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“L’Intervista” a Paolo Roversi -1ª parte-

Creato il 10 marzo 2011 da Yourpluscommunication


“L’Intervista” a Paolo Roversi -1ª parte-

Perché il crimine diventa mito?

Il crimine diventa mito perché a noi giallisti piace indagare la nostra parte oscura penso. Tutti gli uomini sono attirati dal bello ma anche dal male. E’ nella natura umana. Non ti saprei dire so se c’è una ragione particolare per cui ne siamo attratti ma, lo siamo. Lo siamo morbosamente. Se pensi ai delitti di cronaca che ci vengono strombazzati da Cogne in avanti. Novi Ligure e adesso il delitto di Yara fanno le prime dei giornali e noi siamo tutti lì a voler sapere “perché?”. E noi giallisti, con le nostre, vogliamo indagare le ragioni del male.

“L’Intervista” a Paolo Roversi -1ª parte-
Paolo Roversi

Quando un giallista ascolta e vive fatti come Yara o Sarah, li legge, secondo te, come un normale telespettatore o lo fa in maniera diversa?

Io posso rispondere per me: la mia idea è sempre  “se fosse un romanzo, come svilupperei la trama?”. Lo so che forse non è molto popolare la cosa che sto dicendo, nel senso che sembra tu marci sulle disgrazie altrui ma, in realtà, non è così. Una cosa che mi sono detta di Yara è quello che nella criminologia è un classico e cioè:se dopo due giorni non l’hanno trovata, è chiaro che non è più viva. Come le due bambine scomparse a Losanna…secondo me, non c’è nessuna possibilità di trovarle vive.  Eppure in televisione anche dopo settimane e settimane cercano di darci questi indizi, questa possibilità “che forse le ritroveremo” e quindi ti domandi “perché”: cercano di fare audience? In realtà nel romanzo, poi non creeresti mai una situazione del genere perché, al lettore, dovresti far credere che in realtà è così rispetto a degli indizi veri che hai fornito per portare avanti la narrazione. I fatti di cronaca ci fanno interrogare su come noi (giallisti ndr) li scriveremo.

La società criminale di oggi, per te, somiglia più a: un giallo, un noir, un thriller?

La società criminale di oggi, in realtà, somiglia più ad una multinazionale. Si è messa i guanti bianchi, ricicla i soldi e, specialmente qui a Milano, acquista immobili ed attività in centro riciclando il denaro dei loro traffici. Non è più una criminalità che spara, non è più una criminalità che agisce a volto scoperto come una volta e quindi..non c’è nessun thriller, non c’è nessuna suspense: è tutto abbastanza chiaro…

“L’Intervista” a Paolo Roversi -1ª parte-

Hai detto che “un giallo senza morto è come il sesso senza orgasmo”. Non credi che nella realtà si “goda” troppo?

Io penso che nella realtà si parla di cronaca quando non si vuol parlare dia altro. Cioè: i morti ammazzati dei fatti di cronaca ci sono sempre stati perché qualcuno che fa fuori la moglie, qualcuno che rapisce e violenta una donna è nella cronaca millenaria del mondo. Nei giornali c’è sempre stata. Adesso, ne parliamo a cicli abbastanza ravvicinati uno dall’altro perché? Perché magari non abbiamo interesse a raccontare altre cose. Se noi facciamo otto puntate di approfondimento con un plastico di una casa in montagna per capire esattamente o per dimostrare esattamente che poteva essere stata solo la madre secondo me, dopo la prima puntata con il primo plastico, avevamo tutti capito. C’era bisogno di farne altre sette? Oppure stiamo cercando di  raccontare altro o di sviare l’attenzione ad altro?

Credi possa esistere una correlazione tra l’alto numero di lettori noir e la spettacolarizzazione del crimine?

Non credo che, il fatto che parlare di cronaca nera e sia esattamente correlato al fatto che la gente legga i gialli anche perché, e mi riferisco soprattutto alla letteratura gialla italiana, noi cerchiamo di raccontare la società. Già il noir è una scusa per mettere la lente d’ingrandimento sulla nostra società, su una città, su un determinato gruppo di persone e raccontarlo e, il delitto è il modo per raccontare tutto quello che sta tutto intorno ad una persona quindi, il bello e il brutto. Sembra quasi una scusa. E’ un modo per raccontarlo. Si potrebbe anche fare a meno del morto ma, il morto, aiuta, crea quella suspense che rende il tutto più avvincente. A Nessuno di noi giallisti, però, penso interessi raccontare o scrivere un libro soltanto per svelare alla fine chi è l’assassino. Certo ci sta nello schema classico ma, intanto, noi ti raccontiamo una storia cercando di raccontare anche altro, non soltanto chi è il cattivo.

“L’Intervista” a Paolo Roversi -1ª parte-

Credi che il gioco tra realtà e finzione piuttosto che il romanzo, aiuti a far trapelare molte verità nascoste?

Si, assolutamente. Nel mio ultimo romanzo “Milano criminale” ci sono un sacco di interrogativi su alcuni morti, come nel caso Pinelli, il più eclatante, ma anche Piazza Fontana o il delitto della Cattolica. Per quest’ultimo delitto accaduto più di cinquant’anni fa di cui non abbiamo una verità giudiziaria. Quindi raccontare queste storie è innanzi tutto un modo per non fare dimenticare poi, per la fiction, spesso, do e trovo le mie risposte. Che dopo sicuramente non è la verità giudiziaria è un fatto. Certo se abbiamo il paraocchi non vediamo ma se ci vogliamo informare e leggiamo, capiamo come stanno le cose…

Giovane ma già guru del noir italiano, hai scritto e ideato soggetti per fiction tv come “Distretto di Polizia”. Come nascono i tuoi personaggi?

In “Distretto di polizia” io sono entrato in corsa quindi mi hanno proposto di scrivere delle sceneggiature per Distretto (ndr) quando avevano finito di girare la nona serie, quindi dovevano girare l’undicesima e la dodicesima ed ho scritte quelle. Tutto era abbastanza impostato. Non dovevo inventare niente se non le storie criminali quindi non mi son preoccupato tanto dei personaggi quanto di trovare delle storie originali che non fossero già state raccontate prima. Nelle nove serie precedenti, di ventiquattro puntate ognuna, si era già un po’ parlato di tutto, quindi la difficoltà lì era nell’essere originali in ciò che si andava a raccontare.

“L’Intervista” a Paolo Roversi -1ª parte-

“Milano Criminale” ricorda una fortunata serie romana…un auspicio?

Beh si, sicuramente. Ho apprezzato tantissimo prima il libro, poi il film, poi la serie. Quello che ci siamo chiesti con l’editore, Rizzoli, è stato “perché non si è raccontata la mala milanese di quegli anni?”. Perché a Roma c’era la Banda della Magliana, a Milano ce ne sono molte di più di batterie e poi, c’era qualcosa di diverso infatti, il mio libro si apre prima della storia di Romanzo Criminale perché siamo nel ’58 quando c’è la rapina di via Osoppo. La rapina più grande, cioè, che sia mai stata fatta in Italia la vera rapina al treno perché loro (ndr) avevano rubato seicento milioni di lire nel ’58 che corrispondevano a duemila anni di stipendio di un operaio dell’epoca. Era perciò un fatto fantasmagorico. E poi abbiamo avuto il solista del mitra, la banda Cavallero, il clan dei Marsigliesi, abbiamo avuto Vallanzasca e Turatello. C’era, quindi, tantissimo materiale da cui attingere ed io, ho attinto!

In “Pescemangiacane” la realtà inonda il tuo romanzo. In “Milano Criminale” vai a ritroso nel tempo sebbene,soprattutto al nord, quel periodo si vuol dimenticare. Se lo scrittore esorcizza il male con la penna, che consiglio dai al lettore?

Di rimanere informato, sinceramente. Perché il male fa parte della vita, fa parte del nostro essere quindi intanto non bisogna negarlo, bisogna accettarlo, sapere che c’è e combatterlo con i mezzi che abbiamo che sono: l’informazione ed il sentirsi liberi ragionando con la propria testa. Questi sono gli unici strumenti che abbiamo.

“L’Intervista” a Paolo Roversi -1ª parte-

Se fossi l’avvocato del “diavolo” Vallanzasca, quale sarebbe la tua arringa finale contro la giustizia?

Io provengo dalla scuola dei “guardia e ladri”e qui a Milano c’era quella che veniva chiamata che era chiamata la “ligèra” ovvero una malavita guascona, che rubava per fame ed aveva questo rapporto con la polizia: tu sbirro, che fai questo mestiere, se mi prendi hai vinto, se io, che faccio il mestiere di ladro, ti scappo, ho vinto io. Ed io, facendo l’avvocato del diavolo, vorrei che si tornasse a quel rapporto cioè che mentre nel mondo di oggi gli inermi o chi non c’entra niente vengono a morire mentre, una volta, gli sbirri sparavano soltanto ai banditi e i banditi sparavano soltanto agli sbirri. Non c’era nessuno che si metteva in mezzo e ci rimetteva le penne. Ecco, questo è l’auspicio che potrei fare.

E se fossi l’avvocato della giustizia, quale sarebbe la tua arringa finale contro Lutring?

Lutring io lo conosco ed è difficile volerlo condannare (è così simpatico Luciano). Certo a voler pensar male, come dice qualcuno, si fa peccato ma spesso ci si indovina. Lui era si il solista del mitra, non ha mai sparato a nessuno e faceva questi colpi, diciamo, da gentiluomo però nella storia del mio libro c’aveva il mitra ed il mitra era carico. Quindi se un giorno gli fosse andata male, ed invece gli è andata quasi sempre bene, avrebbe potuto causare qualche problema in più o forse spegnere qualche vita. Ecco questo è assolutamente un fatto da condannare.

Marina Angelo


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