Julian Assange, attualmente ”risiede” nell’Ambasciata dell’Ecuador a Londra, a poca distanza dalla sede di Scotland Yard.
Il re degli hacker è destinato a rimanere all’interno delle mura franche dell’ambasciata per molto tempo, almeno fin quando non si trovi una soluzione che rispetti il diritto internazionale, che convinca tutte le parti in causa e che gli permetta di salire su un aereo per raggiungere l’Ecuador - dove potrebbe beneficiare della condizione di rifugiato diplomatico.
Il ministro degli esteri di Quito, attraverso le televisioni nazionali, ha dichiarato oramai da tempo che Julian Assange, l’uomo che attraverso il suo sito internet ha pubblicato 250mila documenti della diplomazia americana (e non solo), sarebbe stato accolto come rifugiato diplomatico nel proprio Paese.
La situazione è però molto più complessa e non riguarda esclusivamente l’Ecuador e l’Inghilterra, ci troviamo infatti dinanzi ad un labirinto giuridico con pesanti ripercussioni sul piano politico.
La Corte Suprema di Londra ha risposto positivamente alla richiesta di estradizione formulata da Stoccolma, che accusa il giornalista australiano di avere stuprato due donne. Assange dal canto suo si dichiara innocente ed afferma di trovarsi vittima di un complotto avente come ultimo fine l’estradizione negli Stati Uniti – qui potrebbe attenderlo persino la pena di morte[1] per aver violato segreti di Stato.
Secondo il Governo dell’Ecuador Julian Assange ha ”legittima ragione” a definirsi perseguitato proprio perché se venisse estradato in Svezia rischierebbe veramente di essere trasferito negli USA. Dal canto suo Washington, in una nota ufficiale, ha dichiarato di non riconoscere il concetto di asilo diplomatico[2].
La reazione Inglese si è mostrata al limite della scompostezza. Il Foreign Office ha comunicato (17/08/2012) a Quito di potersi avvalere di una legge del 1987 la quale stabilisce la possibilità di sospendere l’inviolabilità delle sedi diplomatiche in casi di eccezionali gravità [3] .
La risposta del Governo Correa non si è fatta attendere, prima con parole dure additando Londra di essere ancora legata ad una logica coloniale, poi con dichiarazioni più diplomatiche ricordando l’importanza della difesa della libertà e dei diritti dell’uomo.
Perchè l’Ecuador
Il 12 dicembre del 2008 il popolo ecuadoriano ha eletto come presidente del governo Rafael Correa che ha ereditato una situazione di certo non rosea del suo Paese. La prima mossa politica del neo presidente è stata un discorso che raccolse la curiosità di tutta la macro-area latinoamericana e che è stato trasmesso dalle tv di ogni Paese. In tale occasione Rafael Correa ha reso nota la decisione di cancellare il debito nazionale in maniera unilaterale con una motivazione ben precisa: il debito di 11 miliardi di Euro è immondo perché immorale [4].
Il Fondo Monetario Internazionale, dal canto suo, ha replicato a queste dichiarazione per bocca di Dominique Strauss Kahn (allora segretario dell’ente) che ha confermato la cancellazione dell’Ecuador dal novero delle Nazioni civili e che non avrebbe mai più avuto alcun aiuto economico.
Il destino di questo piccolo Paese latinoamericano sembrava prendere una strada disastrosa mettendo in pericolo ogni possibilità di sostentamento della popolazione. Il giorno dopo, il presidente del Venezuela, Hugo Chavez, è stato il primo a prende una posizione netta: il suo Paese avrebbe fornito all’Ecuador gas e petrolio a costo zero per un periodo della durata di dieci anni.
A poche ore da queste dichiarazioni fu il Governo brasiliano a mobilitarsi e lo annunciò pubblicamente il suo presidente Lula evidenziando come lo Stato carioca avrebbe inviato, sempre a costo zero, cento tonnellate al giorno di grano, soya, mais, riso e frutta per tutto il tempo necessario per far si che l’Ecuador potesse tornare ad una condizione economica stabile.
A tali iniziative non poterono non allinearsi altri Stati: l’Argentina annunciò la donazione del 3% della propria produzione di carne di prima scelta allo scopo di garantire la quantità minima di proteine per la popolazione; Evo Morales decise di legalizzare la produzione di foglie di coca tassandone i produttori in modo tale da offrire all’Ecuador un prestito pari a 6 miliardi di euro con un tasso d’interesse pari a zero e con la possibilità di restituirlo in 10 anni attraverso 120 rateizzazioni.
Quito, forte dell’appoggio della maggior parte delle potenze economiche della macro-area, decise per un’altra radicale manovra politica ed economica, questa volta indirizzata ad arginare lo sfruttamento agricolo da parte delle multinazionali straniere. Correa denunciò le società che gestivano la produzione delle banane nel Paese con l’accusa di schiavismo e crimini contro l’umanità. Pertanto nazionalizzò l’industria agricola delle banane fino a diventarne il maggior esportatore mondiale.
Dopo questa manovra, lo stesso Correa lanciò un piano di investimento sull’agricoltura biologica di qualità con lo scopo di coinvolgere l’intera popolazione ecuadoregna. Il piano attirò gli investitori esteri e dopo pochi giorni i rappresentanti di alcuni dei maggiori gruppi di distribuzione alimentare europei, dichiararono attraverso di essere estremamente interessanti a stipulare contratti decennali per l’acquisto delle banane.
Tutto ciò acuì i rapporti tra l’Ecuador ed alcuni Paesi al di fuori del continente latinoamericano su tutti gli Stati Uniti guidati dallo già sconfitto G. W. Bush. Questi non esitò a prendere le parti della United Fruit dichiarando inammissibile la decisione dell’Ecuador e richiedendo contestualmente l’espulsione di Quito dall’ONU – oltre a minacciare un intervento militare nei confronti dello stesso Paese Latino.
A questo punto lo scacchiere si mostra in tutta la sua complessità. Stretta tra i due oceani, si sta configurando una frattura che, generata dal rifiuto del debito di un piccolo Paese, potrebbe interessare le gradi potenze dei due continenti.
A dimostrazione di ciò si riscontra il pagamento, da parte del governo brasiliano, della parcella di uno studio legale di New York. Questo, il giorno dopo le dichiarazioni del presidente americano, ha presentato una memoria difensiva per l’Ecuador sostenendo l’esistenza di un precedente legale datato 4 gennaio 2003 proprio con la firma del presidente USA. In tale precedente, gli Stati Uniti avevano cancellato il debito iracheno che ammontava a duecentocinquanta miliardi di euro – tutto ciò attraverso l’applicazione del concetto di “debito immorale”. Poco dopo la deposizione delle memorie difensive, gli Stati Uniti hanno imposto alla Comunità internazionale l’accettazione e la legittimità dell’ ”immoralità di un debito sovrano”.
Da questo episodio della recente storia, nasce una nuova geografia di rapporti tra il continente latinoamericano ed il resto del mondo e nasce soprattutto una nuova storia per l’Ecuador: un piccolo Paese che con determinazione è riuscito a sottrarsi ai ricatti di un economia post coloniale basata sullo sfruttamento.
Prospettive geopolitiche dell’Ecuador
Ad oggi il caso Assange sembra parlarci allo stesso tempo, di geopolitica e di libertà di informazione in rete. Tuttavia tale visione, se pur complessa, appare superficiale ed in grado di celare scenari ancor più intrigati.
La presa di posizione dell’Ecuador, un piccolo Stato nel nord dell’America Latina, ricorda a tutti che il mondo non è più quello di dieci anni fa e che le maglie dell’interazione internazionale si sono allargate. Il caso ecuadoregno è solo una delle tante situazioni che mettono in tensioni rapporti geopolitici che sembravano ormai essere granitici. A tal proposito possiamo citare lo scontro in atto tra l’ONU ed il Brasile – aggravato anche da una gestione non proprio impeccabile del Direttore Operativo del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde. Ed è proprio il Brasile ad aver scalato la classifica delle potenze economiche stabilendosi all’ottavo posto (superando l’Italia che scende al nono) ed avendo come “naturale” conseguenza la cancellazione del G8 e la sua trasformazione in G10. Una scelta politica che sembra essere il colpo di coda di un’Europa, con Inghilterra e Germania In testa, che sembra non potere (o non volere) accettare la crescita esponenziale dei Paesi latinoamericani e la loro prepotente irruzione sul palcoscenico della storia contemporanea in qualità di soggetti politici autonomi.
In questo nuovo Sud America, a parte la Colombia dove vige un governo conservatore ed alleato di Washington, si distinguono due modelli dominanti nella macro-area: il primo socialdemocratico moderato (Brasile, Cile, Perù ed Uruguay), il secondo maggiormente legato alla tradizione della “sinistra” radicale (Venezuela e Bolivia, più propriamente “bolivariani”). Tra queste due ”polarità” si colloca l’ Argentina della presidente Cristina Kirchner.
L’Ecuador risulta attualmente a metà strada tra intenti di riforme sociali importanti ed un modello di sviluppo che si avvicina molto a quello di stampo neoliberale. Il Governo Correa si è prepotentemente candidato ad essere il più duraturo della tumultuosa storia dell’Ecuador. Alla base di questa stabilità c’è sicuramente il lavoro fatto per costruire una Costituzione totalmente ”ri-tarata” sul rispetto dei diritti umani, per l’ambiente per le pluralità e le diversità culturale. Se consideriamo gli ultimi cambiamenti economici portati avanti da Quito non si può non evidenziare i benefici portati dalla rinegoziazione dei contratti petroliferi con le multinazionali che si occupavano dell’estrazione e della esportazione. L’Ecuador è un esportatore di petrolio che nel corso degli anni passati non ha mai beneficiato concretamente dei profitti provenienti da tale settore – se non in minima parte nella vendita – ciò a causa delle elevate percentuali che sono state incassate dalle multinazionali straniere. Una nuova legge nel luglio 2010 ha radicalmente cambiato tali condizioni aumentando la quota del governo dal 13% al 87% dei ricavi lordi del petrolio.
Correa, inoltre, è riuscito a gestire un radicale aumento delle imposte dirette e ad attuare moltissime altre riforme ed investimenti: l’espansione diretta del pubblico impiego, l’aumento dei salari minimi e le misure di sicurezza sociale per i lavoratori, la diversificazione dell’economia – per ridurre la dipendenza dall’esportazione di petrolio – e la ridefinizione dei partner commerciali – con l’intento di ridurre al minimo i rapporti economici con gli Stati Uniti. In fine, una vera e propria innovazione è rappresentata dalla Yasuini-TT biosphere Reserve. Si tratta forse del primo tentativo credibile di evitare le emissioni di gas serra. Come? Lasciandolo sotto terra. La presidenza Correa è arrivata alla Conferenza sui Cambiamenti Climatici di RIO+20[5] con una proposta, per molti, innovativa: l’Ecuador avrebbe smesso di trivellare i pozzi nella regione del Yasuini nè avrebbe iniziato a sfruttare i pozzi attualmente inattivi. In cambio la Comunità Internazionale avrebbe versato nelle casse dell’Ecuador una somma pari alla metà della previsione dei proventi della vendita del petrolio. Con quei soldi (non la totalità) l’Ecuador avrebbe finanziato programmi di sviluppo sulle energie rinnovabili. Questo non solo per preservare la biodiversità della zona ma anche per conservare i territori abitati dalle popolazioni indigene. Con questa iniziativa, l’Ecuador si propone di utilizzare l’eco-turismo per rendere l’attività umana compatibile con l’ambiente.
Ci troviamo, insomma, non solo di fronte ad un piccolo Paese che sta pian piano cercando scegliendo cosa ”vuole fare da grande”, l’Ecuador sta concretamente trovando il suo posto nel nuovo Sud America che si autodetermina non più come un enorme ”supermercato” a disposizione delle superpotenze occidentali, ma come una macro-area capace di determinare i processi economici, politici e geopolitici del mondo. Non c’è da stupirsi quindi se in una nota ufficiale, il Presidente Correa dichiara che nei prossimi mesi si recherà in Europa per degli incontri ufficiali a Bruxelles al fine di valutare la possibilità di aumentare la collaborazione economica con i Paesi del Vecchio Continente.
Sembra tracciarsi una nuova strada che non sembra interessata ad emulare le ricette di crescita che hanno accompagnato lo sviluppo delle potenze occidentali, bensì proiettata verso un “modello Indiolatino” capace di aderire alle necessità dei Paesi stessi. Il caso Assange, come detto, parla di molto di più di quello che traspare attraverso i media. Sembra, più che altro, essere una giusta vetrina per mostrare a tutto il mondo che si può essere differenti, che è possibile dire no senza timori anche se si è un piccolo Paese latinoamericano. Tutto questo palesa ulteriormente le fragilità di equilibri che sembrano oramai destinati a mutare e l’esistenza di contraddizioni che impongono una profonda riflessione sugli strumenti utilizzati fino ad ora per organizzare e gestire i rapporti internazionali.
*Tiziano Ceccarelli laureando in Cooperazione e Sviluppo presso l’Università “La Sapienza” di Roma.
NOTE:
[1]Se il processo si svolgesse negli stati dell’ Ohiho, Florida, Georgia e Texas.
[2] http://www.state.gov/r/pa/prs/ps/2012/08/196663.htm
[3] http://www.fco.gov.uk/en/news/latest-news/?view=PressS&id=806149882
[4] http://www.youtube.com/watch?v=AE5NOkrMgXA&feature=related
[5] http://www.uncsd2012.org/index.php?page=view&nr=82&type=1000&menu=126
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