Della insufficienza dello sciopero generale ne aveva coscienza Engels, il quale ironizzava contro chi predicava “dovunque i risultati miracolosi dello sciopero generale”, come se “un bel mattino tutti gli operai di tutti i rami dell'industria di un paese, o meglio, del mondo intero, cessano il lavoro, e in questo modo, al massimo in quattro settimane, costringono le classi possidenti o a sottomettersi umilmente o ad attaccare gli operai”.
Stai a vedere che la Camusso è diventata comunista? Oppure Engels è stato un precursore della deriva compatibilista della Cgil? Ovviamente nessuna delle due cose. Engels notava che lo sciopero generale non può essere considerato in maniera immediata e diretta come “la leva per mezzo della quale si compie la rivoluzione sociale”. Lo sciopero generale sarebbe, nelle parole di Engels, una misura “colpisce direttamente soltanto i singoli borghesi ma non il loro rappresentante generale: il potere dello Stato.” Ovviamente i termini dell’insufficienza dello sciopero generale affermati da Engels sono diametralmente opposti a quelli considerati dalla Camusso.
Quest’ultima, infatti, si muove in una logica assolutamente compatibilista rispetto ad uno Stato che va dismettendo ogni forma di tutela sociale, ogni forma di garanzia dell’esercizio dei diritti dei lavoratori, ogni forma di affermazione della legittimità del conflitto. Un processo di dismissione funzionale alla ristrutturazione capitalistica, la cui supposta necessità è propagandata con gli slogan secondo i quali saremmo tutti sulla stessa barca e che, quindi, se questa affonda nessuno si salva. Che ci siano alcuni che da tempo occupano scialuppe di salvataggio, alla Camusso sembra non passi nemmeno per la testa. Come non passa per la testa nemmeno a Bonanni e Angeletti, ovviamente. O comunque si guardano bene dall’affermarlo.
D’altronde il documento congiunto che Cgil, Cisl, Uil e Confindustria hanno trasmesso al governo lo scorso luglio, è quanto di più esplicito della deriva neocorporativa assunta anche dalla Cgil a guida Susanna Camusso. In quel documento si rilanciava l’idea di un nuovo patto sociale per la crescita, dentro il quale si auspicava “una grande assunzione di responsabilità da parte di tutti”, indistintamente. Come se i lavoratori non avessero già dato, costretti a cedere diritti e reddito, sotto i colpi di accordi e norme stimolati, auspicati e approvati in nome di quella “grande assunzione di responsabilità da parte di tutti”: con l’accordo del 28 giugno del 2011, con l’articolo 8 della manovra di Ferragosto dello stesso anno, con la riforma del mercato del lavoro e con quella delle pensioni, con l’accordo del 31 maggio troppo frettolosamente considerato come un avanzamento per la democrazia nei luoghi di lavoro.
Non è perciò credibile la preoccupazione della leader della Cgil, che va a congresso con un documento nel quale si rivendica la bontà di quegli accordi. Non è credibile la Camusso quando motiva l’insufficienza dello sciopero generale, con “la difficoltà economica dei lavoratori”, sottolineando la necessità “di identificare l'elemento di unificazione del mondo del lavoro”. Perché le difficoltà economiche sono il frutto marcio delle politiche economiche che la Camusso, come Cisl, Uil e Confindustria, critica solo con riferimento agli indicatori macroeconomici e non per la loro logica classista. Perché la frammentazione del mondo del lavoro non sono frutto della casualità, ma conseguenza di quella precarietà, contro la quale la Camusso non si sogna di alzare barricate, decantata allo stesso tempo come rimedio per la “noia del posto fisso” e necessità per la competitività d’impresa.
La Camusso, nel suo ruolo di segretaria generale, ha finora guidato la Cgil ad assumere un ruolo compatibilista e neocorporativo. L’insufficienza dello sciopero generale di cui parla la segretaria generale della Cgil va letta in questa logica. E proprio contro questa logica occorre affermare la necessità dello sciopero generale.