Io vorrei sapere che cosa ci fa, quel tizio, nel mio giardino. Non che il giardino in questione sia propriamente mio: lo è stato fino a 25 anni fa più o meno, e cioè per tutta la mia infanzia ed adolescenza. Conoscevo tutto: ogni singola vecchia crepa della casa il cui retro si apriva su un terrazzo, dove una breve scaletta di pietra portava allo spiazzo di ghiaia e poi al prato in cui crescevano cespugli, due pini e una grande quercia. In quel giardino ho seppellito giocattoli e ho inciso scritte con le pietre sui muri e sui tronchi degli alberi. Su un tavolino riponevo quadrati di stoffa o giornali a fumetti che cercavo di vendere ai miei amici del quartiere, i quali si industriavano con tavolini simili, nei loro giardini, per vendere giocattoli usati.
Quello che mi chiedo non è solo l’identità e il salvacondotto dell’usurpatore, ma anche come faccia il signor G. (Google) – magari me lo saprebbe spiegare qualche lettore – a mostrare certi dettagli, nelle mappe. Ebbene, il satellite può ingrandire il mondo dall’alto fin nei minimi particolari, ma come può fotografare un uomo inquadrandolo di fronte? Esiste dunque un mezzo a quattro ruote che attraversa ogni vicolo delle città e fotografa ogni cosa?
Perché quello che si vede, e si intuisce già dall’alto, è che la quercia esiste ancora. I pini non più perché al loro posto, dove si trovava il prato, è stato parcheggiato un grosso Suv. La ghiaia è stata sostituita da un lastricato e lì, al centro, si trova l’uomo; indossa una felpa, è in piedi, pare immobile. Costui ha visto qualcosa: guarda nell’obbiettivo, oltre le sbarre del cancello che dà sulla strada. Guarda come se avesse, proprio in quel momento, scorto che cosa o chi lo osserva.
O meglio, direi io, come se sentisse scoperto. Perché quel giardino è mio.
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