«Obama? Una grandissima delusione. Sono stato fra i primi a credere in lui, ad appoggiarlo, ma adesso devo confessare che mi è diventato perfino antipatico». Philip Roth, forse il più illustre dei narratori americani d’oggi, autore di capolavori quali Lamento di Portnoy, Pastorale americana, Zuckerman scatenato e, da poco uscito in Italia, Indignazione, esprime con forza, per la prima volta, il suo giudizio fortemente negativo sull’attuale Presidente Usa. Ci tiene a farlo subito, nella nostra conversazione telefonica.
Quando lo si ascolta parlare, con quella sua voce bassa e appena rauca, in cui le parole escono a ritmo ora velocissimo ora esitante, con quel tono malinconico, inquieto, ma capace d’improvvise, fulminanti, accensioni d’ironia, sembra davvero di essere dentro una delle pagine dei suoi romanzi. È come se quella, proprio quella fosse la voce di tanti personaggi di Philip Roth.
«Arrivato a settantasette anni - spiega - mi piace parlare della realtà che ho attorno, una realtà che mi fa arrabbiare ma che mi interessa ogni giorno di più». E premette che non dirà molto sulla letteratura: «La letteratura mi è indispensabile, è la mia vita, ma non so cosa dirne, ogni discorso sui libri mi sembra superficiale, stupido, e molto noioso».
Parliamo subito di Obama, allora. Perché tanta delusione?
«Perché non ha fatto nulla, in questo primo anno, nulla di rilevante, nulla di diverso da quello che la banale quotidianità del potere lo portava a fare. Si dirà: la riforma sanitaria. Ebbene, quella è un’ottima novità per l’America, ma non basta. Sembra una bandiera sventolata per mascherare il nulla, perché i risultati di questa presidenza per ora sono il nulla».
Lei è stato un acceso sostenitore dell’elezione di questo Presidente…
«Sì, perché nella sua campagna elettorale c’era davvero qualcosa di nuovo, di straordinario. Con quelle sue espressioni “hope” e “change”, ripetute con un’efficacia mai vista, a metà fra il moderno slogan pubblicitario e la cantilena d’uno sciamano, Obama era riuscito a svegliare l’America dal torpore della sua frustrazione, da quel grande senso di impotenza, di ansia, di sfiducia che nell’ultimo decennio ha dominato il Paese. Era stato capace di dare vitalità e slancio a chi lo ascoltava. Non nascondo di essere rimasto quasi incantato a seguire i suoi discorsi, io che non sono certo facile ad entusiasmarmi per le parole… Allora ho creduto, e con me tantissimi americani, che fosse arrivato davvero un tempo nuovo per la politica, un tempo dove creatività e intelligenza si unissero alla capacità di ascoltare la voce di un Paese e di sapervi rispondere».
E invece?
«Invece, niente. Appena eletto, fin dai primi giorni del suo lavoro alla Casa Bianca, Obama si è come fermato, addormentato. Lui, che aveva scosso l’America, si è assopito nei meccanismi del potere. Ha continuato a ripetere le sue frasi più belle della campagna elettorale, ma non ha aggiunto nulla di nuovo, e soprattutto, non ha fatto seguire le azioni. Forse ha cominciato a pesare la sua inesperienza, forse è restato prigioniero di una eccessiva valutazione che la gente aveva di lui. Di fatto, i suoi discorsi hanno preso a girare a vuoto, sempre uguali, accompagnati da gesti, sguardi e sorrisi ormai ripetuti ossessivamente, che prima lo hanno reso simpatico e ora lo rendono fastidioso, quasi antipatico. E i risultati si vedono».
Quali risultati?
«L’America è confusa, frustrata. Quel diffuso senso di paura dell’ignoto, di ansia, di impotenza che l’11 settembre ha contribuito in modo decisivo a scatenare, lacerando le certezze, devastando insieme alle torri di New York anche la percezione che il Paese aveva di sé e della propria forza, è rimasto. Anzi, la crisi economica, figlia in qualche modo di quell’insicurezza, di quella sfiducia che regnano nelle persone, ha addirittura peggiorato le cose».
Obama ha deluso anche in politica estera?
«Sì. Con Bush vigeva la logica dell’intervento militare, della lotta contro il terrorismo fatta con le invasioni militari. Una logica a mio avviso sbagliata, e che si è dimostrata perdente. Ma almeno, chiara. Quale è la strategia di Obama? Nessuno ancora lo sa. Parla di dialogo, e va benissimo. Ma di fatto Al Qaeda è sempre più forte e organizzata, un regime pericoloso e delirante come quello iraniano sta attrezzandosi con l’arma nucleare e si attrezza per colpire Israele, e lui, il presidente, sembra eludere il problema. Con l’Iran un giorno sembra voler aprire una trattativa (ma non si può aprire una trattativa con chi è, in tante cose, l’erede dei nazisti!), e il giorno dopo riafferma la necessità della fermezza. Cosa vuole fare in Afghanistan? Nuove truppe o disimpegno? Approva e sostiene il governo israeliano o sta dando ragione ai palestinesi? Impossibile rispondere. Ma un dato di fatto è certo, e Obama mostra di non tenerne conto».
Cioè?
«Cioè che, come l’11 settembre ha dimostrato, oggi il nemico vero, paragonabile al nazismo degli anni Trenta, è l’estremismo religioso e sanguinario, il terrorismo soprattutto di matrice islamica. A mio avviso, il dialogo non serve. E con chi si dialogherebbe, del resto? Ma nemmeno serve, come faceva l’amministrazione Bush, invadere Stati, intervenire militarmente. Serve, piuttosto, un sostegno effettivo a quelle forze che, all’interno dei Paesi dove il fondamentalismo è più forte o dove è addirittura regime al potere, si battono per contrastarlo. E, insieme, dare più forza, poteri e credibilità all’Onu, riformandolo completamente. Quello che è meno utile, è questa confusione, questa assenza di una linea chiara nella politica estera americana: questo fa contenti gli oltranzisti e i terroristi, indebolisce chi vi si oppone, e, a livello interno, fa sentire l’America sempre più sbandata, sempre più cupa».
Come vede l’Europa?
«Politicamente, mi sembra che l’Europa non ci sia, non decida nulla, non conti nulla. L’Europa è la sua cultura, la sua storia. E di questa cultura, di questa storia, dovrebbe essere più fiera, mantenendo una sua peculiarità, una sua autenticità, senza diventare, chissà poi perché, seguace di mode e modelli che vengono da fuori. A me, come americano, l’Europa piace e incanta se è sé stessa, non una mal riuscita imitazione dell’America».
Capisco la sua volontà di non parlare di letteratura. Ma non resisto. Posso chiederle chi sono, oggi, i suoi autori preferiti?
«Sto rileggendo Singer, e lo trovo sempre più grande. Splendido e tristissimo. Ma non mi chieda di più».
Chi riconosce come suo maestro?
«Ecco, mi aspettavo la domanda. Il problema è che, quando scrivo, la scrittura nasce da un’esigenza di raccontare, troppo forte per essere frenata anche se a volte mi capita di fermarmi, di non riuscire ad andare avanti, di sentire che tutto è finito, che l’angoscia che ho dentro non lascia più posto alle storie, che le storie possibili sono state tutte uccise, costrette a non esistere, a non nascere. Quando attraverso quei momenti, e negli anni sono diventati più frequenti, a volte basta la frase di un romanzo che mi torna alla mente, la battuta di un personaggio in un libro, per tirarmi fuori dal buio, per ridarmi la possibilità e la capacità di scrivere. Ecco: l’autore di quella frase, di quella battuta, è in quel momento il mio indispensabile maestro. Un momento può essere Cechov, un altro Saul Bellow, un altro ancora, appunto, Singer. Posso risponderle solo così».
E Bernard Malamud?
«Riconosco di dovergli molto. È un autore che talvolta, a leggerlo, lascia senza fiato. Cosa gli devo e perché, lo lascio dire ai critici. Loro scoprono cose straordinarie, di cui noi autori neppure ci accorgiamo…».
Lei è da anni candidato al Nobel. Ma il premio non è mai arrivato. Come giudica questa ripetuta esclusione?
«Non ritengo che il mio pessimismo, la mia indignazione, la mia rabbia siano da Nobel, gli accademici svedesi hanno altri gusti, altri parametri… Ognuno fa le scelte che vuole, e non sono certo io a giudicarle giuste o sbagliate. Se cambieranno idea, andrò a Stoccolma e sarò contento di ricevere il premio. Però mi creda: non ci penso mai, anzi, questo diluvio di ipotesi che ogni anno mi arriva addosso con i primi freddi dell’autunno mi disturba non poco, non sopporto questo gioco delle candidature. Diano il Nobel a chi vogliono e basta così».