli imputati.I giudici non gradivano testimonianze e contraddittori ma la confessione dell’imputato. Nel manuale di Gui si prometteva di risparmiare la vita o di esimere dalla prigione e dall’esilio tutti coloro che spontaneamente avessero confessato i loro errori. Se questo tentativo non portava alla confessione, si passava direttamente alla tortura. Anche se di questa pratica nei resoconti dei procedimenti vi sono poche tracce, per evidenti motivi. Ed anche perché, se la confessione era avvenuta sotto tortura, l’imputato era obbligato a confermare la confessione a tortura terminata, quando si era ripreso. La trascrizione di tale confessione era riportata come confessione spontanea che, essendo spontanea, non poteva essere stata ottenuta tramite tortura. Nei manuali si diceva che si doveva ricorrere alla tortura solo in casi gravi e quando si aveva una mezza prova (sic!) di colpevolezza. Ed era definita mezza prova o l’insieme di due indizi, o la deposizione di un testimone, o la cattiva reputazione, o i cattivi costumi, o il tentativo di fuga. Come dire che ciascuna ha una mezza prova di colpevolezza. Si può bene capire che questa era mera teoria in un tribunale in cui non vi erano garanzie di difesa ed in cui la condanna dell’imputato comportava spesso l’arricchimento di varie autorità, non ultima la Chiesa. Dice il cattolico Guiraud che la tortura “non veniva inflitta se non quando gli altri sistemi di investigazione erano esauriti. Infine non si lasciava all’inquisitore, eccitato forse dalla foga della ricerca della verità, l’arbitrio di ordinarIa. Occorreva perciò un giudizio speciale, ed a questo giudizio dovevano partecipare il vescovo od un suo rappresentante. Questa misura fu presa nel 1311, dal papa Clemente V, al concilio di Vienna. Quando i dibattiti del processo erano terminati, e la difesa aveva detto la sua ultima parola, non rimaneva che pronunziare la sentenza. Anche questa non veniva lasciata all’arbitrio dell’inquisitore e dei suoi commissari, ma discussa e deliberata da un consiglio ove l’inquisitore teneva conto dèl parere dei probiviri che avevano seguito l’interrogatorio. Questo è quanto afferma il Manuale di Bernard Gui. «L’inquisitore – dice – aveva l’obbligo di sentir l’opinione dei consulentes …» faceva il riassunto delle accuse e delle confessioni e le sottoponeva loro; taceva il nome dell’imputato per sventare ogni parzialità, e chiedeva «il parere sulla colpevolezza e sulla pena». Ciò afferma lo stesso testo delle sentenze di assoluzione o di accusa.” L’assoluzione si era avuta in vari casi quando le prove erano palesemente inconsistenti, quando l’imputato resisteva a detenzione e tortura. Quando i processi saranno contro le streghe si avrà una situazione diversa perché la stregoneria spaventava le popolazioni e spesso un inquisitore che assolveva si scontrava con l’autorità civile che voleva la condanna ed era minacciato dagli abitanti del paese o territorio in cui operava la strega. Sulla conclusione del processo scrive Cardini:In linea di principio, la condanna poteva essere formulata solo in seguito a confessione o all’esibizione di prove sicure. Il giudizio doveva essere pronunziato soltanto con il concorso dell’ordinario della diocesi nella quale si trovava l’inquisitore; su questo i papi del Duecento espressero pareri differenti, ma Bonifacio VIII assunse una decisione definitiva. La sentenza si pronunziava durante una seduta solenne, definita anch’essa sermo generalis e dotata d’un forte valore simbolico e spettacolare: è quello che gli spagnoli avrebbero chiamato auto de fe e i portoghesi auto da fé [atto di fede]. Esso si celebrava di solito la domenica mattina, in un luogo importante come il sagrato d’una grande chiesa: i rei confessi e pentiti ascoltavano in ginocchio l’enunziato della grazia loro accordata e della cancellazione della scomunica e pronunziavano l’abiura dei loro passati errori; venivano quindi pronunziate le sentenze di condanna, dalle più leggere alle più gravi. Prima della sentenza, gli imputati potevano appellarsi al sommo pontefice, ma era discrezione del tribunale accettare o no tale appello. Contro le sentenze non era ammesso alcun ricorso in sede superiore.
Le condanne più dure erano quelle, in ordine crescente, alla confisca dei beni, alla prigione e a morte. Quest’ultima riguardava i rei “impenitenti” – che cioè, convinti d’eresia, rifiutavano di abiurare e di chieder perdono – e i relapsi, cioè quelli che, dopo aver confessato, ritrattavano una confessione formalmente resa e mostravano di voler tornare all’errore. La Chiesa consegnava allora il reo al “braccio secolare”, raccomandando di risparmiargli mutilazioni ulteriori (ch’erano invece previste e praticate nei preliminari delle condanne a morte laiche). I rei “impenitenti” potevano anche pentirsi in extremis, davanti al rogo, ma in questo caso erano tenuti a denunziare i loro complici ed erano condannati comunque alla prigione a vita. I relapsi non avevano questa risorsa, ma potevano ricevere l’eucarestia. La morte sul rogo era comunque, spesso, alleviata dal fatto che i carnefici strangolavano il condannato prima che le fiamme cominciassero a bruciarlo.
La pena carceraria si distingueva a seconda delle colpe del condannato in murus largus – detenzione che consentiva moto, lavoro, perfino occasionali licenze (per le donne in occasione di eventuale parto) – e murus strictus, detenzione in catene in una stretta e buia cella. La confisca dei beni o le pene pecuniarie potevano venir sostituite, in caso d’insolvibilità del reo, da pellegrinaggi (il passagium ultramarinum, la crociata, era essa stessa un pellegrinaggio e poteva esser compiuta come espiazione). Il reo doveva portare sull’abito anche particolari signa super vestem, ch’erano segni d’infamia: mitrie e croci gialle gli eretici (il giallo come “colore d’infamia” era stato riservato dal Concilio lateranense IV anche alla rota imposta agli ebrei); lingue rosse i calunniatori che avevano reso falsa testimonianza accusatoria; ostie i sacrileghi.
Una pena minore era anche la flagellazione, che si accompagnava a una processione solenne e all’offerta, da parte del condannato, di un cero.
Le case nelle quali un eretico avesse trovato asilo dovevano essere abbattute. In caso di processi d’eresia intentati contro defunti, se ne veniva riscontrata la colpevolezza, si procedeva all’esumazione e al rogo dei cadaveri.
Riguardo all’imposizione di simboli sui vestiti degli accusati di vari reati connessi con l’eresia, c’è da aggiungere che essi dovevano essere visibili con chiarezza e per questo erano croci di color giallo o rosso su abito scuro. Spesso le croci erano due, una sul davanti e l’altra sul di dietro. I catari avevano diritto a tre croci, la terza sul cappello per gli uomini e sul velo per le donne. Si imponevano anche abiti di forme e colori speciali: un mantello nero, un cappuccio ornato dalla croce, un cappello a forma di mitria.
Altra odiosa conseguenza era la condanna che si estendeva alla famiglia, con gli sciocchi storici cattolici che scrivono che anche altri lo facevano, ad esempio lo facevano gli imperatori cristiani Arcadio ed Onorio (V secolo) la Chiesa antica contro Manichei. I familiari, figli e nipoti, del condannato subivano l’inabilità civile ed ecclesiastica del condannato medesimo, non potevano occupar cariche ed esercitare funzioni civili e religiose e chi aveva cariche e funzioni le perdeva.
Sulla pensa di morte mediante rogo, le anime candide cristiane dicono che in realtà la Chiesa non voleva ciò. Probabilmente anche perché, come Lea ha scritto, è molto più utile un convertito pronto a tradire i suoi amici che un cadavere arrostito. Erano i cattivi che non si convertivano che la Chiesa doveva abbandonare alla giustizia civile e che solo quest’ultima operava. Su questa posizione farisea mi astengo da commenti. Scrive a proposito il cattolico Guiraud:
Nel XIII secolo un apologista cattolico ragionava così :«Il nostro papa non uccide, né ordina che nessuno venga ucciso: è la legge che dà la morte a coloro che il papa permette di uccidere, e sono essi stessi che si condannano facendo cose, per le quali incorrono nella pena capitale». Oggi si sostiene che, nei processi finiti coll’esecuzione del colpevole, l’inquisitore agiva solo da esperto per constatare il delitto contro il quale il potere civile aveva già decretato la morte, e che, in realtà, responsabile della morte era la giurisdizione che l’aveva ordinata, cioè il potere civile.
Questi ragionamenti sono troppo sottili; infatti l’Inquisizione sapeva benissimo che consegnando l’eretico al braccio secolare, lo abbandonava al rogo, primo perché sapeva che le leggi civili gli avrebbero inflitto la morte, secondo perché essa stessa incitava il potere civile ad applicare questa pena.
Non era in facoltà del potere civile rilasciare gli eretici che gli venivano abbandonati dal Santo Ufficio; il giudice, il signore che l’avesse fatto avrebbe dato l’impressione di protegger l’eresia, e di non assecondare l’Inquisizione, ciò sarebbe bastato per deferirlo al tribunale dell’Inquisizione.
Il giudice era tenuto a pronunciare ed a far eseguire contro gli eretici l’animadversio debita: con queste due parole, si designava la morte.
Ciò è quanto diversi papi proclamarono successivamente nelle Decretali che presero posto nel Corpus juris canonici di Gregorio IX, e nelle bolle ripetute nei Manuali degli Inquisitori. Lucio IlI, nella sua costituzione di Verona, nel 1184, diceva: «l’eretico rimesso nelle mani dell’autorità civile, dovrà esser da questa punito «debitam recepturus pro qualitate ultionem»; Innocenza III, al concilio del Laterano del 1215 gli faceva eco: «damnati vero princibus saecularibus, potestatibus aut eorum ballivis relinquantur, animadversione debita puniendi». Innocenzo IV diceva, nella sua famosa bolla Ad extirpanda: «Quando gli individui saranno stati condannati per eresia, dal vescovo, dal suo vicario, o dagli inquisitori, e consegnati al braccio secolare, il podestà o rettore della città dovrà riceverli subito e entro cinque giorni al massimo applicar le leggi che saranno state invocate contro di loro».
Non avremo dunque nessuna difficoltà a riconoscere, poiché i testi ce lo provano, che l’Inquisizione si addossò la responsabilità delle sentenze che il potere civile pronunziava in seguito al suo giudizio.
Possiamo anche aggiungere che la pena del rogo, che rivolta la nostra sensibilità, non fu instaurata dalla Chiesa, ma dal potere civile: dagli imperatori romani contro i Manichei, da Roberto il Pio contro i Neo-manichei di Orléans, ed infine dall’imperatore Federico II il quale nella sua costituzione del 1224 ordinò che l’eretico, dichiarato tale a giudizio dell’autorità religiosa, venisse bruciato in nome dell’autorità civile «Auctoritate nostra ignis judicio concremandus». [si noti il relativismo che farebbe invidia a Ratzinger, ndr]
[...] L’autorità civile aveva come massimo, cinque giorni per pronunciare ed eseguire le sentenze di morte degli eretici; in pratica questo periodo poteva esser protratto o diminuito. [...] In altri casi era dopo il sermo generalis che aveva luogo il processo civile che condannava a morte, e la sera stessa si accendeva il rogo. A volte invece si attendeva una vicina festa per l’esecuzione di un sì terribile supplizio.
La Chiesa, consegnando i condannati al braccio secolare, li raccomandava alla sua clemenza: in questa formula spesso si è voluto vedere un’ironia di cattivo gusto. Escludo: con queste parole il giudice ecclesiastico voleva impedire quei supplizi accessori che precedevano la morte, e costituivano una crudele aggravante alla pena. Non ammetteva l’applicazione del ferro rovente, le mutilazioni di membra, le lacerazioni del corpo, col supplizio della ruota che, fino al XVIII secolo, praticò la giustizia secolare e che [...] eccitarono la malsana curiosità delle donne più delicate e più «sensibili». A volte, l’Inquisizione fece dei processi postumi. [...]
Questi rigori inquisitoriali sono spaventosi e ci si spiega come i nemici della Chiesa ne abbiano approfittato per bollare di crudeltà i tribunali del Santo Ufficio. Ma la descrizione che ne fanno è incompleta, e perciò, ingiusta; dato che si tengono al testo della legge penale, senza preoccuparsi del modo in cui veniva applicata, e mettono in: tragica luce le severe esecuzioni, tacendo le misure di mansuetudine e di perdono. Lo storico imparziale, prima di ogni cosa preoccupato della verità, deve perpetuamente confrontare il testo delle leggi alla loro applicazione. [...]
L’inquisitore Bernard Gui e dopo lui Eimeric nei loro Manuali proclamano il diritto dell’inquisitore di diminuire, attenuare, commutare ed anche condonare le pene dei detenuti.
E questo è un cattolico abbastanza imparziale che pure si mette ad affrontare questi problemi cercando sciocche giustificazioni. Occorre confrontare le leggi con la loro applicazione, dice. E le leggi così crudeli chi le ha fatte ? Ma poi, il significato stesso del torturare fino alla liberazione della morte delle persone che sono diversamente cristiane, perché di questo si tratta, che senso ha ? A tal proposito scrivono opportunamente Baigent e Leigh:
Gli inquisitori erano consapevoli che alcuni eretici, nel loro fanatismo, anelavano a raggiungere prima possibile il martirio, ma il “concederglielo non faceva assolutamente parte del piacere dell’inquisitore” [Lea]. In casi simili, si usavano il tempo e la sofferenza continua per annichilire la nefasta vocazione al martirio: gli inquisiti ricalcitranti venivano perciò sottoposti a tormenti più leggeri e più prolungati. Si raccomandava ufficialmente che fossero tenuti in catene nella cella di una segreta, in completo isolamento, per almeno sei mesi, spesso per un anno o più. Poteva essere occasionalmente concesso alla moglie o ai figli di visitare l’accusato, per indurre in lui una modifica di atteggiamento. Anche ai teologi potevano essere consentite le visite, perché tentassero la via della persuasione con la logica o con 1′esortazione.
Per quanto forte fosse la riluttanza a comminare la pena di morte, le condanne capitali erano piuttosto frequenti. In questo caso, l’ipocrisia clericale si mostrava con palese evidenza. Non potendo essere loro a eseguire la condanna, perché sarebbero apparsi cattivi cristiani, gli inquisitori erano obbligati a inscenare un cerimoniale in cui il reo veniva consegnato nelle mani dell’autorità civile, con questa formula di rito:“Vi congediamo dal tribunale ecclesiastico e vi consegniamo al braccio secolare. Ma supplichiamo fervidamente i giudici laici di mitigare la loro sentenza così da evitare spargimento di sangue e pericolo di morte“.
Non era che una formula convenzionale, deliberatamente vuota di senso, che aveva il solo scopo di permettere all’inquisitore di lavarsene le mani, come Ponzio Pilato: era chiaro che quelle parole significavano la condanna al rogo. Perché potesse assistervi il maggior numero di persone, le esecuzioni, quand’era possibile, avvenivano in occasione di festività pubbliche. Il condannato veniva legato a un palo, posto sopra a una catasta di legna secca, abbastanza in alto da poter essere visto dalla folla riunita. In seguito, in Spagna, prima di dar fuoco alla pira, la vittima veniva strangolata per risparmiarle l’atroce agonia tra le fiamme. Ma nei primi tempi, l’Inquisizione non concedeva gesti di misericordia, anche se talvolta il soffocamento da fumo poteva dare al condannato una morte un po’ più rapida. Quando il rituale di combustione era finito, “seguiva il disgustoso procedimento necessario per distruggere completamente il corpo bruciato per metà: farlo a pezzi, rompere le ossa, gettarne i frammenti insieme alle viscere su un nuovo fuoco di legna” [Lea].
Il macabro epilogo era considerato particolarmente importante nel caso di un eretico illustre, per assicurarsi che ai seguaci clandestini non rimanesse alcuna reliquia da trafugare.
Gli inquisitori erano dei contabili estremamente precisi: in riferimento al rogo di quattro eretici, avvenuto il 24 aprile 1323 a Carcassonne, il rendiconto delle spese sostenute specifica le seguenti voci:- “Per il legname grosso: 55 soldi e 6 denari
- Per i tralci di vite: 21 soldi e 3 denari
- Per la paglia: 2 soldi e 6 denari
- Per i quattro pali: 10 soldi e 9 denari
- Per le funi con cui legare i condannati: 4 soldi e 7 denari
- Per i quattro boia, 20 soldi ciascuno: 80 soldi”. [Lea]
C’è una specie di macabra e patetica giustizia in quelle righe: il valore di un boia è quasi pari a quello di otto pali di legno, ma un po’ inferiore a quello di un mucchietto di tralci di vite.
Anche Bernard Gui dà prova di valente ragioniere ed al termine delle sue prestazioni inquisitoriali a Tolosa, dal 1308 al 1322, forniva il seguente resoconto che riprendo da Lea:
Persone consegnate al braccio secolare e bruciate vive 40
Ossa riesumate e bruciate 67
Condanne alla prigione 300
Ossa riesumate di persone che sarebbero
state condannate alla prigione 2lCondanne a portare croci 138
Condanne a compiere pellegrinaggi 16
Esili in Terra Santa 1
Fuggitivi 36
Condanna del Talmud 1
Case da distruggersi 16
Totale 636
Questo quadro si può considerare come una buona pietra di paragone per giudicare circa la frequenza delle punizioni che venivano imposte, e che erano allora in uso.
Rimando ad un paragrafo successivo la descrizione delle pratiche criminali dell’Inquisizione con le varie figure che le illustrano.
L’ANNIENTAMENTO DEI TEMPLARI
Alla morte di Papa Benedetto XI nel 1304, il sovrano Francese, Filippo IV detto il Bello, manovrò opportunamente per far eleggere un Papa amico, l’arcivescovo di Bordeaux che divenne Clemente V, un pupazzo in mano a Filippo. Nel 1309 il papato si trasferì ad Avignone per le mire di Filippo che aveva brame smodate di potere. Uno dei problemi che il pupazzo affrontò, su impellente sollecitazione di Filippo, fu quello dei Cavalieri Templari che ci voleva molta fantasia per giudicare eretici. I termini della questione sono chiaramente descritti da Baigent e Leigh:
All’inizio della “cattività avignonese”, con Clemente V, l’Inquisizione si trovò di fronte a una minaccia del tutto nuova: nel passato si era sempre occupata di dare la caccia agli eretici, mentre ora si trovava a dover contrastare la più potente istituzione della cristianità del tempo, i cavalieri templari. I templari si erano originariamente stabiliti in Terra Santa all’inizio del XII secolo, poco dopo la conquista di Gerusalemme, durante la Prima crociata. Già nel 1300 erano diventati una vasta congregazione, con ramificazioni in tutti i paesi: una vera e propria struttura di potere, seconda per ricchezza e influenza solo allo stesso papato. Se, all’inizio, raccoglieva esclusivamente cavalieri e uomini d’armi, oramai poteva contare su un numero anche maggiore di amministratori, burocrati, operai e braccianti. L’ordine usufruiva di immense proprietà terriere, sparse in tutto il mondo cristiano, non solo nell’ orbita della Chiesa di Roma, ma anche di quella greco-ortodossa di Costantinopoli, dalle quali ricavava legname, prodotti della terra, cavalli, bestiame e prodotti d’allevamento. Possedeva anche un certo numero di navi, che servivano per commerciare lana e generi di prima necessità, e per trasportare i pellegrini dalla Terra Santa.
I templari disponevano della più avanzata tecnologia militare del tempo: le loro risorse in fatto di competenza, materiali e numero di uomini ben addestrati superavano quelle di qualunque altro organismo europeo. Inoltre, erano i più grandi banchieri d’Europa, esperti nei trasferimenti di denaro in (e da) ogni paese e nelle complicate transazioni finanziarie per conto di re, ecclesiastici, nobili e mercanti. A essi si ricorreva per le missioni diplomatiche, per la loro capacità di porsi al di sopra delle parti contendenti. Le loro ambasciate non avevano come meta soltanto i potentati cattolici, ma anche la Chiesa bizantina e i rappresentanti militari, politici e religiosi dell’Islam.
Data questa posizione di preminenza, non sorprende che i templari cominciassero a ispirare un sentimento crescente di invidia e di sospetto. Oltretutto, una certa loro alterigia, una buona dose di dispotica arroganza e di superba presunzione davano adito à più di qualche ostilità. Esistevano, poi, ragioni ben più serie di antipatia nei loro confronti, per lo meno da parte della Chiesa. Fin dall’inizio del Duecento, all’avvio della Crociata albigese, papa Innocenzo III aveva duramente criticato l’Ordine templare, avanzando l’accusa di eccessi e persino di apostasia. Oltre a essere sospettati di rituali misteriosi, si diceva che i templari accogliessero tra le loro fila i cavalieri colpiti da scomunica che, in conseguenza di ciò, riacquistavano il perduto diritto di ricevere sepoltura in terra consacrata. Avevano fama di riservare un trattamento irrispettoso ai messi papali e parevano mostrare una sconveniente tolleranza nei confronti di musulmani ed ebrei. Su di loro gravava anche il sospetto di avere, nel corso della Crociata albigese, messo in salvo un gran numero di eretici, iscrivendoli nel loro ordine; anzi, correva voce che addirittura alcuni dei Gran Maestri templari provenissero da autorevoli famiglie catare.
All’inizio del XIV secolo re Filippo IV di Francia aveva molte buone ragioni per detestare il loro ordine, senza dover aggiungere che ne desiderava ardentemente le ricchezze, perché il bisogno di denaro non gli dava tregua. Già nel 1291 aveva ordinato l’arresto di tutti i mercanti e di tutti i banchieri italiani residenti in Francia, e ne aveva confiscato le proprietà. Nel 1306 aveva scacciato gli ebrei e sequestrato tutti i loro averi. Era quasi inevitabile che finisse per rivolgere la sua attenzione ai templari, come nuova fonte di reddito.
Ma Filippo IV aveva anche fondati motivi per temerli. Dopo la rioccupazione, nel 1291, della Terra Santa da parte dei musulmani, i templari si erano ritrovati senza casa madre e senza quartier generale. Per un certo periodo si erano stabiliti a Cipro, ma l’isola si era dimostrata insufficiente per le loro grandiose ambizioni. Invidiavano i cavalieri teutonici, un ordine affine al loro che aveva fondato un principato autonomo tra la Prussia e il Baltico, all’estremo Nordest europeo, ben oltre la portata di qualunque imposizione papale. I templari sognavano di creare anch’essi un piccolo dominio, ma più vicino al cuore dell’Europa. Le loro mire si concentravano sulla Linguadoca, che non si era ancora riavuta dalle devastazioni provocate dalla Crociata albigese. La prospettiva di uno stato templare autonomo, indipendente e autosufficiente così vicino al suo regno non deve aver lasciato dormire sonni molto tranquilli al sovrano francese.
Perciò Filippo aveva più di una scusa plausibile, e persino qualcuna obiettivamente valida, per muovere contro di loro, e per farlo in modo da potere neutralizzare la minaccia che rappresentavano e contemporaneamente impadronirsi delle loro ricchezze. Naturalmente, il fatto di poter contare sull’appoggio del papa gli tornava utile. Non meno utile gli fu l’avere come confessore personale e intimo amico l’inquisitore di Francia, Guglielmo di Parigi. C’erano evidentemente tutti i presupposti per un conflitto e perché Filippo potesse procedere con una patente di inoppugnabile legalità.
Qualche tempo prima, uno dei ministri del re aveva prodotto contro i templari una raccolta di prove, conservate dai domenicani a Corbeil, dalle quali risultava evidente che l’accusa più appropriata, e forse non del tutto infondata, da muovere contro l’ordine sarebbe stata quella di eresia. Il 14 settembre del 1307 vennero recapitate ai funzionari reali di tutta la Francia alcune lettere nelle quali si ordinava di arrestare, il successivo venerdì 13 ottobre, tutti i templari delle relative giurisdizioni. I membri dell’ordine dovevano essere tenuti sotto stretta sorveglianza e in isolamento, e poi portati uno a uno davanti ai giudici dell’Inquisizione. A ciascuno sarebbero stati letti formalmente i capi d’accusa, e a ciascuno sarebbe stato promesso il perdono se avesse riconosciuto le sue colpe e fosse tornato in seno alla Chiesa. Se un templare si fosse rifiutato di confessare, sarebbe stato inviato immediatamente dal re. Nel frattempo, tutte le proprietà dell’ordine dovevano essere requisite e si doveva compilare un inventario completo di tutti i suoi beni mobili e immobili. Anche se emanati dal re, questi decreti erano ufficialmente promulgati sotto l’autorità dell’inquisitore. In questo modo Filippo IV poteva sostenere di agire unicamente per conto dell’Inquisizione e negare qualunque interesse personale nella faccenda. Per completare ancor meglio la trappola, l’inquisitore in persona, Guglielmo di Parigi, inviò ai suoi referenti in tutto il regno un elenco dei crimini di cui erano accusati i templari e le istruzioni per i loro interrogatori.
Nei mesi che seguirono gli inquisitori dell’intera Francia furono meticolosamente occupati a interrogare centinaia di templari. Molti di quegli sventurati morirono nel corso del procedimento, trentasei nella sola Parigi, altri venticinque a Sens. La maggior parte degli arrestati era o molto giovane e priva di esperienza, oppure anziana, perché un gran numero di appartenenti all’ordine, avvertiti per tempo, riuscirono a salvarsi, e del presunto “tesoro” dei templari che Filippo aveva sperato di espropriare, non fu trovato nulla. O non era mai esistito, o fu messo in salvo di nascosto.
Seguirono sette anni di interrogatori, torture ed esecuzioni, intervallati da processi e ritrattazioni. Nel 1310 quasi seicento templari francesi minacciarono di ritirare le loro confessioni e di difendere il loro ordine di fronte al papa. Quasi settantacinque di loro furono bruciati dall’Inquisizione come eretici abiuri. Alla fine, nel 1312, l’Ordine del Tempio fu ufficialmente sciolto dal papa e, il 19 marzo 1314, due dei più alti dignitari templari, Jacques de Molay, il Gran Maestro, e Geoffroi de Charnay, suo immediato sottoposto, furono bruciati a fuoco lento su un’isola della Senna.
Negli anni che precedettero questo raccapricciante epilogo, le azioni contro i templari furono più assidue nelle zone dove il potere dell’Inquisizione era più forte: in Francia, in Italia, in alcune parti dell’Austria e della Germania. In altre zone la persecuzione dell’ordine fu molto più marginale. In Inghilterra, per esempio, dove l’Inquisizione non aveva mai operato in precedenza, nessuno volle assumersi l’incarico di attuarla. Dunque Filippo IV scrisse a suo genero, l’appena incoronato Edoardo II, e lo esortò a procedere contro i templari. Il re inglese fu contrariato da quell’invito, tanto da scrivere ai sovrani di Portogallo, Castiglia, Aragona e Sicilia, invitandoli a ignorare le pressioni a cui Filippo li stava sottoponendo. Edoardo chiese ai colleghi governanti di non prestare orecchio alle calunnie di uomini di brutto carattere, animati come noi crediamo non dallo zelo della rettitudine, ma da uno spirito di cupidigia e di invidia.
Pressato dalle ostinate insistenze di Filippo, Edoardo alla fine cedette e, nel gennaio del 1308, compì il gesto simbolico dell’arresto di dieci templari. Non fu fatto nulla per tenerli sotto custodia, al contrario, fu loro permesso di andarsene in giro in abiti secolari e di entrare e uscire liberamente dalle fortezze nelle quali dovevano essere imprigionati.
Filippo, naturalmente, non rimase soddisfatto. A metà settembre del 1309, quasi due anni dopo i primi arresti in Francia, l’Inquisizione mise piede per la prima volta in Inghilterra, con il proposito specifico di perseguitare i templari, ma il benvenuto che ricevette non fu per nulla entusiastico; Edoardo, inoltre, proibì agli inquisitori di fare uso della tortura, il solo mezzo con il quale potevano sperare di estorcere le confessioni che bramavano. Contrariati, gli inquisitori si lamentarono con il re di Francia e con il papa. Sotto le pressioni di questi due poteri, Edoardo in dicembre acconsentì con riluttanza a sanzionare una tortura “limitata”, ma i carcerieri inglesi non mostrarono per questa pratica la benché minima inclinazione e gli inquisitori continuarono a sentirsi frustrati.
Nella loro insoddisfazione proposero alcune alternative: i templari avrebbero potuto venire gradualmente privati del cibo, fino a sostentarsi solo di acqua. O forse potevano essere trasferiti in Francia, dove uomini con l’esperienza e l’attitudine adatte avrebbero potuto applicare la tortura in modo adeguato. Edoardo continuò a essere di ostacolo. Solo a metà del 1310, per le rinnovate insistenze del papa, autorizzò controvoglia che venisse usata qualche tortura della intensità richiesta. Alla fine, comunque, in Inghilterra furono arrestati meno di cento templari e si ottennero solo tre confessioni. I tre rei confessi non furono bruciati, ma costretti a fare pubblica confessione dei loro “peccati”, dopo di che vennero assolti dalla Chiesa e mandati in un monastero. In Inghilterra ogni altra accusa mossa contro i templari cadde. Quando l’ordine fu sciolto, quelli che erano rimasti in prigione furono dispersi nei vari monasteri, con un vitalizio per il resto dei loro giorni. Ma, ancor prima, un certo numero di templari inglesi, come già era avvenuto per i francesi, era fuggito in Scozia, che in quel periodo era sotto interdizione papale e il cui re, Roobert Bruce, era stato scomunicato. Di conseguenza, le leggi papali non avevano autorità in quel paese e i cavalieri fuggiaschi potevano sperare di trovarvi un rifugio appropriato.
Quel potente ordine cristiano fu così distrutto. Non rimase nulla se non leggende alimentate dalla Chiesa medesima. L’Inquisizione era diventata uno strumento di potere al servizio di sovrani e papi.
LA STRAGE DEI DOLCINIANI
Mi occupo ora, in breve, della persecuzione di un’eresia che si sviluppò in Italia a cavallo tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo. Qui, più che altrove, non vi sono notizie da fonti indipendenti ma solo degli avversari, dei feroci avversari, dei dolciniani, un altro gruppo di cristiani considerati eretici e massacrati per questo. Neppure riporto le notizie costruite su Dolcino al solo fine di screditarlo fin dalla sua nascita (nascita da un rapporto tra un prete ed una baldracca, poi ladro, … e così denigrando) ma, dopo aver fornito qualche scarna notizia biografica, cercherò solo di situare la nascita di questo movimento e la sua tragica conclusione sotto i colpi implacabili di Inquisizione e Chiesa.Sembra che in origine Dolcino si chiamasse Davide Tornielli e nacque, intorno al 1250, probabilmente a Prato Sesia (Novara). Crebbe a Vercelli educato dal maestro Sion. In gioventù fu probabilmente un francescano o perlomeno compì degli studi regolari, perché mostrò sempre una certa cultura e una buona conoscenza del latino e delle Sacre Scritture.Nel 1291 entrò nel movimento degli apostolici, pauperisti e millenaristi, di Gherardo Segarelli di Parma. Gli Apostolici erano un movimento di penitenza e di ritorno alle origini dell’uguaglianza cristiana e della più stretta povertà francescana. Un movimento cristiano totalmente spirituale senza vincoli esteriori, strumento di Dio per salvare le anime ma in sospetto di eresia e già condannato da Papa Onorio IV nel 1286. Fino al 18 luglio del 1300, data della morte sul rogo dell’Inquisizione del Segarelli, nonostante i tentativi di protezione del vescovo di Parma, Obizzo Sanvitali, che aveva cercato di farlo passare per idiota, Dolcino fu un apostolico silenzioso. La repressione contro gli apostolici da parte della Chiesa fu molto brutale e lo stesso Dolcino riparò per qualche tempo in Dalmazia. Da qui scrisse la prima delle sue lettere a tutti i seguaci del movimento, presentando la sua idea sullo sviluppo delle ere della Storia rielaborando le teorie di Gioacchino da Fiore. Secondo Dolcino, la storia dell’umanità era contraddistinta da quattro periodi:
- Quello del Vecchio Testamento, caratterizzato dalla moltiplicazione del genere umano,
- Quello di Gesù Cristo e degli Apostoli, caratterizzato dalla castità e povertà,
- Quello iniziato al tempo dell’imperatore Costantino e di Papa Silvestro I, caratterizzato da una decadenza della Chiesa a causa dell’accumulo delle ricchezze e dell’ambizione,
- Quello presente, degli apostolici, caratterizzato dal modo di vivere apostolico, dalla povertà, dalla castità e dall’assenza di forme di governo ed esso sarebbe durato fino alla fine dei tempi. E per realizzare ciò occorreva combattere le gerarchie ecclesiastiche, includendo domenicani e francescani. Il compito sarebbe stato realizzato da Federico d’Aragona, re di Sicilia, che avrebbe deposto Bonifacio VIII e, con l’aiuto degli angeli dell’Apocalisse, al suo posto sarebbe andato un Papa eletto da Dio. In questo momento sarebbe tornata la pace tra i Cristiani.
Su Wikipedia, a proposito degli apostolici, si legge:
Essi conducevano una vita con frequenti digiuni e preghiere, lavorando o chiedendo la carità, senza praticare il celibato forzoso: la cerimonia di accettazione dei nuovi seguaci prevedeva che pubblicamente si spogliassero nudi, per rappresentare la propria nullità davanti a Dio, come aveva fatto san Francesco; predicavano l’ubbidienza alle Scritture, che portava alla disobbedienza ai pontefici, la predicazione ambulante dei laici, l’imminenza del castigo celeste provocato dalla corruzione dei costumi ecclesiastici, l’osservanza dei precetti evangelici e la povertà assoluta. Quest’ultimo punto, ovviamente, portò alle ire della Chiesa di Roma [...]
Tornato in Italia Dolcino, diventato capo degli apostolici, da laico chiamato fra nel senso di fratello, predicò nelle zone circostanti il Lago di Garda e sulle montagne del Trentino dove, nel 1303, conobbe Margherita Boninsegna, donna descritta come bellissima, figlia della contessa Oderica di Arco ed educanda in un convento, che divenne la sua inseparabile compagna di vita e di predicazione. Da Arco, divenuto il centro di predicazione del movimento, Dolcino scrisse la seconda delle sue lettere agli apostolici dove pubblicò anche il numero di seguaci in Italia, oltre quattromila fratelli e sorelle, con i nomi degli esponenti di maggior rilievo. In questa seconda lettera si ribadivano le posizioni della prima e si annunciava la fine del potere della Chiesa corrotta nel 1305. Il suo movimento cresceva per l’esempio della rigorosa coerenza dell’azione con la predicazione, in tempi in cui questo esercizio era disatteso in primis proprio dai grandi prelati. Come spesso avveniva in casi simili, molti decidevano di seguirlo, vendendo ciò che possedevano per versare il ricavato al movimento. Purtroppo però il suo gruppo, inseguito dall’Inquisizione, era ormai accerchiato. Dolcino pensò di trovare rifugio tra le montagne dove aveva trascorso la sua giovinezza. Pensava di potersi difendere, attendendo che le sue profezie si fossero avverate.
Nel 1304, per organizzare meglio la resistenza, Dolcino guidò i suoi 3000 seguaci con una epica marcia attraverso le montagne lombarde fino in Val Sesia, dove i dolciniani si insediarono dapprima nella parte bassa della valle tra Gattinara e Serravalle, in località Piano di Cordova, nel feudo dei conti di Biandrate, e grazie all’apporto di servi fuggiaschi dei vescovi di Novara e di Vercelli, arrivarono ad essere circa 4.000 persone (il movimento nel suo complesso sembra arrivasse a 10 mila aderenti). Si unirono anche diversi letterati provenienti da varie parti d’Italia (Bologna, Toscana e Umbria), come Bentivegna da Gubbio.Successivamente, sotto l’incalzare delle truppe dei vescovi di Novara e Vercelli, i dolciniani si spinsero più in su nella valle, nei possedimenti di un ricco valligiano, di nome Milano Sola, di Campertogno, un paese pochi chilometri prima di Alagna. Da lì, per difendersi meglio, dapprima si trasferirono sulle pendici della Cima Balme ed infine in Val Rassa, vicino a Quare, su una montagna denominata Parete Calva, dove i superstiti (circa 1.500 persone) si asserragliarono per tutto l’inverno del 1304 e dove per sopravvivere dovettero fare razzie nei possedimenti di fondovalle. Ogni azione malvagia compiuta dai dolciniani in questo periodo fu giustificata da Dolcino che riteneva il movimento fatto di persone tanto pure da poter commettere qualsiasi atto contro i fedeli a Santa Romana Chiesa senza correre il rischio di peccare, secondo il detto di San Paolo: Tutto è puro per i puri (Lettera a Tito 1,15) come del resto era già stato fatto dai Fratelli del Libero Spirito.
Nel 1306, dopo altri scontri con le truppe che li inseguivano e vicende che videro Margherita protagonista, il vescovo di Vercelli Raniero degli Avogadro, con il sostegno di Papa Clemente V, bandì una crociata, cui avevano aderito gli Inquisitori di Lombardia, l’arcivescovo di Milano, e Ludovico di Savoia. Addirittura furono reclutati uomini persino a Genova da inviare contro Dolcino. Le bolle papali, emesse da Bordeaux, da papa Clemente V, il 26 agosto del 1306 fecero accorrere ancora più gente in difesa della Chiesa Romana. Veniva raccontato che gli uomini di Dolcino fossero spietati criminali, che razziassero, uccidessero, mutilassero ed incendiassero ogni cosa che trovavano sul loro cammino. Chiunque indossi la veste con croce e si appresti a partire verso le valli del Novarese e Vercellese per combattere l’eresia dolciniana – questo il senso della disposizione delle autorità ecclesiastiche – avrà rimessa la totalità dei peccati. A questo proposito occorre dire che nel XVIII secolo la Chiesa, come suo costume, falsificò documenti per mostrare che vi fu una ribellione popolare contro i dolciniani [R. Ordano, Boll. Storico Vercellese, 1, 1972].
I dolciniani, completamente circondati dalle truppe cattoliche, resistettero per circa un anno. Con una resistenza disperata gli uomini di Dolcino riuscirono a respingere l’esercito, facendo anche diversi prigionieri, tenuti per il riscatto, ma poi, oramai ridotti in condizioni disumane (mangiavano carne di topi e di cani e ci furono perfino episodi di cannibalismo), dopo un ultimo assalto, costato la morte di 800 dolciniani, si arresero nel 1307. La battaglia ebbe luogo il 23 Marzo, l’esercito papale fece 140 prigionieri, trovando sulle montagne oltre 400 morti, dalla fame e dal freddo.
Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo di Bergamo, luogotenente di Dolcino, vennero catturati vivi e il 25 marzo furono portati al castello di Biella, dove Longino e Margherita furono arsi sul rogo il 1° Giugno 1307, nonostante i tentativi di alcuni nobili locali di salvare la vita della donna, facendola abiurare. Longino fu arso vivo sulle rive del Torrente Cervo. Dolcino fu costretto ad assistere al rogo della sua compagna (Darà – come dice un cronista anonimo del tempo – continuo conforto alla sua donna in modo dolcissimo e tenero) e successivamente portato a Vercelli per essere, a sua volta, arso (1° giugno del 1307). A sentenza emessa e prima che fosse giustiziato, Dolcino su sottoposto ad una sorta di tortura: incatenato su un carro tirato da due lenti buoi farà un interminabile percorso per le vie cittadine mentre due aguzzini con tenaglie arroventate strapperanno, di tanto in tanto, parti del suo corpo. Il cronista anonimo – che assistette alla scena – scrisse che “mai un solo lamento uscì dalla bocca del frate, e solo quando gli fu strappato il pene si sentì un verso rauco come di animale ferito”. Quindi Dolcino fu issato sul rogo e arso vivo. Nonostante questa atroce tortura, Dolcino non si lamentò mai, eccetto quando si strinse nelle spalle all’amputazione del naso o quando sospirò profondamente al momento dell’evirazione. Nessuno di loro rinnegò le proprie dottrine, nemmeno durante le precedenti torture ed il rogo.(6)Bernardo Gui, scrisse:
Dolcino radunò nella sua setta ereticale molte migliaia di persone di entrambi i sessi, da ogni dove, soprattutto in Italia settentrionale e in Toscana e nelle altre regioni vicine, e a loro trasmise una dottrina pestifera e predisse molti avvenimenti futuri con spirito, non tanto profetico quanto fanatico ed insensato, affermando e fingendo di avere da Dio delle rivelazioni e uno spirito profetico. Ma in tutte queste cose fu trovato falso, ingannatore ed illuso, insieme con Margherita, sua malefica ed eretica compagna nei delitti e nell’errore [Bernard Gui, De secta illorum qui se dicunt esse de ordine apostolorum].
IL MASSACRO DEI VALDESI
Parlando di catari ho accennato ai valdesi come movimento di cristiani eretici che la Chiesa, con il suo braccio armato dell’Inquisizione, colpì con estrema durezza. Nel prossimo capitolo cercherò di parlare di altri movimenti ereticali ritenuti minori, che nascevano nel Sud della Francia ma anche nell’Italia del Centro Nord. Essi, insieme ai catari, furono tutti sterminati nella gran maggioranza o almeno ridotti a manipoli che non creavano soverchie preoccupazioni, entro i primi anni del XIV secolo. Ad eccezione del movimento valdese che aveva caratteristiche diverse dagli altri non essendo riconducibile ad eresie protocristiane o al manicheismo. Risale al 1184 il primo anatema contro Pierre Valdès di Lione ed i suoi frati da parte di Papa Lucio III che in proposito emanò la bolla Ad abolendam. Valdo era un ricco commerciante che nel 1170 rinunziò ad ogni suo avere, donandolo ai poveri, per praticare la fede cristiana in assoluta povertà. Un vero precursore di Francesco d’Assisi che, a differenza del primo, accettò la povertà solo per i suoi seguaci. Si associarono a Valdo i Poveri di Lione che furono il primo nucleo del movimento valdese che iniziò la predicazione nella zona di Lione ma presto si espanse. L’arcivescovo di Lione li scacciò e questo fu motivo perché l’espansione aumentasse dal Lionese al Delfinato, nella Provenza, in Linguadoca dove furono confusi con i catari. Come i catari, i valdesi ebbero una grande diffusione in Italia, in Germania e nel Nord Europa fino al mar Baltico. Divennero stanziali nelle valli alpine del Delfinato e del Piemonte, che furono chiamate vallate valdesi. La dottrina valdese auspicava innanzitutto il ritorno alla povertà predicata nei Vangeli e condannava la ricchezza mostrata oscenamente dal clero, dalle gerarchie oltre all’autorità temporale. In particolare le gerarchie non rappresentavano più una forza santa perché la santità non si acquista con il denaro, con i rituali e con i sacramenti ma solo con opere che ciascuno individualmente realizza. Erano cristiani con pochi cambiamenti in materia di dogma. Credevano alla divinità di Cristo, ammettevano l’Eucarestia e la confessione ma non la professione di prete perché ogni uomo giusto poteva continuare l’opera di Cristo fra i fratelli come confessare, assolvere, consacrare l’Eucarestia, presiedere le preghiere e spiegare il Vangelo. Con ciò era l’intera gerarchia della Chiesa che era rifiutata anche perché di essa non vi è traccia nei Vangeli. Qualcuno li ha associati a dei protestanti puritani ante litteram con in più uno spirito di povertà evangelica ed una rettitudine esemplari. In un’epoca in cui, a fronte di una povertà generalizzata proprio del popolo a cui Gesù si rivolgeva, vi era un clero scandalosamente ricco e potente, la predicazione valdese era profondamente rivoluzionaria e pericolosissima per i privilegi della Chiesa. Inoltre erano dei pacifisti che non ammettevano guerre di nessun tipo, né offensive né difensive, ed intermine di potere civile erano degli anarchici, come i catari. Come i catari anche nel movimento valdese vi erano i puri o perfetti, persone riconosciute come sante in vita (chiamati barbes) ed a cui ci si rivolgeva per ottenere l’assoluzione. Questi puri conducevano vita molto più austera degli altri aderenti al movimento. Dal punto di vista giuridico i quattro errori imputati ai valdesi erano: calzare sandali come gli apostoli; il divieto per loro di prestare giuramento; il divieto di uccidere un uomo; la possibilità per chi aveva i sandali di celebrare l’eucarestia.
Bernard Gui scrisse:
Una volta ricevuti nell’ordine (giacché finivano per formare un clero) promettono di osservare la povertà evangelica e la castità; e devono vivere di elemosine. Ogni anno tengono segretamente due o tre adunanze generali e si ritrovano in una casa presa in affitto per la circostanza da uno di loro. Qui il capo incarica i fratelli di missioni nei diversi paesi e gli vengono resi i conti delle collette e delle spese fatte. [Bernard Gui, Practica Inquisitionis haereticae praviatis]
Nel XIII e XIV secolo i valdesi costituivano una confraternita in cui si accedeva mediante il diaconato. Il diacono doveva fare un esame preliminare sulle Scritture, poi doveva studiare alla scuola del movimento a Milano o in altro luogo. Era possibile partecipare alla vita del movimento senza doverla seguire in toto ed addirittura restando cattolici. All’inizio del XIII secolo, nel 1208, iniziò la repressione contro i valdesi da parte di Papa Innocenzo III. E con la solita alleanza con i regnanti, fu il Re Ottone IV di Brunswick che ordinò al vescovo di Torino di cacciare i valdesi che, fortemente integrati nel luogo, vi restarono. Intanto vari inquisitori furono sguinzagliati sulle tracce di valdesi, sia in Francia che in Italia. Ma erano sempre i valdesi che riuscivano a cacciare questi intrusi e ad inseguirli con forconi. Le vittorie locali dei valdesi contro gli inquisitori nascevano dalla non collaborazione delle autorità civili locali perché, appunto, la presunta eresia era molto radicata nella popolazione. Questo fenomeno era così esteso che nel 1321 lo stesso Papa Giovanni XXII richiamò ufficialmente alcuni podestà e castellani, sollecitandoli a collaborare con l’Inquisizione e a consegnare gli eretici. Il successore di Giovanni XXII, Benedetto XII, attivò ogni sforzo (1335) per ricercare e punire i valdesi scrivendo per richiedere interventi ad una gran quantità di autorità locali. Nel 1353 vi furono nella Valpute 12 roghi e varie conversioni forzate con l’imposizione delle croci sugli abiti. Intanto nel 1378 (Scisma d’Occidente) la Chiesa si scindeva con papi (Gregorio XI) ed antipapi (Clemente VII) ma ambedue confidavano sull’abilità del medesimo inquisitore capo, il francescano François Borrel, tanto da mantenerlo alla testa della repressione iniziata da Gregorio XI nel 1370 e confermata da Clemente VII nel 1381 che ebbe sulla caccia agli eretici ogni collaborazione di Gregorio XI. Furono inviati (1375) molti frati di ordini mendicanti, domenicani, francescani, agostiniani, carmelitani, nelle zone infestate dagli eretici. Dovevano gli uni predicare e gli altri lavorare da inquisitori. L’operazione era guidata da Borrel che era accompagnato da governatori e magistrati con un esercito di armati. Il risultato fu la necessità di costruire nuove prigioni inquisitoriali, tanti furono gli arrestati e condannati. Anche il denaro per mantenere i disgraziati a pane ed acqua non era sufficiente e fu il Papa che dette il via ad una colletta pro alimentis carceratorum hujusmodi. La crociata durò fino al 1393, con continui e crudeli roghi in tutta Europa, fino al gigantesco rogo di Grenoble dopo il quale Borrel passò a fare il pio frate francescano in Provenza lasciando il prestigioso incarico ad un suo fidato, Antonio Alhaudi. Ma i valdesi, che a partire dal 1488 ebbero da affrontare un’altra crociata da parte di Innocenzo VIII, quello che iniziò pure la caccia alle streghe, non furono mai sconfitti.
I FRANCESCANI SPIRITUALI ERETICI
Lo stesso ordine francescano ebbe burrascose vicende con l’Inquisizione e sempre sulla questione povertà. Vi era chi, nell’ordine, voleva una povertà assoluta e la negazione di ogni bene (gli Spirituali) ispirandosi a quel Gioacchino da Fiore, eremita cistercense calabrese ed abate di Curace morto sul finire del XII secolo, che abbiamo già incontrato come riferimento dei dolciniani. Gli spirituali erano in minoranza nell’ordine ma ebbero un minimo sostegno da Papa Celestino V che li liberò dall’obbedienza dei superiori francescani e riservò loro degli eremi isolati dove vivere secondo il loro credo. A causa del gran rifiuto di continuare a fare il Papa di Celestino V (messo nel carcere della famiglia dei Caetani, quella di Bonifacio, a Fumone) gli Spirituali furono abbandonati nelle fauci di Bonifacio (Caetani) VIII che revocò le decisioni del predecessore ed iniziò la loro persecuzione. Gli Spirituali non riconobbero questo papa che, a loro giudizio ma non solo, aveva estorto le dimissioni a Celestino V. Lo consideravano quindi uno scismatico. Proseguirono le loro predicazione con il nome di Fraticelli (quando si parla dei fraticelli di Assisi, non si parla di questi ma di quelli che collaborarono attivamente come inquisitori). I Fraticelli crebbero di numero ed aggregarono a sé molti laici che volevano diventare apostoli di povertà, con il nome di Beghini e Beghine. Bonifacio VIII, Clemente V e Giovanni XXII tentarono di sopprimere questo movimento ma non vi riuscirono. Esso si espanse in modo spettacolare in Italia e nel Nord della Francia dove in alcune città divennero così forti da poter scacciare i francescani non spirituali dai loro conventi e prenderne possesso. Visti gli insuccessi di ogni opera di convincimento e di ogni repressione ordinaria, Giovanni XXII, con la bolla del 17 febbraio 1317, ordinò di trattare gli Spirituali come eretici, sotto qualunque denominazione: Spirituali, Fraticelli, Beghini, Bizzochi, Begardi. Con altra bolla del 30 dicembre 1317 li scomunicò tutti. Da allora l’Inquisizione iniziò una strage che iniziò il 27 aprile 1318 con il processo di una lunghissima lista di eretici Spirituali. Centinaia di tali eretici furono bruciati, molti costretti a pentirsi. Vi fu un tentativo di difesa in termini di diritto in quanto precedenti papi avevano ammesso la predicazione dell’assoluta povertà (Nicola III, Clemente V e Celstino V). La polemica aveva sollevato qualche questione di legittimità. Giovanni XXII, che voleva sbarazzarsi di questi disturbatori della vita crapulona affidò il caso ad una commissione di teologi che, nominata da lui, condannò gli spirituali. Fu invece l’allora capo dell’ordine francescano, Michele da Cesena (sostenuto da Guglielmo di Occam e da Buonagrazia da Bergamo che era il procuratore generale dell’ordine), che non riconobbe le conclusioni della commissione. Fu allora lo stesso Papa a doversi esporre in prima persona emanando la costituzione Cum inter nonnullos del 12 novembre 1323 in cui definitivamente stabiliva che gli spirituali erano degli eretici. Nella vicenda entrò anche l’Imperatore di Germania Luigi di Baviera. Il Papa aveva aspettato un momento di difficoltà in Germania tra due pretendenti al trono per inserirsi tra i due litiganti in modo da trarne, come sempre, vantaggio. Alla fine vinse Luigi di Baviera che non era gradito al Papa e non ebbe mai la sua incoronazione. Anzi il papa manovrò nominando reggenti del Sacro Romano Impero a lui graditi. Vi furono vari scontri diplomatici che arrivarono alla scomunica di Luigi (1324). La scomunica arrivò a Luigi praticamente in simultanea con la costituzione contro gli Spirituali e così Luigi, il 23 maggio 1324, fece una solenne dichiarazione contro il Papa in cui disse: La cattiveria del papa si accanisce fin contro Cristo, fino alla Santissima Vergine, fino agli apostoli e a tutti quelli la cui vita riflette la dottrina evangelica della perfetta povertà. Sette papi hanno approvato la regola che Dio ha rivelato a San Francesco, e con le sue stimmate, Cristo l’ha come autenticata col suo suggello. Ma quest’oppressore dei poveri, questo nemico di Cristo e degli apostoli, cerca con la furberia e colla menzogna di annientare la perfetta povertà. Il Papa si inviperì (è il termine) e cercò vendetta cercando di far arrestare in Europa tutti coloro che erano sospettati di aver aiutato Luigi a scrivere quelle cose. Mise in piedi processi contro il capo dell’ordine francescano e contro Buonagrazia da Bergamo che scomunicò, condannò gli scritti degli Spirituali. Michele da Cesena e Buonagrazia da Bergamo si resero irreperibili. Fatto di interesse è che Luigi di Baviera denunciò all’Europa intera il fatto che l’eretico era Giovanni XXII che iniziò a chiamare con il suo nome originario, Jean de Cahors, per sottolineare che non lo riteneva più Papa. Subito dopo, il 15 marzo 1327, da Trento iniziò una spedizione su Roma che passò per la conquista di Milano, di Arezzo dove il vescovo gli consegnò la corona di ferro simbolo del Sacro Romano Impero, di Pisa e quindi di Roma che fu presa il 7 gennaio 1328 e dove fu il popolo a nominarlo Imperatore (con Arnaldo da Brescia che trovava esauditi i suoi desideri). Ma il vecchio, rancoroso e criminale Papa (naturalmente scappato) non accettò l’incoronazione dichiarandola nulla (31 marzo 1328) e dichiarò eretico Luigi (23 ottobre 1327) per la sua adesione alla dottrina degli Spirituali. La lotta continuò fino alla morte di Luigi nel 1347. E da questo momento si intensificò la caccia agli spirituali con l’accensione di molti roghi. Alcuni dal Sud della Francia scapparono verso la Grecia e la Terra Santa. Altri si rifugiavano in chiese e conventi dove gli sbirri che li cercavano non potevano entrare. Tale diritto d’asilo fu subito tolto da Giovanni XXII e da questo momento si incrementò di molto il numero degli arrestati. Altri ancora ebbero metodici processi senza scampo. Lo sbarazzarsi del diritto d’asilo era l’accettazione di una richiesta fatta dal Re di Francia, Filippo V. Il papa chiese come contropartita (come sempre) quella di arrestare gli italiani sostenitori di Luigi di Baviera che dall’Italia avevano cercato rifugio in terra francese per evitare le violente ritorsioni della Chiesa. Così che tra Francia ed Italia fu un vero fiorire di roghi.
La repressione colpì anche Aragon e Maiorca ma ebbe qualche difficoltà a Napoli, il cui Re, Roberto d’Angiò, era un ghibellino. In quella corte si avevano simpatie per gli spirituali e la regina aveva intercesso per loro in un processo che li vedeva imputati di eresia, processo istruito dal Generale dell’ordine francescano, Géraud, che Giovanni XXII aveva messo al posto di Michele da Cesena. Quel Papa rifiutò sdegnato ogni aiuto. Anzi, minacciò Re Roberto di denunciare la regina all’Europa come sostenitrice di eretici, con le parole seguenti (13 marzo 1332):
Se la Regina, irritata contro il Generale dei Fratelli Minori intende diffamarlo, sarà obbligato insieme ai suoi fratelli a pubblicare e scrivere in diversi paesi, a loro giustificazione,, che la regina protegge gli scismatici e gli apostati dell’ordine, che, da dovunque essi provengano li riceve, e fornisce loro abbondantemente tutto ciò che necessita loro, mentre perseguita i fratelli fedeli. Non sopporta che il Generale né gli stessi inquisitori e vescovi compiano il loro dovere contro gli eretici e al contrario sottrae ai prelati le lettere che noi abbiamo indirizzato loro concernenti l’ufficio dell’Inquisizione.
Altre difficoltà si ebbero nella repressione degli spirituali in Germania proprio per il legame che si era creato con Luigi. Ma la Chiesa cercava di colpire i tedeschi sostenitori di Luigi fuori dai territori direttamente da lui controllate. Le catture di tali simpatizzanti erano dirette dai vescovi (Colonia, Erfurt, Saxe, …) che fornirono molto materiale ai tribunali dell’Inquisizione. Dopo la morte di Luigi la successione portò al trono un devotissimo alla Chiesa, Carlo V di Lussemburgo, finalmente l’Inquisizione passò direttamente al Papa che nominò un Inquisitore generale (1348). L’Inquisizione fu sommersa da lavoro, anche perché in contemporanea era scoppiata la peste nera che aveva portato ondate di misticismo da dover reprimere. I movimenti ereticali si moltiplicarono e agli spirituali si aggiunsero: flagellanti, mistici, messi al bando, Fratelli del Libero Spirito, Lollardi, … L’attività dell’Inquisitore generale che era stata sospesa nel periodo più duro dell’estendersi dell’epidemia, riprese nel 1353 con il Papa Innocenzo VI e seguì con i papi che vennero dopo. E’ difficile seguire i grandi numeri dei processi e dei roghi che dalla Germania si estesero all’Olanda, ai Paesi di Brabante, alla Pomerania, alla Slesia, Magdeburgo, Brema, Turingia, Assia, Sassonia …
IL ROGO DI JAN HUS
Tutti i colpi assestati agli eretici non li debellarono anzi, l’eresia diventava sempre più temibile perché i vari movimenti esistenti al di fuori degli spirituali tesero ad unificarsi e confondersi mentre i valdesi riprendevano forza. Ma il pericolo maggiore discendeva dal fatto che i movimenti ereticali andavano sempre più assumendo carattere un rivoluzionario. Già vi era stata l’esperienza degli spirituali con Luigi di Baviera che avevano preso di mira il Papa per la sua deposizione che creasse uno scisma. Da lì le idee che volevano far fuori il Papato per sostituirlo con il potere dell’Imperatore ed il movimento degli eretici, più cresceva, più assumeva un carattere sociale, di tipo socialista ed addirittura anarchico con uno sfondo di profondo misticismo. I leader riconosciuti furono John Wicklef (c. 1320-1384), teologo francescano di Oxford e teorico del movimento dei lollardi, in Inghilterra e Jan Hus (c. 1370-1415), teologo e docente all’Università di Praga (e dal 1401 rettore della medesima università), in Boemia. Per semplice combinazione che però mostra il fervore della Chiesa nel bruciare, nel 1379 quando dalla campagna Hus si trasferì in città, la cristianissima Praga metteva al rogo 3000 ebrei (delle persecuzioni contro gli ebrei da parte dei molto cristiani di Roma parlerò nella seconda parte di questo lavoro).
Wicklef sosteneva che il potere terreno è concesso all’uomo dal potere di Dio e che solo in stato di grazia è legittimo il potere. E’ dovere dei fedeli scacciare chi è pubblico peccatore e gestisce il potere perché questa è una tirannia che, per di più, offende Dio. Non vi è alcuna giustificazione di consenso popolare o ricchezza: quella tirannia va distrutta. A questa posizione si contrapponeva quella di Papa Gregorio VII, secondo la quale non esiste potere senza ortodossia. Ho parlato di contrapposizione perché se da parte ecclesiastica è facile cogliere le mancanze del sovrano che viene quindi punito dalle leggi della Chiesa fino alla sua deposizione con il potere che passa alla Chiesa medesima, nel caso della grazia richiesta da Wicklef per detenere il potere, la legittimità è, a parte limitati ed evidenti casi, tutta interiore all’animo del sovrano che può essere in stato di peccato e mantenere il potere senza che nessuno e particolarmente il popolo se ne accorga. In teoria solo Dio potrebbe intervenire e Wicklef lo sa tanto è vero che assegna ad ogni singolo individuo che venga a conoscere la mancanza della grazia in un potente per intervenire. Questo individuo, da solo, può proclamare lo stato di rivolta. In quanto ai beni terreni essi sono dono di Dio e devono essere di tutti gli uomini in stato di grazia e questa legge deve valere per ogni cittadino di ogni Paese così che, in definitiva, non ha più senso parlare di un Paese diverso da un altro, con la conseguenza che deve sparire la differenza tra nazioni ed il concetto di patria. Da ciò deriva ancora che il dover assumere il criterio secondo cui in una guerra gli altri hanno sempre torto è sbagliato come il concetto stesso di difendere la propria patria che è la stessa di colui con cui facciamo la guerra.
Queste posizioni espresse già nella sua opera del 1376 De civili dominio (nella quale furono individuate 18 proposizioni eretiche) e poi ripetute, ampliate e meglio sostanziate in successive opere, furono duramente condannate a partire dal Concilio di Londra del 1382 fino ad arrivare al Concilio di Costanza del 1414-1417 che incaricò l’Inquisizione di perseguitare coloro che le diffondevano. Ma già Papa Gregorio XI nel 1377 aveva richiesto l’arresto del teologo al sovrano inglese (Edoardo III che moriva proprio in quell’anno con la corona che passava a Riccardo II) ma la regina madre (Giovanna di Kent) lo aveva protetto. I gerarchi conciliari della Chiesa avevano ben presente che intorno al 1380 le predicazioni dei lollardi avevano originato una gigantesca rivolta in Inghilterra, con la liberazione dei carcerati, l’attacco cruento a preti, frati, magistrati, finanzieri, nobili. Il 13 giugno 1381 fu presa Londra e furono giustiziati l’arcivescovo di Canterbury ed il priore di San Giovanni di Gerusalemme. Le teste di costoro furono infilate in alti pali e portate in processione-trionfo per le vie della città.
Il Concilio di Costanza condannò anche Jan Hus (1371-1415), leader del movimento ereticale e rivoluzionario degli hussiti, che era ritenuto un seguace di Wicklef e che comunque aveva posizioni analoghe: il potere non può appartenere a chi non è in stato di grazia. Da notare che prima di quella del Concilio di Costanza, Hus fu condannato dai teologi domenicani dell’Università di Parigi. Hus aveva fatto pubblica richiesta al potere della Chiesa di redistribuire le proprietà con l’attuazione di alcune riforme a sostegno delle moltitudini diseredate ed affamate a fronte, sempre, delle strabordanti ed ostentate ricchezze di clero e nobili. A questo, Hus aggiungeva una condanna radicale della vergogna della vendita delle indulgenze. L’Inquisizione lo catturò e con uno spettacolare processo lo condannò al rogo che, per maggior gloria della Chiesa, fu arso a Costanza davanti la sede del Concilio e durante il suo svolgimento (1415). Questo atto di crudele imperio scatenò rivolte in tutta la Boemia, rivolte che durarono per gran parte del XV secolo.
Le posizioni di Hus sono così riportate da Deschner (2000):
Hus, conosciuto con il nome di “evangelicus doctor”, non fa che richiamare alla memoria, senza posa, la Bibbia. Lo fa, per esempio, con parole come “Per niente avete ricevuto, per niente quindi darete”. Oppure rievocando le parole di Matteo 19,21 “Se vuoi essere perfetto, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, ed avrai un tesoro nei cieli …”. Ma come stavano le cose, nella realtà? Hus lo dice chiaro e tondo: “Si paga per la confessione, per la messa, per i sacramenti, per l’indulgenza, per la benedizione, per la sepoltura, per le preghiere. Neanche l’ultimissima monetina, che la nonnina si è nascosta in un fazzoletto, rimane alla poveretta. Gliela invola il parroco rapace … “. Hus bolla i canonici, marchia quei “pigri accoltellatori” che non vedono l’ora che finisca la messa per precipitarsi nelle osterie, per darsi alle danze, “come bestie selvatiche” dietro a mammona, all’usura, alla fornicazione, alle gozzoviglie – ecco, sono costoro “i peggiori nemici di nostro Signore Gesù Cristo”.
Hus stigmatizza i lucrativi affari che si fanno con le reliquie portentose, flagella il “male” dei monaci mendicanti, che dissanguano il popolo “con presunti miracoli”, con “mendaci miraggi”, mettendo in vendita la terra di cui è impastato Adamo, la paglia della stalla di Betlemme, il letame dell’asino, l’acqua del Giordano, la manna del deserto, i peli della pelliccia del Battista, i peli della barba di Gesù, i riccioli della vergine Maria, il cerume delle sue orecchie, il suo latte. Oppure quelli che spillano denari con le tre ostie insanguinate in Wilsnack (Havelland), dove i pellegrini sciamano a migliaia dall’Ungheria alla Svezia e alla Norvegia, anche se è dimostrato che si tratta di truffe e raggiri, “nient’altro che impostura”.
Hus fa propaganda contro vescovi e prelati, “i signori del demonio” e i loro immensi averi. “Possano costoro dimostrare dove Cristo il Signore li ha mai chiamati a possedere e regnare su tanti patrimoni!”. Ma è sicuro che “là dove una chiesa non ha beni, non vi si trova un solo prete”.
Proprio la critica al patrimonio mondano e ai diritti di egemonia della chiesa è quella che più dispiace all’arcivescovo. Ed è comprensibile. E non meno gli dispiace la crescente predilezione per John Wicklef. Del quale, nel 1406, mette al bando le dottrine. Nel 1408 – l’anno in cui si effettua il primo attacco documentato ad Hus, precisamente ad opera del clero parrocchiale di Praga, che si vede palesemente minacciato da Hus nella sua materiale esistenza – proprio nel 1408 l’arcivescovo ordina la consegna degli scritti di Wicklef e li fa bruciare il 16 luglio 1410 nel cortile arcivescovile, alla presenza di molti preti, contrariamente ad un ordine reale di proroga. La cerimonia fu accompagnata da un Tedeum e tutte le campane suonarono come per i defunti. Due giorni dopo Hus venne messo al bando con i suoi compagni e la scomunica colpì anche chiunque non avesse consegnato le opere di Wicklef.
A questa azione di annientamento seguirono a maggior ragione lacerazioni interne. I seguaci di Hus vennero frustati sotto una volta della corte arcivescovile, ma non mancarono sevizie e maltrattamenti anche per gli avversari di Hus. Anche all’interno delle chiese avvennero scenate imbarazzanti, a dir poco. Con le spade sguainate ci si avventava su un predicatore, fautore di questo o quello schieramento, e i chierici fuggivano a frotte dagli altari, perfino nel bel mezzo alla messa, come toccò una volta all’arcivescovo, circondato da quaranta sacerdoti.
Senza comprendere appieno la situazione, poiché di massima era ottimista, Hus si appellò al papa contro la bruciatura dei libri e il divieto di predicazione. E se nel 1405, già Innocenzo VII aveva incoraggiato l’intervento contro la diffusione della dottrina di Wicklef in Boemia, ora Giovanni XXIII (che affidò il processo ad Hus a mani diverse, anche alle proprie) raccomandò attraverso il cardinale Oddo Colonna un più incisivo procedere da parte dell’arcivescovo in Praga, se necessario con l’aiuto del braccio secolare, il che voleva dire l’uso della forza; in caso contrario lo stesso arcivescovo è minacciato di scomunica.
Ma il metropolita, un docile servitore del suo padrone, non tardò a ribadire e ad inasprire la scomunica di Hus. E questo, tra l’altro, aggravò ulteriormente la situazione nella città, dove disordini e sommosse si andavano aggravando. Tuttavia Hus che, diversamente dal suo amico Girolamo, non si unì mai ai radicali, che non di rado attenuava le tesi di Wicklef e che in principio accettava l’ordinamento sociale esistente, come del resto anche Wicklef, non voleva misure coercitive né alcuna rivoluzione. E se già una volta il re aveva dichiarato la sua disponibilità a far bruciare i seguaci della “eresia” wicklefiana, Hus cercò invece di evitare il conflitto.
Già in precedenza egli aveva evitato il confronto, si era umilmente sottomesso da figlio ubbidente all’arcivescovo, si era piegato alle sue indicazioni, al suo biasimo, alla sua protezione; nel 1409 aveva sottolineato, in un discorso all’università, di considerare Wicklef come uno studioso di cui aveva studiato i libri, come tanti altri, e da cui aveva imparato molto di buono. “Nondimeno egli non riteneva per verità di fede ciò che scrive un erudito. Verità di fede le offre solo la Sacra Scrittura. Egli incoraggiava gli studenti a studiare gli scritti di Wicklef; ciò che ancora non capivano in essi, dovevano accantonarlo per l’avvenire; opinioni che fossero in contrasto con la fede – e tali non mancavano in Wicklef – non dovevano né accettarle né difenderle. Dovevano soltanto sottomettersi alla fede”.
Ma presto toccò ad Hus un nuovo grave oltraggio, che gli venne inflitto dal papa in persona.
Nella lotta contro re Ladislao di Napoli, Giovanni XXIII aveva emesso il 9 settembre del 1411 una bolla di crociata e in essa prometteva la remissione dei peccati (venia peccatorum) non solo ai combattenti, non solo a quelli che combattevano a proprie spese, ma addirittura a tutti quelli che avessero anche solo versato denaro a sostegno della crociata. Forse a provocare questa decisione era stato proprio Hus, che in passato aveva speso il suo ultimo denaro per l’acquisto di un’indulgenza, ma che ora certamente da tempo, e per principio, era sceso in campo contro le indulgenze, contro l’intera dottrina ecclesiastica sull’indulgenza, beffandosi di essa in una predica, dal momento che Paolo stesso, quando aveva raccolto elemosine per i santi di Gerusalemme, non aveva concesso ai Corinti alcuna remissione dei peccati,
Allorché nel maggio 1412, a Praga, si annunciarono solennemente una crociata e le indulgenze ad essa connesse, vennero esposte in tre grandi chiese – tra cui nel duomo, accanto all’altare di san Vito – tre cassapanche in cui gettare direttamente i denari per l’acquisto dell’indulgenza. “Adesso c’è la somma grazia per i popoli! Ecco il cielo aperto per tutti!”, strombazzavano gli esattori papali, “gli avidi maestri dell’ Anticristo “, ispirati dal “demonio di Mammona”. Tant’è vero che anche un cieco – tuonava Hus – potrebbe toccare con mano che al papa stava a cuore solo il denaro e non spendeva una sola parola per la preghiera; senza contare che né lui né i sacerdoti sapevano se chi comprava l’indulgenza fosse davvero contrito. Una “vergogna”, dichiarò a gran voce Hus, imputando al papa “imperdonabile temerarietà”, “la più oscena simonia”, al punto che la gente canticchiava versetti di scherno, motti sarcastici e gettava nelle cassapanche cocci, ossi e pesci marci.
A Praga, nei pressi dello Hradscin, venne trovato quell’estate, in uno di quei cassoni, un cartello con veementi attacchi contro i “seguaci di Belial e di Mammona”, contro il papa, considerato l”’Anticristo”, la cui frase conclusiva recitava: “Si deve credere di più al veritiero maestro Hus che al prelato, alla massa ingannevole, ai concubinari e ai simoniaci corrotti”. Ma Girolamo da Praga, a differenza di Hus famigerato per le sue azioni spettacolari, fece andare per le strade certe meretrici assai conosciute, con copie della bolla papale appese al collo, e fece poi dare alle fiamme gli originali sulla piazza del mercato del bestiame (oggi piazza Carlo).
Quello che certamente eccitò anche Hus, e forse anche di più, fu il fatto che il vicario di Cristo si appellasse al versamento di sangue e che egli, come si esprime Hus, non prendesse a cuore le parole di Paolo: “Mia è la vendetta, darò io ciò che spetta” (Romani, 12,19), il fatto che la sua bolla si rivolgesse anche contro dei cristiani, per cui Giovanni XXIII rampogna dal pulpito il re di Napoli – con tutti i barbugliamenti apostolici -, quale violatore della maestà, spergiuro, blasfemo, scismatico ed eretico.
Fu tuttavia evidente che, col suo attacco a Giovanni, il papa regnante, Hus si era spinto troppo in avanti. Pur rappresentando ancora un’istanza dominante dei riformatori boemi, egli si vide d’un tratto – fatta eccezione per gli studenti e parte del popolo – piuttosto isolato e abbandonato perfino da amici. La facoltà teologica, come anche la massima parte del clero cittadino, era contro di lui; altrettanto lo erano il capitolo del duomo e l’arcivescovo. Questi era, dopo la morte di Zbynek di Hasenburg nell’autunno 1411, il moravo tedesco Albich, regolarmente sposato fino a poco tempo prima, e non aveva alcun titolo in teologia. Albich era dottore in legge ed eccellente studioso di medicina, medico personale di Venceslao, che lo aveva voluto arcivescovo e a tal fine aveva corrotto il papa con 3600 fiorini d’oro. Tuttavia, poco attratto dalle controversie praghesi e teologicamente impreparato, il nuovo principe della chiesa si ritirò presto nella prepositura di Vyshehrad, nel quartiere sud della città, e più tardi in Moravia e a Breslavia.
Re Venceslao, che dopo il generale riconoscimento di Sigismondo come re romano-tedesco non aveva più alcun motivo per proteggere il movimento riformistico praghese, ora non appoggiò più Hus; si arrivò alla rottura, seguita da un ‘aperta ostilità. Venceslao preferì appoggiarsi a papa Giovanni che lo aveva riconosciuto re romano ed era forse ancora indispensabile per un’ incoronazione regale. Fu lo stesso Venceslao ad incitare il monarca di Polonia a sostenere il profitto dell’indulgenza papale e a vietare in questo periodo sotto pena di morte le diffamazioni di papa Giovanni e le proteste contro le sue bolle. Quando si arrivò alle prime esecuzioni capitali, si dice che Venceslao si sia espresso in questi termini: “E anche se ce ne fossero a migliaia, accada a loro come a questi”.
Da entrambe le parti si susseguirono attacchi e contrattacchi, tra cui l’assalto con armi pesanti di una masnada, per lo più tedeschi, alla Cappella di Betlemme, dove Hus tuonava senza tregua contro l’indulgenza papale e dove sarebbe stato ucciso, a suo avviso, se il suo seguito non lo avesse protetto.
Alcuni degli “urlatori più chiassosi” (così li definisce lo storico protestante Albert Hauck), tre giovani artigiani praghesi – Martin Kridelko, Jan Hudec e Stasec Polak – che si opponevano con maggiore veemenza alle “ipocrite e false indulgenze” e urlavano frasi come “Tu menti, prete!” e “È tutta una truffa!” all’annuncio delle indulgenze, vennero giustiziati l’11 luglio, in contrasto con le pacificazioni tentate dai consiglieri comunali, allora tutti tedeschi, come si dice in una fonte secondo cui, “anche gli armati erano tutti tedeschi”. I tre vennero condannati nonostante che Hus, il quale definiva ingiusta la loro condanna e incolpasse se stesso – “Io ho consigliato di opporsi all’indulgenza. Io l’ho fatto!” -, avesse promesso di non versare sangue. Già poche ore dopo i tre giovani venivano decapitati ancora prima di giungere sul luogo dell’esecuzione, a causa del pericoloso assembramento popolare.
Benché Hus anche ora cercasse di non rompere completamente con la gerarchia e anzi si ritirasse e si chiudesse nel silenzio – almeno dopo la liquidazione dei tre uomini, presto esaltati come “martiri” -, tuttavia gli montò incontenibile la collera, dichiarò i suoi antagonisti complici dell’Anticristo, svillaneggiò il papa con tutti i magisteri, bollando dottori e giuristi come collaboratori “di questa bestia ripugnante”, “i massimi nemici di Cristo”, sicché sul trono di Pietro poteva ben sedere “il Satana con dodici diavoli”.
In luglio, avendo i seguaci praghesi del papa “non lesinato affatto i denari”, la curia aveva nuovamente lanciato il bando ecclesiastico sul capo dell”’eretico” e inasprito in ottobre la sentenza di bando, per cui l’applicazione di tutti i divieti e delle minacce significava la totale espulsione della persona bandita da qualsiasi umana comunità: “A nessuno sia lecito, a rischio di interdetto in ogni luogo di soggiorno, di offrire a Hus cibo o bevanda, di parlare con lui, di avviare con lui compere o vendite, di offrirgli da dormire, fuoco o acqua. Tutti i contravventori saranno colpiti dal medesimo bando. Se Hus o i suoi seguaci non dovessero ottenere l’assoluzione entro i prossimi 12 giorni, l’interdetto, il divieto di tutte le operazioni ecclesiali saranno estese a tutte le città, villaggi e borghi in cui Hus possa trovare alloggio … “
Il papa ordina inoltre di scacciare i seguaci dell’ eretico dalla “loro tana”, la Cappella di Betlemme, e di smantellare immediatamente il luogo della “eresia”.
Hus è indeciso. Pensa non solo a se stesso, forse neppure in prima istanza. Teme inoltre le conseguenze dell’interdetto per i suoi fedeli. “Non so cosa mi convenga fare”, confessa sgomento, e si trattiene fuori Praga, da ottobre a dicembre 1412; però continua a diffondere le sue idee riformistiche, segretamente favorito dal nuovo arcivescovo Corrado di Vechta, soprannominato “il tedesco zoppicante”, che passerà addirittura dalla parte degli hussiti. Hus fa ritorno a Praga, scompare, va e viene, fino a che dal primi di luglio 1413 fino al suo viaggio a Costanza, per più di un anno, vive e lavora senza sosta – “Predico nelle città, tra i borghi, in campagna e nei boschi” -, sotto la protezione di alcuni nobili nella Boemia del sud. Nel frattempo abita sulla piccola Ziegenburg (Kozi hràdek), poi presso una nobile vedova Anna von Mochov – giudicata nel 1418 da un antihussita “la più zelante hussita di tutta la Boemia” -, ma stranamente mai menzionata da Hus stesso nella sua corrispondenza.
Le vicende che portarono al rogo Hus meritano un cenno perché mostrano il modo disonesto ed osceno di operare nei secoli della Chiesa di Roma. Hus si muoveva in terra tedesca, insieme a Gerolamo da Praga (arso insieme a Hus), con un salvacondotto rilasciato dal Re Sigismondo del Sacro Romano Impero. Doveva recarsi proprio a Costanza per appianare le divergenze con la Chiesa. A nulla valse il salvacondotto che, di fatto, era stato rilasciato proprio per poter catturare il rivoluzionario Hus. Invitato a un incontro dai cardinali Pierre d’Ailly, Ottone Colonna, futuro Papa Martino V, Guillaume Fillastre e Francesco Zabarella, è da loro fatto subito arrestare e incarcerare (27 novembre 1414). Il 18 maggio 1415 gli viene chiesta l’abiura. Chiede di parlare per spiegare le sue dottrine nell’udienza pubblica che era stata fissata per il 5 giugno. In tale udienza gli venne impedito di parlare. Il 18 giugno il Concilio ratificò un elenco di 30 capi d’accusa contro Hus, proposizioni considerate eretiche tratte da tre sue opere dandogli tempo due giorni per contestarle. Egli risponderà punto per punto ma è tutto risulterà inutile perché il 6 luglio, nella chiesa di Costanza, sarà dichiarato colpevole di eresia. La Relatio de Magistro Johanne Hus, stilata da Pietro Mladenoviç, cronista del tempo, ci ha raccontato le fasi del processo e del rogo. Ancora nella chiesa, fu fatto salire su un palco e, rivestito di paramenti sacri, fu invitato ad abiurare. Rifiutò. Disceso dal palco, «i vescovi cominciarono subito a spogliarlo. Prima gli tolsero di mano il calice, pronunciando questo anatema: “O Giuda maledetto, perché hai abbandonato la via della pace e hai calcato i sentieri dei giudei, noi ti togliamo questa coppa della redenzione” [...] e così di seguito, ogni volta che gli toglievano uno dei paramenti, come la stola, la pianeta e tutto il resto, pronunciavano un anatema appropriato. Al che egli rispondeva di accogliere quelle umiliazioni con animo mansueto e lieto per il nome del nostro Signor Gesù Cristo».
Dopo averlo denudato e rivestito di un saio, gli posero sulla testa una corona di carta con tre diavoli dipinti e la scritta “Questi è un eresiarca“. Fu quindi portato in corteo verso il luogo dove era stato approntato il rogo (tanto per dimostrare che la richiesta di abiura in cambio di perdono è sempre stata una ipocrita buffonata). Lungo la strada ardevano i roghi dei suoi libri. Dal racconto del cronista dell’epoca si è appresa anche la tecnica che spesso veniva usata per arrostire gli eretici. Il condannato, dopo essere stato denudato, fu fatto inginocchiare su di un mucchio di fascine per essere poi legato saldamente ad un palo. Le corde lo tenevano alle caviglie, sotto e sopra le ginocchia, all’inguine, alla cintola e sotto le braccia. Una catena gli fu fatta passare intorno al collo. Quando i carnefici si resero conto che Hus aveva la faccia rivolta verso Oriente, lo girarono verso Occidente, posizione più conveniente ad un eretico. Si fece quindi una catasta di legna, paglia e fascine intorno a lui per coprire il condannato fin sotto il mento. A questo punto si avvicinarono due rappresentanti del potere civile per chiedere al condannato se ritrattava le sue eretiche teorie. Hus rifiutò e ciò comportò che i due che si erano precedentemente avvicinati, si ritirarono e batterono le mani. Era il segnale per accendere il rogo. Finita la combustione, restò il ributtante compito di distruggere il corpo arrostito e carbonizzato. Il corpo fu fatto a pezzi, le ossa spezzate, il tutto, con le viscere fuoriuscite dall’esplosione della pancia, fu gettato di nuovo sul fuoco ancora ardente in alcune parti. Poiché si aveva l’esperienza del rogo di Arnaldo da Brescia, si ebbe cura di raccogliere ogni resto, anche piccolissimo: non si voleva che fosse raccolto per farne reliquie. Il procedimento descritto fu certamente seguito, oltreché i citati di Arnaldo ed Hus, per i roghi degli spirituali e di Savonarola.
Anche qui è utile leggere cosa scrive Deschner (2000) sulla condanna al rogo di Hus:
Si andava intanto preparando il Concilio di Costanza e re Sigismondo – “imperatore del concilio” – premeva perché vi partecipasse Jan Hus per porre così termine ai disordini religiosi in Boemia e liberare il paese dal sospetto di eresia.
Più volte Sigismondo fece pregare Hus di presentarsi a Costanza: nella primavera del 1414 tramite i due cavalieri cechi Jan di Chlum e Wenzel di Dubá, entrambi operosi seguaci di Hus, poi attraverso Heinrich Leffl, un uomo di fiducia di re Venceslao, simpatizzante dei riformatori. In più, un terzo inviato di Sigismondo, Nicola di Jemniste avviò trattative con Hus e lo informò della buona volontà del suo signore “di portare la questione ad una soluzione soddisfacente”. E quando finalmente una lettera del notaio reale Michele di Priest, dell’8 ottobre, annunciò a Hus la “viva gioia del sovrano per la sua decisione di venire a Costanza”, promettendo anche di inviare una lettera d’accompagnamento reale insieme ad un rappresentante del re come scorta ufficiale del viaggio “per maggiore sicurezza”, allora la lettera non giunse più al destinatario, essendo Hus già in viaggio dall’11 ottobre insieme ai cavalieri di Sigismondo Chlum e Dubá, con oltre trenta cavalli e due carrozze. Alla fine i due re – quello romano e quello boemo – si trovarono d’accordo sul fatto che Hus, qualora il concilio avesse condannato la sua dottrina e lui non si fosse sottomesso, avrebbe potuto rimpatriare incolume. Da ultimo, anche il salvacondotto di Sigismondo, che metteva il “venerato maestro Johannes Hus” sotto usbergo e protezione del santo regno, garantiva il libero ritorno di Hus.
Il 3 novembre 1414 Hus giunse a Costanza, e due giorni dopo papa Giovanni XXIII apriva il concilio.
Ora il santo padre, che aveva in precedenza bandito e condannato Hus, lo rassicurò al suo arrivo della sua personale protezione, ribadendo di non volerlo ostacolare in nessun modo, nemmeno, come disse, “qualora avesse ucciso il mio stesso fratello” – e però lo fece arrestare ancora in quello stesso mese. E il re, che l’aveva invitato ripetutamente a Costanza, informato della violazione della scorta e dell’arresto di Hus,
pur minacciando che l’avrebbe liberato anche se fosse stato costretto ad abbattere personalmente le porte del carcere, a questo punto consigliò a Hus di “arrendersi totalmente alla grazia del santo concilio”, di essere disposto a pentirsi, di non ostinarsi nell’errore, perché altrimenti i padri conciliari sapevano bene cosa dovevano fare di lui. Anzi, egli aggiunse: “Ho detto loro che non voglio difendere un eresiarca, al contrario, che un eretico ostinato l’avrei dato alle fiamme con le mie stesse mani!”.
Verso la fine di novembre, col pretesto totalmente inventato che si era nascosto in un carro di fieno nel tentativo di fuggire da Costanza, Hus venne incarcerato, gli venne proibito di parlare, senza essere peraltro interrogato né processato né condannato, per non dire del salvacondotto. Fu dapprima ospitato brevemente nell’abitazione di un canonico locale, poi nel convento dei domenicani sull’isola della città, dove fu rinchiuso in una cella vicina alla cloaca (in quodam carcere iuxta latrinas). In seguito il vescovo di Costanza lo condusse nel suo castello di Gottlieben, in un freddo cunicolo nel piano superiore della torre. Lassù Hus giacque incatenato di giorno, di notte legato con una manetta di ferro in una gabbia di legno, sorvegliato a vista da tre armati. A più riprese il detenuto, debilitato da vecchi malanni al fegato e alla cistifellea, cadde malato. Soffriva di dolori alla testa e per i calcoli, per attacchi di soffocamento, febbre alta, sbocchi di sangue. Si temette già il peggio; ma i medici personali del papa fecero in modo che il prigioniero, come si disse, “non perdesse la vita in maniera così ordinaria”.
I lavori del concilio erano incominciati ormai da tempo. Dapprima quelli così importanti, fatti dietro le quinte; soprattutto tramite alcuni avversari colà precipitatisi dalla Boemia, come il procuratore pontificio Michele di Causis, tramite Giovanni “Il Ferreo”, guerriero e vescovo di Leitomysl, nonché il teologo Stefano Palec, in passato uno dei più intimi amici di Hus e dal 1412 uno dei suoi peggiori nemici, autore anche di un libello “Anti-Hus”. Palec versò lacrime nel carcere dell’ex amico … e finì poi per spedirlo sul rogo.
Con subdola perfidia e sofisticherie furono usati spioni, infiltrati, delatori, inquisitori, interrogatori speciali. Si esercitarono pesanti pressioni su singoli testimoni, su cardinali, vescovi, teologi e monaci. Si sparsero ad arte voci, notizie false, arrivando a contraffare qua e là avvisi pubblici, falsificando i carteggi di Hus e la stessa Bibbia. Si intercettò e manomise anche la sua corrispondenza, usandola contro di lui. E non si mancò di ricorrere alle corruzioni. Davanti al carcere di Hus, Michele di Causis ebbe a dichiarare: “Con l’aiuto di Dio bruceremo presto questo eretico, per questa causa ho speso già molti fiorini”.
D’altronde, ancora nella tarda estate 1414, l’inquisitore papale a Praga, il vescovo Nicola Condemone, in presenza di parecchi nobili boemi e di un notaio, aveva dichiarato: “Mi sono intrattenuto spesso e a lungo col maestro Hus, ho mangiato e bevuto in sua compagnia, ascoltato le sue prediche e avuto molte conversazioni riguardo alla Sacra Scrittura, ma non ho mai rilevato in lui alcuna posizione ereticale; piuttosto 1′ho riconosciuto come uomo leale e cattolico, senza notare nulla di erroneo in lui. Fino ad ora nessuno ha potuto dimostrare in lui tracce di eresia; e nessuno ci si è provato quando solo pochi giorni fa durante l’assemblea ecclesiale nel palazzo arcivescovili egli vi è stato sollecitato con pubbliche affissioni”. Cose analoghe aveva detto a suo tempo, durante una riunione di preti, l’arcivescovo di Praga Corrado di Vechta.
Incrollabilmente fedele a Hus, in questo mondo conciliare oscuro e ipocrita, rimase il nobile boemo Jan di Chlum, anche se tutto quanto lui fece fu ostacolato e reso inefficace. Eppure giunsero al re anche due epistole di protesta scritte in ceco dall’aristocrazia morava, oltre che (anch’esso diretto al sovrano e anch’esso in ceco), il solenne memorandum di una grande assemblea di baroni, cavalieri e nobili, scritta il 12 maggio a Praga, provvista di non meno di 250 sigilli dell’aristocrazia boemo-morava indignata per l’incarcerazione del Maestro, avvenuta in dispregio della verità e del diritto. Sosteneva che Hus era stato calunniato senza colpa, ma con lui anche la Boemia e la “lingua ceca”. E adesso, vi si dice, egli si trova “in tuo potere e ostaggio nella tua città, sebbene lui abbia le tue promesse e i tuoi salvacondotti!”
Ma il re temeva i cardinali e ormai da tempo, se non già da principio, si era deciso contro Hus, prendendo opportunisticamente posizione a fianco della grande maggioranza. In modo tanto abile quanto calcolato, con animo tanto infido quanto ambizioso, Sigismondo intendeva presentarsi come salvatore della chiesa e della cristianità intera. E non voleva vedere la sua Boemia bollata col marchio di regione culla “di eretici”. Sicché lasciò cadere Hus, tanto più che – come informa Eberhard Dracher, un testimonio oculare – lo avevano convinto “che egli non era obbligato a mantenere la sua parola verso uno sospettato di eresia, fintantoché egli stesso lo credeva”, spingendolo a non lasciarsi irritare dal “caso Hus e da altre piccolezze”.
Nel capodanno 1415, dunque, re Sigismondo consente formalmente ai cardinali di procedere contro Hus secondo il loro proprio giudizio, Capitolò quindi totalmente al cospetto dei preti radunati a migliaia. Voleva che Hus abiurasse, oppure la condanna avrebbe fatto il suo corso e l’eretico sarebbe stato bruciato, Già una della sue eresie, ebbe ad esternare allora, poteva bastare. Anzi, incitò i cardinali a diffidare di Hus, anche qualora avesse ritrattato. Ritornato in Boemia, la sua dottrina si sarebbe diffusa anche in Polonia e nei paesi limitrofi.
Troppo tardi Hus, messo in guardia già in Boemia dal salvacondotto del re, riconobbe il nemico in colui che per lungo tempo aveva ritenuto il suo “benevolo benefattore e forte protettore”. Si ricordò allora di un messaggero del re, del signor Mikes Divoky, che un tempo, nella fortezza Krakovec, gli aveva promesso nel nome di Sigismondo una scorta sicura e una felice conclusione, eppure, diffidando lui stesso dell’incarico di Sigismondo aveva aggiunto di suo: “Sappi per certo, maestro, che verrai condannato!”. Troppo tardi Hus riconobbe “che Mikes aveva scrutato fin troppo bene le intenzioni del re”. Anzi, era ormai convinto che il sovrano l’avesse illuso e ingannato fin dall’inizio. E scrive a Chlum e Dubá: “Suppongo che questa sia la mia ultima lettera a voi, giacché domani, sperando in Gesù Cristo, sarò purificato dai miei peccati mediante un’orribile morte. Ciò che mi è accaduto in questa notte, non posso scriverlo. Certo è che Sigismondo ha ormai decretato tutto con animo proditorio”.
Già da tempo anche la regia ufficiale del concilio, in special modo una commissione d’inchiesta di diciannove membri – composta da dichiarati nemici di Hus -, aveva designato la sua vittima. In sostanza, però, Hus fu un uomo morto fin dal suo apparire nella città sul lago di Costanza, o quantomeno fu la persona predestinata che, seppure in caso di ritrattazione, si sarebbe lasciata languire a vita in qualche carcere monastico.
Dopo che, il 4 maggio 1415, Wicklef era stato “condannato per l’eternità”, con l’ordine di disseppellire le sue ossa e buttarle in luogo sconsacrato come immondizia, incominciarono ai primi di giugno gli interrogatori pubblici di Hus, una pura e semplice formalità, in cui lo si trattò spesso in modo scandaloso: troppa gente gli urlava contro, non lo lasciava parlare, lo copriva di epiteti sarcastici, gli poneva domande capziose, lo derideva, lo fischiava, gli sputava addosso, lo colmava di maledizioni e di contumelie, gli dava del rettile e della vipera, lo insultava dandogli del sodomita, del turco, dell’ebreo, del Caino e Giuda, trovava ridicoli i suoi scrupoli di coscienza, senza nemmeno prendere in considerazione i suoi ragionamenti. Si ascoltarono testimoni, quasi tutti a lui ostili, quindici in un solo giorno, tutti a suo carico. Furono estorte dichiarazioni e prove, tutte a suo carico. Non gli si riconobbe nessun difensore, dato che nessuna protezione giuridica poteva spettare “ad un individuo sospetto di eresia”. Gli si addebitarono dichiarazioni che non aveva mai rilasciato, tesi che non aveva mai sostenuto, che anzi erano state falsificate; e lo si incolpò addirittura di essersi spacciato come la quarta persona divina.
In breve, Hus poteva dire e comportarsi come voleva, ma tutto gli veniva sempre ritorto contro. Se gli s’impediva di parlare con schiamazzi da tutte le parti, in modo che non potesse rispondere chiaramente, gli si dava del confuso. Se discuteva con precisione, gli si rinfacciava arzigogolo e cavillosità da leguleo e si voleva udire da lui soltanto dei sì o dei no. Se non proferiva parola, si vedeva in questo un’approvazione degli errori. E se argomentava sulla base e con l’autorità dei padri della chiesa, lo si giudicava fuorviante, elusivo e lo si richiamava all’argomento. “Datemi due righe di un qualsiasi autore – si gloriava non senza ragione un inquisitore medievale – e io dimostrerò che è un eretico e lo farò bruciare”. Alla muta scatenata del concilio, una volta, Hus ribatté tranquillamente: “Avevo pensato di trovare più decoro e più disciplina in questo Concilio!”. E agli amici di Praga fece sapere: “Costoro urlavano tutti contro di me. come i giudei contro Gesù!”
Si accusava ripetutamente Hus di cocciutaggine, dandogli dell”’eretico” pervicace. Eppure l’accusato non faceva che ripetere la sua disponibilità a correggersi, offrendo spesso al concilio la sua ritrattazione, la sua umile ritrattazione, qualora lo avessero convinto dell’errore, inducendolo a ricredersi, confutandone le tesi sul fondamento della Bibbia, in base ai padri della chiesa.
Ancora poco prima della sua esecuzione, il 5 luglio, Hus dichiarò ad una delegazione ufficiale (tra i quali erano due dei più insigni cardinali, d’Ailly e Zabarella), quand’era ormai stremato e sfinito, già segnato dalla morte: “… se fossi consapevole di aver scritto o predicato qualche cosa contraria alla legge di Cristo e alla sua vera Chiesa, Dio mi è testimone che avrei ritrattato in umiltà. lo pretendo soltanto che mi si mostrino migliori e più accettabili prove dalla Scrittura, più convincenti di quelle che ho scritto e insegnato – allora ritratterò di buon grado!”. E quando uno dei vescovi lo interpellò direttamente “Vuoi forse essere tu più saggio di tutto il Concilio?”, Hus ribatté: “lo non intendo essere più saggio del Concilio … Datemi solo, ve ne prego, il più infimo esponente di questo consesso che mi insegni qualcosa di meglio che non sia la Bibbia e io farò tutto quanto il Concilio pretende da me!”
Avrebbe dovuto agire contro la sua coscienza, abiurare da ciò che non aveva mai detto, raccontare bugie di fronte al concilio? Proprio questo era ciò che si desiderava, si voleva piegarlo, umiliarlo, pretendendo la sua totale ritrattazione; si voleva colpire, annientare l’opera della sua vita, tutto il pericoloso movimento di Boemia. “Il Concilio voleva la menzogna, anticipando la tattica dei clamorosi processi spettacolo del XX secolo: esigeva una globale confessione di colpa anche là dove non si era trovata o dimostrata alcuna colpa” (Rieder).
Fin troppo comprensibile, dunque, che Hus a Costanza, con la morte davanti agli occhi, usasse la tattica in modo particolarmente circospetto, riflessivo, che lasciasse valere grande prudenza, che fosse esposto a “tentazioni”. Aveva paura di dover forse abiurare, di perdere la sua credibilità, di mostrare anche debolezze, timore; cercò quindi di smorzare i toni e di limitare molte cose prima asserite e difese, replicando talvolta in modo non molto concreto, tentando di essere evasivo, perfino contestando alcune cose, anche quando pareva spingersi troppo oltre. Dopo una visita presso Hus l’ambasciatore dell’università di Colonia afferma: “Non ho mai visto un tipo così arrogante e capace di falsare il diritto che sapesse rispondere con tanta prudenza e nascondere la verità”. Ma in tutto l’essenziale, nelle cose decisive, in tutto quanto riguardava il proprio rigorismo morale, la propria impavida critica alla chiesa, la sua alta considerazione per Wicklef, il maestro boemo si rivelò inflessibile. Sempre incalzato perché abiurasse, sempre e senza tregua martellato per la ritrattazione spontanea con minacce e lusinghe, Hus rimase irremovibile.
Giunse così sabato 6 luglio 1415, l’ultimo atto della cruenta messinscena. Di prima mattina, nel duomo di Costanza, tutti i personaggi importanti e famosi presenziarono alla santa messa dalla quale Hus restò dapprima escluso, incatenato e circondato nell’atrio da armati. L’arcivescovo di Gnesen cantò il vangelo secondo Matteo 7, 15: “Guardatevi dai falsi profeti: essi vengono a voi in veste di pecore, ma nel loro intimo sono lupi rapaci …”. Il vescovo di Lodi tenne l’omelia sulla massima di Paolo “Il corpo peccaminoso deve essere distrutto”, facendo appello al re, presente sotto la corona e circonfuso da tutte le sue insegne, affinché annientasse la “eresia”, “eliminando soprattutto questo eretico matricolato, incancrenito, per la cui malvagità diverse regioni del mondo sono ormai infettate da peste ereticale e avviate alla perdizione …”.
Hus, fatto entrare nel frattempo, era caduto sulle ginocchia e pregava.
Fu dunque data lettura dei capi d’accusa e delle numerose false testimonianze, da tempo invalidate, su cui incombeva un “Decreto del silenzio”. Ma Hus, utilizzando la sua ultima occasione di informare il pubblico, di ribadire la propria ortodossia, continuò a gridare a voce alta le sue proteste e le sue precisazioni, finché si diede ordine agli sbirri di farlo tacere con la forza, tanto che lui con le braccia levate al cielo implorò con veemenza: “Ascoltatemi, per l’amor di Dio, prestatemi orecchio, perché almeno non tutti quelli qui presenti credano che io abbia affermato dottrine sbagliate! Dopo, farete di me ciò che volete!”
Quando lo s’incolpò nuovamente di essersi definito come la quarta persona della divinità, Hus pretese, ma inutilmente, di sapere il nome del presunto testimone, ribadendo la propria fede cattolica. E quando gli fu imputata la sua noncuranza del bando, dichiarò di aver chiesto tre volte udienza al papa per difendere la propria causa, oppure che lo si convincesse dell’errore. Ma poiché questo gli era stato negato, affermò di essere intervenuto “a questo Concilio per libera decisione, dopo che il re, qui presente, mi ebbe promesso sicura scorta e che mi avrebbe protetto contro qualsiasi violenza”; nel direciò Hus volse lo sguardo sul sovrano, “the playboy ruler of the Holy Roman Empire”, sulla cui faccia, dice il testimone oculare Mladenoviç “si stese un rossore di vergogna”, apparendo senza dubbio “the saddest figure in this drama” (Molnar).
Una triste figura, perciò, la fa ancora oggi il cattolico Brandmüller, storico ecclesiastico, quando scrive: “Alla fin fine il Concilio cercò in ogni modo di rendere il più agevole possibile all’imputato la ritrattazione … “. [Devo a questo punto dire che Brandmüller è quel personaggio che Papa Ratzinger richiama a sostegno delle sue tesi miserabili su Galileo, ndr]
Data lettura del verdetto con cui il “santo Sinodo” giudicava un “uomo ostinato, incorreggibile e non disposto all’abiura delle sue erronee teorie”, un “eretico” vero e manifesto, uno che ha “insegnato e pubblicamente predicato obbrobriosi errori e molte cose scandalose, temerarie e sovversive”, Hus cadde in ginocchio ed esclamò: “Signore Gesù Cristo, ti prego, perdona tutti i miei nemici per la tua grande misericordia; tu lo sai, costoro mi hanno falsamente accusato, producendo testimoni falsi e adducendo articoli bugiardi contro di me! Perdona loro per la tua incommensurabile grazia”. Molti vescovi scoppiarono a ridere; ma il consigliere reale conte Schlick lasciò indignato il duomo, dichiarando a voce alta di non poter essere presente in buona coscienza ad una così iniqua condanna.
A questo punto Hus venne solennemente degradato. In piedi su un podio nel mezzo della navata centrale della chiesa e vestito di tutti i paramenti sacerdotali, sette vescovi maledicenti che lo oltraggiavano, dato che una volta di più rifiutava l’abiura “per non mentire in faccia a Dio e non dover urtare contro la mia coscienza”, come disse tra le lacrime – gli strapparono di dosso i paramenti pezzo per pezzo, storpiarono la sua tonsura e lo consegnarono al “braccio secolare”. Non senza avergli calcato prima sulla testa il copricapo dell”‘eretico”, fregiato con “tre orrendi demoni”, accompagnandolo col fatidico annuncio: “Consegniamo la tua anima al demonio”.
Hus venne quindi trascinato, davanti ai suoi libri dati alle fiamme, attraverso un ‘immensa folla che faceva ala al percorso. Alla vista della catasta del rogo cadde sulle ginocchia e pregò a voce alta: “Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, che hai sofferto per noi, abbi pietà di me”. Ma quando, nel luogo del sacrificio, volle iniziare una predica in lingua tedesca, gli venne impedito. E nemmeno gli fu consentito di pronunciare i tre discorsi che sintetizzavano i princìpi riformistici della Boemia, quelli che Hus aveva elaborato appositamente per il concilio di Costanza.
Fu legato con corde bagnate ad un palo e furono ammucchiati trucioli e paglia intorno al suo corpo fino al mento. Racconta il testimonio oculare Peter von Mladenoviç: “A questo punto i boia appiccarono il fuoco al maestro. Al che, con voce alta, egli intonò dapprima “Cristo, figlio del Dio vivente, abbi pietà di me”, ripetendo per la seconda volta “Cristo, figlio del Dio vivente, abbi pietà di me”. E alla terza volta aggiunse “Tu che sei nato da Maria la vergine!”. E quando ebbe incominciato per la quarta volta a cantare, subito il vento gli spinse le fiamme in faccia e quindi, pregando tra sé e muovendo labbra e capo, se ne andò al Signore. Ma nell’attimo di silenzio, prima di spirare, sembrò che si muovesse, e precisamente per il tempo necessario per recitare in fretta due o tre paternoster. Quando la legna delle suddette fascine fu ridotta in cenere c tuttavia restava ancora una massa corporea, appesa per il collo alla succitata catena, i carnefici precipitarono al suolo quella massa insieme alla colonna, ravvivarono nuovamente il fuoco con una terza carrata di legna e bruciarono la massa completamente … Dopo che ebbero trovato tra gli organi interni il suo cuore, affilarono una stanga alla maniera di uno spiedo e vi fissarono in cima il cuore, lo bruciarono con cura e lo scrollarono con delle pertiche e finalmente ridussero in cenere tutta quella massa. E per ordine dei succitati signori, del conte palatino e del maresciallo, i boia gettarono nel fuoco la sua camicia insieme con le scarpe dicendo: “Affinché i Boemi non conservino queste cose come reliquie …”. E così caricarono gli avanzi su un carro e affondarono il tutto nelle acque dell’attiguo fiume Reno”.
Secondo il cronista di Costanza Ulrich Richental “il boia lo afferrò e lo legò coi vestiti e con tutto ad un’asse verticale, gli mise uno sgabello sotto i piedi, spinse legna e paglia sotto il suo corpo, vi versò dentro un po’ di pece e vi appiccò il fuoco. A quel punto Hus incominciò a gridare e fu presto avvolto dalle fiamme. E una volta ridotto in cenere, l’infuia (il berretto dell’eretico) apparve ancora intatta. Allora il boia la spinse tra le braci in modo che anch ‘essa finì di bruciare e si diffuse un cattivo odore; perché Il cardinale Pancrazio aveva avuto un mulo che era morto in quel luogo e vi era stato sepolto: per la calura si aprì il terreno da cui emanò quel fetore”.
Così la massa degli astanti – buona la regìa! – poté avere una prova ulteriore del gusto sopraffino del diavolo.
Il giorno dopo i padri conciliari celebrarono una cerimonia di ringraziamento a Dio. E il teologo cattolico Brandmüller, ancora nell’anno di grazia 1999, giunge in ultima analisi a tirare la “conclusione” della sua apologia col seguente giudizio finale: “Il processo fu equo e corretto”. [...]
E l’anno successivo fu mandato al rogo Girolamo da Praga, amico e compagno di lotta di Hus.
In precedenza Girolamo aveva promesso a Hus di seguirlo in caso di pericolo e, sebbene fosse egli stesso bandito e messo in guardia da Hus, era giunto in aprile a Costanza, abbandonando tuttavia ben presto la città, dopo che Chlum e Dubá l’ebbero avvertito del pericolo imminente. Ma poco prima del confine boemo venne catturato a Hirsau, nell’Alto Palatinato, e in maggio rispedito indietro dal duca Giovanni di Baviera. Lo trasportarono, mani e piedi legati, a Costanza, dove giunse il 23 maggio e rimase incarcerato per un anno, sempre con mani e piedi in catene, in posizione ricurve, mantenuto a pane e acqua finché fu bruciato sul rogo il 30 maggio 1416.
Per la verità, ammorbidito dalle spaventose condizioni detentive, Girolamo era stato indotto a dissociarsi nel settembre 1415 da Wicklef e da Hus; ma anche quella ritrattazione venne da lui ritrattata e Girolamo difese le proprie originarie convinzioni con un atteggiamento che fece impressione perfino sui suoi nemici. ‘Lo riconobbe Poggio Bracciolini, famoso umanista, partecipante al concilio e segretario della Curia pontifica: “Non ho mai visto un uomo così eloquente che fosse così vicino agli antichi oratori quanto Girolamo. I suoi nemici avevano elaborato diverse accuse per incolparlo di eresia, ma lui si difese in modo così suggestivo, tanto modesto quanto saggio, che io non sono in grado di esprimerlo … Girolamo aveva languito per 340 giorni in una torre umida e buia, eppure fu in grado di tenere un discorso così eccellente, costellato di esempi di uomini famosi e di tesi desunte dai Padri della chiesa. Il suo nome merita onore imperituro … Girolamo fu della scuola dei saggi antichi; né Muzio Scevola ha tenuto la sua mano nel fuoco con tanto coraggio quanto Girolamo vi tenne il suo corpo né Socrate vuotò il veleno dal calice con tanta pacatezza quanta ne mostrò Girolamo salendo sul rogo.
L’orrenda esecuzione di Hus mostrò quale seguito avesse in Boemia. Immediatamente vi furono dovunque rivolte i cui inizi sono così raccontati da Deschner (2000):
La morte tra le fiamme di Hus e di Girolamo condusse, né ci si poteva aspettare diversamente, all’insurrezione popolare in Boemia, che generò nuovi crimini mostruosi. La regione si trasformò in un ribollente pandemonio e il popolo – dalla nobiltà fino all’ultimo contadino formò un unico fronte contro l’ortodossia cattolica. Mentre si elevava Hus alla santità, mentre si veneravano lui e Girolamo come martiri, si ignorarono le decisioni conciliari prese a Costanza, non ci si curò delle incriminazioni, delle maledizioni dell’interdetto su Praga e venne distribuita la comunione sotto forma di pane e vino facendo del calice un attributo di identificazione, un simbolo attrattivo e potente degli hussiti. Indignati, assetati di vendetta, disposti alle rapine, i “credenti del calice” cacciarono il clero della vecchia chiesa. Ne seguirono prolungati eccessi, massicce espulsioni, con uccisioni di chierici avversari. Lo stesso arcivescovo di Praga fu costretto a tagliare la corda.
Mentre re Sigismondo cercava di destreggiarsi tra le parti, mentre Venceslao si barcamenava ancora di più, le menti radicali si misero alla testa del movimento, rapidamente spaccatosi in gruppi diversi, più di tutti negli hussiti radicali – chiamati Taboriti – e nei gruppi moderati, verso i quali propendevano università e alta nobiltà (detti Utraquisti, o calicisti, o calistini), i quali accettavano la comunione sotto le due specie del pane e del vino. Costoro formularono le loro rivendicazioni nei “Quattro articoli di Praga”, vale a dire, oltre alla comunione “sub utraque specie”: libera predicazione per i chierici ad essa abilitati, assenza di proprietà per i religiosi, punizione dei peccati mortali (eresia, simonia, furto, alcolismo, tra l’altro), tanto per i sacerdoti quanto per i laici, da parte dell’autorità civile.
Una decina d’anni dopo il criminale rogo, nel 1424, il Cardinale Branda, ambasciatore in Boemia, ebbe a scrivere le seguenti bestialità che sembrano uscite dalla bocca del centurione che martellava sui chiodi della croce:
La maggioranza di questi eretici vuole la comunità dei beni e sostiene che alle autorità non si deve né tributo né obbedienza. Ora con questi principi si distrugge tutta la civiltà. Gli hussiti reputano come inesistenti i diritti divini ed umani e non pensano che a sbarazzarsene con la violenza. Le cose andranno tanto lontane che né i re, né i principi nei loro regni o principati, né i borghesi nelle loro città, né i privati nelle loro case, saranno più al sicuro; questa abominevole setta non danneggi solamente la fede e la Chiesa; guidata da Satana, dichiara guerra all’umanità intera, di cui attacca e capovolge ogni diritto.
Ed ancora a circa metà Novecento presunti storici cattolici come Guiraud scrivevano:
Non bisogna dimenticare tutto quanto vi era di socialista e di comunista nelle rivendicazioni Hussite; da questo punto di vista il movimento rivoluzionario della Boemia, nel XV secolo, procedeva direttamente dalle dottrine di Jan Hus e di Wicklef, sincretismo di tutto quanto esisteva di antisociale nei sistemi degli Spirituali, dei Begardi, dei Valdesi e dei Catari.
Socialista ? Comunista ? Chi dice queste sciocchezze dovrebbe essere radiato da ogni biblioteca e le sue opere utilizzate come spessori per sistemare in piano i tavoli traballanti. Per leggere il capolavoro di questo esegeta dell’orrore si vada al suo Elogio dell’Inquisizione, libercolo esaltato dai cattolicisti nostrani.
ALTRI STERMINI DI MOVIMENTI ERETICALI MENO NOTI
Mi sono soffermato su alcuni movimenti ereticali perché più noti. Ma ciò non deve far pensare che con questi abbiamo finito. Di eresie ve ne furono moltissime nel periodo di tempo che ho preso in considerazione. Si tratta sempre di cristiani contro cui altri sedicenti cristiani si scatenavano con la massima crudeltà. Naturalmente queste persecuzioni di cristiani non escludevano le persecuzioni a non cristiani che, come contro ebrei e musulmani, furono numerosissime e sanguinosissime. Ma fermiamoci ai cristiani eretici.
Già dall’XI secolo si svilupparono vari movimenti ereticali in Lombardia. Vi furono predicazioni di un tal Girard vicine al manicheismo a Monteforte, vicino Milano. Si condannava matrimonio e famiglia come centri che distoglievano dalla vita comunitaria. Girard e seguaci furono fatti arrestare dall’arcivescovo di Milano e bruciati vivi davanti ad una croce di fronte la quale era stato loro chiesto, senza risultato, di abiurare. Questo e molti altri fatti mostrano che la vocazione criminale era nella Chiesa prima che sfociasse nell’organizzazione industriale del crimine attraverso l’Inquisizione. Questo rogo non vinse l’eresia che si sviluppò sempre di più grazie agli immorali e crapuloni comportamenti di preti, frati e gerarchie ecclesiastiche a fronte di un popolo miserabile in cui la morte per fame era spesso una liberazione. Nel XII secolo si sviluppò nel milanese e da lì ebbe grande espansione in tutto il Nord Italia il movimento dei Patarini (neo manichei). E’ l’epoca in cui si ebbero le virulente prediche sia politiche che teologiche di Arnaldo da Brescia che scatenarono la rivoluzione a Roma e molte sollevazioni in varie parti d’Italia. I beni terrieri non sono della Chiesa ma del sovrano del luogo che ne deve poter disporre per darlo in gestione ai poveri cittadini. La Chiesa non dà lavoro e mantenendo il potere di molti beni è responsabile di miseria e fame. I sovrani dovevano confiscare le terre della Chiesa ed il popolo doveva rivoltarsi alle signorie della Chiesa a cominciare da quella del Papa. Brescia fu il primo luogo della rivolta. Il vescovo fu privato di ogni bene e cacciato. Ma, come accennato, fu Roma il centro della rivolta. Nel marzo 1146 fu cacciato il Papa Eugenio III (che si recò prima a Viterbo, poi a Siena ed infine in Francia) e fu proclamata la Repubblica che riconosceva la supremazia dell’Imperatore di Germania. La borghesia ghibellina sposò le tesi degli arnaldisti, patarini e catari. Si trattava di scacciare il Papa per avere un potere laico. Nel 1204 fu espropriato e scacciato il vescovo di Piacenza, poi quello di Cremona, città che per tre anni furono in mano degli eretici coalizzati. La forza di questi movimenti in Italia si accrebbe ancora quando li eretici albigesi del Sud della Francia furono sconfitti da Simon de Montfort. Vi furono migrazioni di massa verso il Nord d’Italia e si stabilirono stretti contatti tra queste regioni d’Europa. Il cattolico Guiraud, più volte citato, scrive senza pudore come ci si spiega facilmente come la Chiesa dovesse organizzare con grande cura l’Inquisizione, in questi paesi ove l’eresia avendo spesso la complicità del potere laico praticava pubblicamente il culto e lanciava persino attacchi ai cattolici. Tutto naturale e per di più dovuto, dunque. Nel 1224 Papa Onorio III organizzò, mediante vari vescovi, la campagna contro l’eresia. Nel 1228 fu il cardinale Goffredo di San Marco che ordinò la pena di morte per gli eretici che la Chiesa consegnava al braccio secolare laico. Papa Gregorio IX, a partire dal 1231 nominò vari inquisitori nel Centro Nord d’Italia con il compito di estirpare l’eresia. Iniziò una dura repressione e qualche inquisitore, come quello di Milano Pietro da Verona, fu assassinato. Ma l’impegno di tale personaggio era così importante che la Chiesa lo fece santo (insieme a molti altri inquisitori, anche senza essere ammazzati), il famoso San Pietro martire. Nel 1279 a Parma, dopo l’esecuzione della signora ostessa Tedesca Bianco amata e stimata dal popolo, fu invaso e saccheggiato il convento domenicano e furono cacciati tutti i preti e frati che per otto anni non poterono rimettere piede in città. Intanto gli inquisitori attaccavano e bruciavano dove potevano. Fu organizzata contro la cittadina di Sirmione, in cui il potere religioso era di un vescovo cataro, una spedizione militare guidata da Alberto della Scala, capo della nota famiglia degli Scaligeri di Verona. La parte religiosa era dell’inquisitore Filippo Bonaccorsi. Il 13 febbraio 1278 all’Arena furono bruciati 200 eretici. Costoro persero la città dopo la sconfitta ma la ripresero tanto che gli Scaligeri la dovettero riprendere nel 1289 (con l’Inquisitore a lato e quindi con altri roghi). Processi inquisitori con molti roghi e distruzione di abitazioni si ebbero ad Orvieto (1249 e 1269), a Treviso (1233), in tutta la Lombardia con Bergamo indicata come città complice degli eretici (intorno al 1250), nel Nord Est contro il cui signore, il ghibellino Ezzelino da Romano, fu scatenata una vera crociata (1259), a Sirmione (1273 e 1278), a Parma (1279) … Intanto in Francia il capo dell’Inquisizione, l’ex eretico Roberto il Bulgaro, accendeva roghi contro i catari (1233). Nonostante le proteste dei vescovi di Sens e Reims egli proseguì bruciando e seppellendo vivi 250 eretici. Le proteste furono tante che Roberto fu arrestato ed imprigionato. Analoghe repressioni con annessi roghi e torture si ebbero in Germania, Olanda e svariati altri Paesi europei.
LA TORTURA
Come annunciato pagine indietro, mi soffermo ora un poco sulle pratiche della tortura per indurre in confessione da parte degli inquisitori.
Stupisce che Cardini apra il capitolo dedicato a questo orrido argomento dicendo che la tortura era praticata anche nei normali processi civili. Non ho dubbi, il potere è sempre criminale, soprattutto con i deboli. Il fatto che una persona normale, quale io sono, vive nell’illusione che un potere che si richiama a Gesù sia un potere che, pur tentando di estirpare l’eresia e quindi di colpire posizioni diverse, utilizzi gli stessi metodi che, come cercherò di mostrare, sono molto più raffinati e perfezionati. Infine non vi è mai stato nella storia un potere civile che abbia potuto operare con questa crudeltà contro la dissidenza per seicento anni ! Ma probabilmente ha ragione Cardini, guai ad intendere la Chiesa come un potere umanamente accettabile. E’ criminale, addirittura più degli altri.
Il primo libro che tratta dell’uso della tortura e dell’interrogatorio sotto tortura (quaestio) in termini giuridici è il veronese Liber iuris civilis del 1228. Come già detto, l tortura fu recepita dalla Chiesa con la Bolla Ad extirpanda del 1252 di Innocenzo IV, successivamente reiterata dai successivi papi. Tra questi Alessandro IV nel 1259 autorizzò gli ecclesiastici che si dedicavano a questa santa opera a darsi l’assoluzione reciproca nel caso in cui, contrariamente al diritto canonico, qualche torturato avesse avuto l’ardire di sprizzare sangue perché, appunto, con l’eterna ipocrisia dei gerarchi della Chiesa, Ecclesia aborret a sanguine. La tortura fu quindi regolata anche con dei trattati (come ad esempio De tormentis e De iudiciis et tortura)ed in definitiva tutto era permesso meno che la mutilazione e la morte. Quando essa passò ai laici per conto della Chiesa quella cosa del sangue non fu più tenuta in conto perché non era un ecclesiastico a farlo sgorgare. Uno dei problemi di fondo della tortura, al di là del crimine infinito, era la sua efficacia. Quando si torturava una persona per estorcergli la confessione si poteva incappare in persone che riuscivano a diventare insensibili e a non confessare mai nulla o a persone che si terrorizzavano ancor prima di cominciare e confessavano tutto, soprattutto anche ciò che non avevano mai fatto o pensato. Vi furono discussioni in proposito che portarono a regolamentazioni ulteriori e all’esenzione per alcune categorie di persone (bambini, donne gravide, puerpere, vecchi, malati) per ovvi motivi e per altre categorie per ancora più ovvie ragioni (preti, nobili, militari, cavalieri).
Ogni giurisdizione inquisitoriale aveva le sue torture preferite e quindi non vi sono torture che si applicavano ovunque. Tra le torture più diffuse vanno elencate: i tratti di corda (l’inquisito con le mani legate dietro la schiena, era sollevato in alto con un sistema di carrucole e poi lasciato cadere al suolo); il cavalletto (l’inquisito veniva fatto sedere a gambe divaricate e con grossi pesi attaccati alle caviglie su un cavalletto che aveva l’asse superiore a sezione triangolare con la punta rivolta verso l’alto); il fuoco (l’inquisito con i piedi unti veniva avvicinato sempre più ad una fonte di calore); la stanghetta (l’inquisito era sottoposto ad un sistema che comprimeva polsi e caviglie); le cannette (le dita dell’inquisito venivano compresse fino a schiacciamento); della categoria precedente fa parte lo schiacciapolici; la veglia (all’inquisito, legato ad una sedia, veniva impedito di dormire per circa due giorni); la bacchetta (uno strumento per fustigare l’inquisito). Vi erano poi altri sistemi molto più orrendi e difficili da descrivere che presenterò più oltre quando mi servirò di illustrazioni.
Il primo sovrano che abolì la tortura in Europa fu Federico II di Prussia tra il 1740 ed il 1754. Altri sovrani seguirono. Il testo che più contribuì ad eliminare la pratica della tortura fu il Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria del 1763-1764. Ma per l’abolizione definitiva occorrerà aspettare i primi del secolo XIX. La Chiesa abolirà la tortura (ed i roghi) nel 1816 con una bolla di Pio VII. Essa continuò però ad essere praticata ancora per 20 anni. Non terminò invece a funzionare l’Inquisizione che funzionò fino alla liberazione di Roma nel 1870 con il crudele Pio IX al potere e con una gran quantità di reati nuovi aggiunti proprio da Pio VII: blasfemia, immoralità, atteggiamento irrispettoso verso la Chiesa, mancata partecipazione alle festività, abbandono della vera fede
Nel 1480 Papa Sisto IV dette la gestione dell’Inquisizione spagnola ai Re Cattolici (Fernando e Isabel) che da una parte combattevano le conversioni dei cristiani all’ebraismo e dall’altra ambivano requisire i beni degli ebrei. Iniziava il capitolo dell’Inquisizione spagnola che tratterò nel prossimo articolo insieme al riordino dell’Inquisizione che Paolo III ordinò nel 1542 al fine di renderla più efficiente contro l’eresia (Inquisizione romana).
NOTE
(1) Le eresie dei primi secoli furono le seguenti:
- 1 Docetismo
- 2 Cerintianesimo
- 3 Modalismo
- 4 Adozionismo
- 5 Marcionismo
- 6 Montanismo
- 7 Manicheismo
- 8 Novazianismo
- 9 Donatismo
- 10 Arianesimo
- 11 Apollinarismo
- 12 Priscillianesimo
- 13 Pelagianesimo
- 14 Monofisismo
- 15 Nestorianesimo
- 16 Monotelismo (o monoteletismo)
- 17 Abeliani
- 18 Adelofagi
(2) Alla voce eresie medioevali, Wikipedia inserisce una nota che riporto perché descrive bene la situazione:
Nelle descrizioni a questa voce è opportuno tenere presente che determinare le reali caratteristiche e i principi di ogni movimento antico rappresenta un’operazione complessa, se si considera che quasi ogni informazione giunta fino a noi proviene da oppositori del suo credo. La maggior parte della letteratura di questi movimenti è stata o distrutta o ha subito importanti cambiamenti, qualcosa è tuttavia sopravvissuto in testi scritti in forma modificata o attraverso la tradizione orale. La definizione di tutti questi movimenti come “eretici” è ormai stata abbandonata dagli studiosi, in quanto l’eterodossia presuppone una deviazione da un’ortodossia condivisa a priori.
(3) Catari vuol dire puri o perfetti. Questo movimento aveva molte affinità, e condivideva anche dei testi sacri, con l’altro movimento ereticale, quello dei bogomili (dal nome bulgaro di Bogomil, forse un monaco, ritenuto il fondatore) dei Balcani, all’interno dell’Impero d’Oriente. I bogomili avevano subito il cristianesimo come imposizione degli occupanti (l’Imperatore bizantino e cristiano Basilio aveva occupato la Bulgaria agli inizi dell’XI secolo) e subivano l’oppressione della Chiesa cristiana ortodossa e di quella cristiana di Roma. Il movimento era nato agli inizi dell’XI secolo come derivazione di varie eresie dei primi secoli. Nel XV secolo il movimento dei bogomili si convertì all’Islam.
(4) Per iniziativa di frate Domingo, nel 1220 nacque a Bologna l’ordine dei frati predicatori chiamato successivamente dei domenicani o frati neri o cani da guardia di Dio.
(5) La corona di Aragon estendeva il suo potere su alcune zone del Sud della Francia come l’Occitania che era legata attraverso i Pirenei alla Catalogna fino all’Ebro. L’intervento francese in quelle zone spaventava il Re di Aragona per il tentativo francese di impossessarsi di quei territori.
(6) Le notizie su Dolcino e Margherita provengono da un articolo che ho pubblicato in precedenza su Fisicamente. In tale articolo vi sono i riferimenti bibliografici.
La tragica vicenda di Dolcino suscitò l’interesse di diversi letterati nel corso dei secoli come Nietzsche che esaltò la figura di Dolcino come quella di un prototipo ideale del super-uomo, così come egli lo immaginava:- “Dolce e spietato, al di sopra di ogni miserabile morale, praticamente l’individuo che può porsi al di là del bene e del male”.
e Dante Alighieri, che lo descrisse nell’Inferno, tra scismatici e seminatori di discordie, nel canto XXVIII ai versi 55-60 dove Maometto dice a Dante:
Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi,
Tu che forse vedrai lo sole in breve,
S’egli non vuol qui tosto seguitarmi,
Sì di vivanda, che stretta di neve
Non rechi la vittoria al Noarese,
Ch’altrimenti acquistar non saria a lieve.
Nel 1907 sul luogo della sua ultima resistenza fu eretto un obelisco commemorativo, che fu abbattuto a cannonate durante il fascismo per essere poi ricostruito negli anni ’60.
BIBLIOGRAFIA
(1) Karlheinz Deschner – Il gallo cantò ancora. Storia critica della Chiesa – Massari 1998
(2) Franco Cardini – L’inquisizione – Giunti 1999
(3) John Edwards – Storia dell’Inquisizione – Mondadori 2006
(4) Jean Guiraud – L’Inquisizione medioevale – Corbaccio 1933
(5) Juan Blázquez Miguel – La Inquisicion – Penthalon Madrid 1988
(6) M. Baigent, R. Leigh – L’Inquisizione – Marco Tropea 2000
(7) William Monter – Frontiers of Heresy. The Spanish Inquisition from the Basque Lands to Sicily – Cambridge University Press 1990
(8) Pietro Tamburini – Storia generale dell’Inquisizione – Bastogi 1862
(9) Karlheinz Deschner – Storia criminale del Cristianesimo – Ariele 2000
(10) Henry Ch. Lea - Storia dell’Inquisizione - Feltrinelli/Bocca 1974 (l’opera è del 1888)
(11) N. Eimeric, F. Peña – El manual de los inquisidores – Muchnik Barcelona 1983
(12) Henry Kamen – La inquisición española – Alianza Editorial Madrid 1974
Featured image, facciata del palazzo dei Papi ad Avignone, fonte Wikipedia.