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L’Interfaccia (sceneggiatura)

Creato il 21 dicembre 2011 da Arvales @ArvalesNews

L’Interfaccia (sceneggiatura)Il Professore Attilio Orsini, un luminare della psichiatria in odore di premio Nobel, si rivolge a una prestigiosa software-house per realizzare qualcosa di simile a una rivoluzionaria macchina della verità. Dopo anni di studi e sperimentazione clinica, il Professore è convinto di aver trovato il modo di scoprire quando un soggetto mente, anche se risponde sinceramente alle domande che gli vengono poste.
Molti anni prima, mentre si trovava negli Stati Uniti per la presentazione del suo ultimo libro, il Professore aveva casualmente conosciuto l’autore di una famosa serie televisiva, nella quale il protagonista scopriva chi mentiva osservando il linguaggio del volto e del corpo. Dalla discussione che era seguita a quell’incontro, gli era venuta l’idea di superare il limite dei più avanzati dispositivi di rilevazione della verità, che intercettavano le menzogne intenzionali di chi era consapevole di mentire, ma non la capacità di alcuni soggetti d’ingannare anche i più sofisticati modelli di “macchina della verità”. Negli anni seguenti, lo psichiatra aveva studiato in profondità il concetto di “menzogna” e le relative dinamiche mentali, scoprendo che se il soggetto mentiva in buona fede, dunque anche a se stesso, era molto difficile scoprirlo con le tecniche convenzionali di analisi, anche con quelle che si basavano sul linguaggio del corpo. Incrociando le teorie del fondatore della Sinergologia Philippe Turchet con le sue esperienze cliniche, il Professore aveva infine postulato un paradigma antropometrico capace di scoprire non solo le menzogne consapevoli ma anche quelle inconsce. La realizzazione dell’Interfaccia, come verrà battezzata la nuova macchina della verità, viene affidata a un ingegnere informatico, al quale si affianca un geniale programmatore freelance che conduce una vita dissennata: un personaggio sui generis incline al vizio del gioco, al sesso e all’alcol, conosciuto nell’ambiente degli informatici col soprannome di Bukowski…

L’Interfaccia è il titolo di una sceneggiatura che ho scritto ma che non mi ha soddisfatto. Durante il lavoro mi sono divertito con i dialoghi e la scenografia, ma mi è mancato il supporto del testo per descrivere le dinamiche mentali dei personaggi, i chiaroscuri della loro consapevolezza. Scriverò anche un racconto, forse un romanzo, perché se è vero che un film ha un potere di coinvolgimento dello spettatore molto forte, è anche vero che le immagini e l’azione svelano solo la superficie psicologica dei personaggi, quei tratti della personalità che sono funzionali alla trama della storia. Nei film, i personaggi ci vengono consegnati così come li vediamo, ma di loro sappiamo solo quello che emerge dai dialoghi e dalla recitazione: poco rispetto all’imprinting ricevuto, i sentimenti, i pensieri ricorrenti, le fantasie, le angosce, le ossessioni… Il racconto scritto di una storia consente invece di scavare nella mente dei personaggi fino al livello di profondità che si vuole esplorare. La possibilità di raccontare l’essere di ogni personaggio e la sua psicologia è un valore proprio del racconto scritto, che la cinematografia ha provato a integrare inserendo la voce narrante insieme ai salti nel passato (Forrest Gump per esempio),  ma è una tecnica che può essere impiegata solo per il protagonista (ideale per un racconto in prima persona), se non si vuole incorrere nel rischio di scadere in una segmentazione didascalica del senso, di far perdere allo spettatore la tensione partecipativa generata dal divenire della storia nel presente.

Il tema dell’interfaccia come rappresentazione psicofisica di ciò che siamo mi ha sempre affascinato; l’avevo in mente da molto tempo, dalla prima volta che mi sono chiesto quale fosse la difficoltà del pensiero a codificare le emozioni e i sentimenti; e perché quando cerchiamo di esprimerli con parole e comportamenti non ci riusciamo come avremmo voluto fare. Un esempio della progressiva alterazione dell’intento lungo il percorso, credo lo abbiamo sperimentato tutti durante l’adolescenza: quando non riuscivamo mai ad esprimere quello che sentivamo di essere. Se frughiamo tra i ricordi e proviamo a misurare il divario tra come avevamo progettato di comportarci in certe occasioni e ciò che invece è avvenuto, non può che sorgere il sospetto che i nostri sentimenti, pensieri e proponimenti siano stati stati filtrati, se non distorti, nel percorso che hanno fatto per arrivare all’interlocutore; tra la partenza e l’arrivo ci dev’essere stata un’impercettibile fermata in una qualche stazione e sconosciuta che ha rimescolato le carte dell’Identità. La stazione fantasma, in realtà è un software che processa ed elabora le componenti dell’Essere, al fine codificarle in modo tale da renderle intellegibili a noi stessi e agli altri; al resto pensano poi le convinzioni che danno forma all’Intento: è ciò che chiamo: ” L’Interfaccia.

La prima volta in cui ho avuto il sospetto che la mia consapevolezza fosse solo l’interfaccia di me stesso ci sono rimasto male. Avevo poco più di vent’anni, con gli ormoni perennemente in guerra contro i neuroni e sofferente di quell’insostenibile bisogno di dare un nome e un senso a ciò che percepivo e pensavo. Leggevo molto e di tutto, convinto che le risposte alle mie domande le avrei ottenute dai libri, ma ho trovato invece altre domande; tempo perso, verrebbe da dire, se non fosse che alcune di quelle letture mi hanno indotto a riflettere sulla correttezza delle domande che mi ponevo, sulla natura del bisogno che mi aveva spinto a formularle. Schopenhauer, per esempio, mi ha fatto capire quanto fosse stupido che Io, Interfaccia di me stesso, mi rivolgessi delle domande sul perché e il per come percepivo le cose e i sentimenti in un modo piuttosto che in un altro: Io, incarnazione del Lógos ed espressione del suo percorso evolutivo, mi sono scoperto derubricato a interfaccia di entità sommerse con le quali condividevo l’esistenza.

Indagare la natura dell’Interfaccia e le sue dinamiche forse interessa a pochi, ma se ci chiediamo chi ha scritto il software che ci fa essere ciò che siamo, e se possiamo modificarlo, allora l’argomento si fa interessante per chi sa leggere tra le righe.
Credo che capire come funzioni la nostra Interfaccia, possa rivelare molte più informazioni su noi stessi di quelle che conosciamo o crediamo di conoscere.


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